Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  febbraio 25 Lunedì calendario

FINI

FINI Gianfranco Bologna 3 gennaio 1952. Politico. Parlamentare dal 1983. Succeduto a Giorgio Almirante come segretario del MSI-DN (1987-90; rieletto nel 1991), ha fondato nel 1994 Alleanza Nazionale e nel 1995, con lo scioglimento del MSI, ne è divenuto presidente. Vicepresidente del Consiglio (2001-2004) e ministro degli Esteri dal 2004 al 2006. Eletto presidente della Camera nell’aprile-2008, si è dimesso dalla presidenza di AN • «La domanda più insidiosa è se Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato. L’uomo che [...] al congresso di Rimini, contendeva a Pino Rauti la guida del Movimento sociale, con le due fazioni avverse che assistevano allo spoglio dei voti gridando ”eja!” e ”a noi!” a ogni voto scrutinato, il ”fascista del 2000” pronto a giurare che i valori del fascismo erano assoluti, immodificabili, non storicizzabili, insomma eterni, abituato a festeggiare l’anniversario della marcia su Roma fra labari e braccia tese [...] Se farà un bilancio rigoroso ammetterà che dal cielo una mano santa gli ha consentito di commettere tutti gli errori possibili e di superarli come se niente fosse, con bellissimi quanto non dichiarati pentimenti. Leo Longanesi attribuì a Benito Mussolini la definizione teorica del fascismo: ”Pragmatismo assoluto trapiantato in politica”. L’ex massimo statista del secolo sarebbe lieto di considerare Fini come un buon allievo. Da quando Silvio Berlusconi sdoganò il pupillo di Almirante, a Bologna, anno di grazia 1993, dichiarando che fra Rutelli e Fini avrebbe scelto quest’ultimo, dato che ”condivide tutti i valori in cui credo” l’ex capetto missino è riuscito in uno slalom formidabile: nel senso che ha abbattuto quasi tutti i paletti, ma è riuscito con infinito pragmatismo (per l’appunto) a evitare che gli rimbalzassero in faccia; si è opposto a tutte le modernizzazioni possibili, e in seguito si è proposto come il possibile modernizzatore. Si era aggrappato, con tutti i camerati missini, alla zattera del sistema proporzionale, convinto che il maggioritario, ”voluto dalla Dc, dal Psi e dal Pds, dalla cupola della Confindustria e dal potere sindacale”, li avrebbe soffocati. In effetti se l´Msi fosse restato inchiodato dalla logica dell’arco costituzionale, sarebbe stato liquidato. E invece aveva incrociato il genio geometrico di Berlusconi, l’inventore delle due coalizioni simmetriche, al Nord il Polo delle libertà con la Lega, e nel resto d’Italia il Polo del Buongoverno con i missini. Così mentre Roberto Maroni sosteneva in campagna elettorale di avere stretto con Berlusconi un’alleanza in chiave antifascista, Fini poteva stringersi nelle spalle e aspettare con fiducia il futuro. vero: aveva perso il Campidoglio contro Rutelli, ma era stato premiato dal voto popolare, quasi portato di peso dentro la democrazia. Ora si godeva l’ingresso nel Palazzo, dopo una segregazione di cinquant’anni. Gli intellettuali d’area, come Marcello Veneziani, ripetevano che la destra aveva imparato ad amare la libertà (non proprio la democrazia, la libertà). Altro che il vecchio slogan ”tornate nelle fogne”: mentre non era ancora compiuta la trasformazione in Alleanza nazionale, i ministri post-missini potevano presentarsi in Europa. Magari per vedersi rifiutata la stretta di mano da un ministro belga; ma intanto occupavano posizioni, si facevano vedere, abituavano il continente alla propria presenza. E mentre il cosiddetto ”ministro dell’Armonia” Tatarella attaccava populisticamente i poteri forti, mettendo nel mucchio la Fiat, la Banca d’Italia e la Corte costituzionale, Fini poteva godersi il piacere squisito dell’accesso al potere, la visita del tutto irrituale del cardinale Sodano, le passerelle rosse stese davanti ai nuovi arrivati. E poteva infischiarsene delle polemiche aperte da Umberto Bossi, ”con la porcilaia fascista, mai!”, e anche del ribaltone, dei ”puttani” che avevano tradito il mandato del popolo. Nelle fasi di passaggio, succede. Intanto, ecco la qualità dello slalom: da proporzionalista disperato è diventato un fondamentalista del maggioritario, ”uninominale pura, a turno secco, all’inglese”, via la quota proporzionale (e perde il referendum perché non si accorge che Berlusconi ha virato). Da dipietrista assoluto, e da un sostegno