Varie, 25 febbraio 2002
FINARDI
FINARDI Eugenio Milano 16 luglio 1952. Cantante. Autore. «Negli anni Settanta si afferma come dotato cantautore capace di proporre brani rock resi interessanti da testi spesso impegnati e ideologicamente schierati. I suoi album più rappresentativi sono Non gettare alcun oggetto dal finestrino (1975), Sugo (1976, contenente La radio e soprattutto La musica ribelle, il suo brano più noto), Dal Blu (1983, contenente le ragazze di Osaka), Dolce Italia (1987), Millennio (1993), Occhi (1996)» (Dizionario della Musica Italiana – La canzone, Augusto Pasquali, Newton&Compton 1997) • «Trent´anni fa [...] usava il rock´n´roll e la chitarra elettrica per manifestare il proprio dissenso, scrivendo un piccolo inno generazionale come La musica ribelle, oggi utilizza la ricerca della spiritualità e del senso di sé. [...] ”Ho scoperto sulla mia pelle - dice - che è più ribelle fare un disco spirituale e andare a cantare in un concerto organizzato da francescani che fare il galletto alle assemblee, alzare ancora il pugno chiuso e poi arrendersi alle regole della heavy rotation e della televisione. [...] Ma ora il mio impegno è nelle problematiche più tangibili. [...] Mi piace smontare le canzoni come fossero delle scatole di Lego, trovarne il nocciolo, l´essenza. [...] In tanti anni di lavoro non sono mai riuscito a vedermi come un prodotto, sono coerente con me stesso non con il marketing”» (Alfredo D’Agnese, ”la Repubblica” 7/1/2004) • «Non fa più la musica di un tempo, o forse sì. Le 250mila copie de La forza del’’amore, la raccolta del 1990, sono un passato da non rimpiangere. Negli ultimi anni, Eugenio Finardi si è impegnato in operazioni lodevoli e deliberatamente di nicchia. Un tour di Fado. Uno spettacolo di musica sacra, ”per quanto io sia un ateo assoluto”. E il progetto Anima Blues. ”Il blues è sempre stato il segreto rifugio della mia metà americana, mi ha fatto ritrovare la voglia di suonare la chitarra elettrica”. [...] ”Il mio primo 45 giri, a 20 anni, era in inglese. Anima blues sarebbe stato il mio disco d’esordio, se non avessi accettato nel 1975 l’invito di Demetrio Stratos di passare dalla Numero Uno di Battisti alla neonata Cramps di Gianni Sassi, che voleva creare una musica alternativa al suono ”italiota’. Penso ancora che il mio disco più brutto sia Extraterrestre. Cercammo di riformare radicalmente la canzone italiana, ma anche in questo la nostra generazione ha perso, come cantava Gaber. Era un sogno che condividevo con gli Area, con Alberto Camerini. Un sogno contronatura: la vera musica italiana è proprio quella più deleteria, alla Gigi D’Alessio”. Come arrivò alla ”svolta cantautorale” degli 80? ”Un po’ mi spinse il mio manager di allora, Angelo Carrara, ma soprattutto dipese dalla nascita, nel 1982, di mia figlia Elettra, che ha la sindrome di Down. Mi spinse a scrivere cose più profonde. [...] Mi sono prepensionato. Ho conservato un fax di metà Anni 90 ricevuto dal direttore della mia casa discografica di allora, Massimo Giuliano della Wea. Era firmato dal suo vice: ”Caro Finardi, non ci interessano operazioni artistiche, ci interessano operazioni di marketing’. La musica è morta, da arte è diventata prodotto [...] Io ero un ragazzino pieno di spocchia, un berlingueriano legato al Pci [...] Temo che una certa dose di malessere interiore sia la mia condanna, ma sono fiero di essermi costruito una vita a mia misura. La cosa più difficile resta sempre ”sopravvivermi’. Mi aiutano il blues e l’acqua: le immersioni, la vela. Ho anche volato ultraleggero, ma le immersioni sono il massimo. Il mare è lo spazio, tu sei senza gravità [...] Nel 1971 sarei dovuto andare negli Usa e rimanerci a vita, ho ancora il doppio passaporto. [...]”» (Andrea Scanzi, ”La Stampa” 4/2/2006) • «[...] Nel ”76, eravamo a casa di Carlo Massarini a Roma, che si affacciava su una splendida terrazza. Lui sognava di essere dovunque meno che lì, mentre io fui assalito dalla stupefacente sensualità di Roma ai miei piedi: ho preso in mano la chitarra e mi è venuto questo concetto di uno trasportato in un posto che non gli appartiene, e infatti finii dicendo ”Voglio tornare per sempre a casa mia” [...] Una canzone ben riuscita è come una scultura: devi togliere strati di rumore e silenzi, finché arrivi all’opera compiuta [...]» (Marinella Venegoni, ”Specchio” 30/11/1996).