fanatico ai magistrati del repulisti contro Tangentopoli, dall’ammirazione mostrata per Francesco Borrelli, giunge a una sfumatura più politicista e cavillosa, fino a sostenere la tesi para-berlusconiana che il pool di Milano ”colpì da un lato e chiuse gli occhi dall’altro”. Imprendibile Fini. Secondo alcuni, è l’uomo politico più moderno che ci sia in giro: anzi è oltre la modernità, è più in là, è nel pieno ”post” culturale. Da questo punto di vista è ammirevole la strategia che portò all´assemblea fondativa di Alleanza nazionale, nel gennaio 1995, le cui tesi dovevano unire ”autorità e libertà”. I numi tutelari del partito erano esibiti in un santuario di icone disparate: Schmitt, Pareto, Mosca, Michels, Sturzo, Rensi, Tilgher, Gentile, Spirito, Prezzolini, Papini, Marinetti, Soffici, Evola, d´Annunzio, Gramsci. Tombola. Già, Gramsci. E Sturzo. Inconsapevoli compagni di strada del ”partito degli italiani”, il partito nemico delle faziosità, il partito più vicino alla nazione e al popolo. Era inutile che lo scettico Veneziani arricciasse il naso (’Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale”): ciò che importava è che nell’opinione pubblica passasse il messaggio che l’Msi si era ripulito, era abile e arruolato per la democrazia liberale, una colonna del bipolarismo. Con un solo esamino da Bignami, Fini superava trionfalmente il guado che invece aveva sempre tenuto fuori gioco il Pci, per il quale gli esami democratici non erano finiti mai. Acque davvero miracolose, quelle di Fiuggi. Del resto, chi può dire quale fosse e quale sia l’ideologia finiana? Un certo gollismo per rassicurare il desiderio di autorità del suo elettorato anziano; un po’ di chiracchismo per dare allure al populismo post-missino; il sostegno assicurato alle destre di tutto il mondo, dai repubblicani americani ai cristiano-democratici tedeschi. Sicché non dovette apparirgli del tutto incongrua l’invenzione dell’Elefantino alle elezioni europee del 1999, l’alleanza con il liberale e maggioritarista Mario Segni; salvo poi smontarla subito, quella coalizione estemporanea, dopo il mezzo disastro nelle urne. Nella sua capacità di avvolgere di parole il suo eclettismo totale, ogni tanto Fini sbaglia qualcosa. Sbaglia ad esempio l’uscita contro i maestri gay, rivelando per un istante il vecchio volto omofobo del fascismo. Ma non sbaglia la lunga traversata che lo porta in Israele, prima facendosi intervistare dal quotidiano israeliano di sinistra ”Ha’aretz” e chiedendo scusa per le leggi razziali del 1938, e poi con la storica visita in cui rende omaggio allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, e dichiara che la politica razziale del fascismo appartiene alla categoria del ”male assoluto”. Si arrabbiano tutti, in Italia, gli ex camerati, ma dopo qualche giorno di sbandamento e di rutilanti dichiarazioni di Francesco Storace se ne va soltanto Alessandra Mussolini. Sono i miracoli di un eclettico. Di un pokerista. Di uno che è stato ammiratore e sodale di Jean-Marie Le Pen e che poi è diventato uno strenuo avversario del lepenismo. Che passa indenne attraverso il disastro nostalgico del congresso di An a Bologna nel 2002, quando dopo un’esordio altamente istituzionale e convenzionale l’assemblea si tramuta in una fiera paesana di feticci fascisti. Un eclettico che dimentica prodigiosamente la politica missina, fieramente avversa all’Europa di Maastricht, e partecipa ai lavori della Convenzione fino a sfiorare il ruolo di padre fondatore. Adesso Fini entra definitivamente nella stanza dei bottoni. Da vicepremier i suoi si lamentavano: ”se ne sta chiuso tutto il giorno a Palazzo Chigi dicendoci che non ha mai tempo; poi lo trovi che sta lì, in ufficio, a guardarsi il football americano in tv”. Adesso è atteso alla prova della sua vita, dato che la Farnesina potrebbe essere l´anticamera della leadership del centrodestra. Salvo che qualcuno, nel mondo, un tipo che non sappia di miracoli, un ateo dichiarato, un incredulo, non si fidi della prodigiosa carriera dell´eclettico Gianfranco, voglia vedere se c’è il bluff, e poi scruti senza accondiscendere le carte di uno che è ex di troppe cose» (Edmondo Berselli, ”la Repubblica” 19/11/2004). «A diciassette anni Gianfranco Fini entrò nel Movimento Sociale Italiano (Msi). Correva l´anno 1969: l´anno dell´autunno caldo, del movimento studentesco, della strage di piazza Fontana; l´anno del Sessantotto, che qui da noi arrivò in ritardo rispetto al movimento dei figli dei fiori nato nei campus delle università americane e rispetto al maggio francese e tedesco. In quel sommovimento d´una intera generazione che mise in contestazione i partiti, gli apparati, il potere, il denaro, l´autorità del maschio sulla femmina, le figure genitoriali e giunse addirittura a teorizzare la necessità di spezzare il filo della memoria storica affinché il passato non potesse più condizionare il presente e il futuro fosse una pagina bianca nelle mani della gioventù creatrice, Gianfranco Fini scelse il suo posto in una nicchia politica che continuava a celebrare il fascismo, soprattutto quello di Salò, e con esso i miti della Roma imperiale, dell´uomo macho, del Capo, della forza, della società gerarchica, della razza, della guerra perduta a causa del tradimento, della Patria vittima della plutocrazia giudaica, della democrazia corrotta e dell´America, ricettacolo di tante brutture d´una civiltà decadente e corrotta. Quella scelta inserì il giovane diciassettenne nel solco di una filiazione precisa: il mussolinismo, Salò, Almirante. E fu proprio Almirante a passargli, molti anni dopo, il bastone del comando con tutto il bagaglio mitologico del fascismo e il retaggio della sua tradizione. Molte altre filiazioni di assai diversa natura operavano nell´Italia di allora. Quella democristiana, da De Gasperi a Vanoni, Fanfani, Andreotti, Moro; quella socialista di Pietro Nenni, quella del Pci da Togliatti a Longo, Ingrao, Amendola, Berlinguer; quella del Partito d´Azione di Ugo La Malfa che si rifaceva ai fratelli Rosselli e a Piero Gobetti. E c´era il lascito di Benedetto Croce, raccolto dal Mondo di Mario Pannunzio e coniugato col radicalismo di Salvemini e di Ernesto Rossi. Tutti questi filoni politici e culturali, profondamente divisi gli uni dagli altri, avevano avuto però in comune la lotta contro la dittatura fascista, la guerra partigiana, la Costituzione della Repubblica, la ricostruzione democratica del paese. Gli epigoni del fascismo di Salò non facevano invece parte per loro propria scelta della democrazia repubblicana; erano rimasti nostalgicamente aggrappati a un ramo secco della storia e lì, in quella postura tutta rivolta all´indietro, rimasero per quarantacinque anni, dediti a ritualità catacombali, intramezzate dall´offerta di bassi servizi di manovalanza trasformistica. Una consistente frangia si specializzò nel fiancheggiamento di organizzazioni eversive che punteggiarono con le loro fosche e sanguinose imprese i due decenni dei Sessanta e dei Settanta, i conati golpisti, la loggia P2, l´ostracismo. Gianfranco Fini ha trascorso più di trent´anni nell´Msi, ne ha percorso tutta la trafila gerarchica, non ha avuto altra vita se non quella di partito e di quel partito. Fino all´incontro con Silvio Berlusconi e alla fondazione di Alleanza nazionale. Da allora sono passati dieci anni ed oggi abbiamo quello stesso personaggio proveniente da quella militanza, con quei camerati ancora ai suoi fianchi, con quel retaggio alle spalle, che fa pubblica professione di fede democratica, condanna il razzismo come male assoluto, assume l´antifascismo come valore fondante della Repubblica e Salò come il punto estremo di una aberrazione. Come non accogliere con letizia un evento così spettacolare? La vecchia talpa della libertà ancora una volta ha lavorato bene. In questo caso non ha riportato nella casa della democrazia il figliol prodigo, ma un convertito, sicché la festa dev´essere ancora maggiore. [...]» (Eugenio Scalfari, ”la Repubblica” 7/12/2003). «Mi sono laureato in pedagogia con indirizzo psciologico nel 1976 […] Andai per la prima volta in una sezione della Giovane Italia nel 1968 per colpa di un film di John Wayne. Il film s’intitolava Berretti Verdi e sosteneva l’intervento americano nella guerra del Vietnam. L’estrema sinistra se la prese terribilmente con quel film e a Bologna organizzò dei picchietti di militanti per impedire l’accesso alle sale cinematografiche. Questo mi parve intollerabile. Io entrai sfidando il picchetto […] Sono cresciuto con due nonni diversissimi. Il padre di mia madre era ferrarese, fascista, amico di Balbo, e morì nel 1963. Il padre di mio padre è morto nel 1970, era un comunista convinto e militante. Direi che mio padre invece era un uomo di centro […] Feci il servizio militare a Savona, poi per un breve periodo insegnai Lettere in una scuola privata e in quegli anni conobbi Almirante e diventai segreatrio nazionasle dei giovani […] Io però non mi accontentavo di fare il politico e chiesi ad Almirante: ma poi cosa farò da grande? E lui mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare il giornalista. Così lo feci: prima dodici mesi da abusivo al ”Secolo” e quindi il praticantato. E sostenni l’esame da giornalista […] Ci sentivamo dei reietti . Ci compiacevamo anche di esserlo. Ci sentivamo l’espressione di una élite politica […] Giocavo a pallavolo, finché fumavo meno ed ero più giovane. Facevo anche pesca subacquea» (Alain Elkann, ”La Stampa” 10/3/1997). «Fase uno: Gianfranco Fini il camerata, delfino di Almirante. Fase due: Fini lo statista, vicepremier iperattivo del governo Berlusconi. Fase tre: Fini il centrista, aspirante capo di governo, in marcia verso il Ppe. Sono le tre vite del leader di An. Lo avete notato? Si sta trasformando. E non è solo una questione di fusto d´occhiali. Dai Rye-ban a goccia dell´epoca missina alla montatura al titanio dell´ultima versione. La terza metamorfosi, quella che va in direzione dei popolari di Aznar, è ancora in corso. Si è materializzata ai primi di febbraio, con il cosiddetto ”patto della lavanderia”. Dall´incontro romano che ha avuto con il numero uno della Cisl, Savino Pezzotta (entrato all´hotel de Russie dall’ingresso secondario della lavanderia), sono cambiate un po´ di cose. […] Un Fini nuovo, fase due. Felpato, dal linguaggio e l´atteggiamento dell’uomo di governo. Con un problema in più rispetto agli altri: quello di accreditarsi, di trovare i suoi personali interlocutori, di giocare non solo la partita di Berlusconi ma anche la sua di brillante cinquantenne e aspirante premier. […] Dov´è finito il Fini liberista del settembre scorso, quello che annunciava ”una nuova legge sui licenziamenti” e prometteva di ”abolire le pensioni di anzianità”? Non c’è più, perché stare al governo significa anche imparare a mediare, scendere a compromessi, in un’ottica lontanissima dai muscoli missini. […] Il Ppe è un obiettivo a medio-lungo termine (’Mi prendo tutta la legislatura”, dice) perché il leader di An sa di non poter forzare i tempi con il partito che si ritrova, in periferia ancora nostalgico del regime. Gustavo Selva e Publio Fiori, nel Ppe, ci starebbero benissimo ma Francesco Storace, per esempio, lo considera ”una fogna”, una trappola che snaturerebbe la destra italiana appiattendola su Forza Italia. […] Fini ha capito che un aspirante premier deve agganciarsi alle grandi famiglie che contano, lavorare per l´affermazione, anche a Strasburgo, di ”un bipolarismo all´italiana”. E´ l´Europa la chiave del suo futuro. P[…] Faceva il saluto romano, militava negli anni Settanta nelle sezioni più toste del Msi, per esempio in via Sommacompagna, dove gravitava anche Francesca Mambro, però non menava le mani volentieri. ”Veniva ai cortei in giacca e impermeabile bianco - ricordano i testimoni di allora - Al primo pericolo si infilava nei negozi e si spacciava per poliziotto”. Uno che si mimetizza con le situazioni, si adegua al clima» (Alessandra Longo, ”la Repubblica” 9/2/2002). «’Se dovessi pensare a me in un governo, so già l’unica cosa che mi piacerebbe fare: il ministro degli Esteri...”. In una saletta vip dell’aeroporto di Francoforte, Gianfranco Fini confessava la sua ambizione. Era il 1995, lo stesso anno degli sciacqui termali di Fiuggi, tre anni prima della conferenza programmatica di Verona, rimasta famosa soprattutto per l’affermarsi mediatico della mite coccinella sulla irriducibile fiamma missina. Il leader di An, sorseggiando un caffè in attesa di un volo per Pechino, rivelò ai giornalisti che seguivano la ”missione” cinese questa sua fissazione per i viaggi e la politica estera: ”Sì, mi piacerebbe la Farnesina, se mai capiterà” […] Fini il post fascista, già vicepremier, già euroscettico, candidato alla poltrona più prestigiosa dopo quella di Berlusconi. Dal ’95 ha percorso tutta intera la sua marcia di avvicinamento. Lo ha fatto senza una vera strategia, a volte consigliato male nella pianificazione dei suoi viaggi, però con un obiettivo fisso: togliersi di dosso la polvere nera di Salò, quell’aggettivo ”neofascist’ abbinato al suo nome e usato come un marchio dalla stampa di lingua inglese, la più diffidente. Fini, il ”neofascista”, capo di una destra erede degli alleati dei nazisti, Fini il lepenista che esulta nel ’92 per l’avanzata elettorale del camerata Jean-Marie in Francia, Fini che, nel 1994, definisce Mussolini ”il più grande statista del secolo”. All’estero descrivevano così l’uomo e le sue gesta, mai più pensando di avere a che fare con un possibile, futuro ministro degli Esteri. E anche adesso non è che le cose vadano tanto meglio. Non è più il ”neofascist”, ma è pur sempre un ”postfascist”, come lo definiscono le agenzie di stampa Reuters e France Presse, preoccupate per ”le radici” del suo partito. La ”ricostruzione” dell’immagine è stata operazione complessa, ancora in corso. Per cominciare, gli consigliarono il profilo basso, una doverosa visita alle Fosse Ardeatine, un rapido smarcamento da certi compagni di partito come Pino Rauti, rimasto in camicia nera. A voler proprio fissare una data d’inizio del percorso di accreditamento, viene in mente la crociera in Egitto del giugno 1994 sulla Achille Lauro (che poi affonderà in altre circostanze). Sì, proprio la crociera. Ricordate? Ottocento passeggeri che pagano per poter vedere Gianfranco Fini in costume da bagno ai bordi della piscina o in sala da ballo con la moglie Daniela e la madre Danila. Lo riprendono mentre lancia una corona di fiori in mare per Leon Klinghoffer l’ebreo americano ucciso nell’85 da un commando palestinese. Quel gesto gli vale un invito. Il 4 luglio, anniversario dell’indipendenza degli Stati Uniti, Fini interrompe la crociera e raggiunge in elicottero la capitale per partecipare al ricevimento offerto dall’ambasciata americana. la prima volta, sottolinea raggiante l’ex delfino di Almirante. Maxwell Rabb, ex ambasciatore a Roma, gli fa da balia e organizza l’indispensabile viaggio negli Usa. Ma prima si deve passare per Parigi e Londra, scendendo al ”Meurice” e al ”Claridge”, delegazione di giornalisti al seguito, grande sfoggio di eleganza degli accompagnatori, tra i quali spicca un Gennaro Malgieri ora deputato, cappotto di cachemire e valigie in pelle. Nella capitale inglese, Fini viene definito ”un Mussolini vestito da Armani”. Lui non sa l’inglese, gli traducono la frase, incassa. Il 1995, anno di viaggi: a ottobre il presidente di An vola a New York, dove lo attendono esami ai raggi x. ”Gli americani credono nella redenzione”, commenta già benevolo Edward Luttwak . A Fini non par vero di poter uscire dal ghetto del Msi, di essere ricevuto da alcuni senatori repubblicani al Congresso, di mettersi lo smoking alla tradizionale serata italoamericana di Washington, presente Clinton. Sono tappe necessarie, gli spiegano. Non basta essere votati in Italia, occorre godere di credito internazionale, occorre dimostrare che i legami con quella destra di Salò, che aiutava gli alleati nazisti a caricare gli ebrei nei vagoni siano platealmente e definitivamente recisi. Fini l’ambizioso va avanti a tappe, per non turbare troppo i suoi, per non deludere l’elettorato missino, poco incline all’autocritica. A novembre, altra ”missione” di accreditamento. Questa volta il ”Finitour”, come ormai viene chiamata la carovana di giornalisti che segue il leader, parte per la Cina di Deng. Fini non è nemmeno arrivato a Pechino che ha già deciso cosa vuol fare da grande: ”Se fossi al governo, vorrei fare il ministro degli Esteri”. La settimana cinese è un misto di incontri tecnici per capire l’economia sociale di mercato e di turismo. Quelli di An comprano soddisfatti i cappelli delle guardie rosse in vendita per un dollaro sulle bancarelle. Maastricht è più vicina di Shangai ma né Fini né il partito la guardano con interesse. Nel settembre del ’92, il Msi votò contro la ratifica del Trattato e anche adesso l’europeismo non è tratto distintivo di questa destra. A Fini il postfascista interessa l’unico viaggio che non riesce ancora a fare: quello in Israele. I suoi collaboratori ci stanno lavorando da anni. Alcuni lo hanno fatto in maniera maldestra pensando di poter ignorare le riserve della comunità ebraica italiana. Perplessità non tanto nei confronti del presidente di An che, nel 1999, ha sentito ”il dovere morale’ di andare ad Auschwitz (inseguito dalle telecamere) ma, piuttosto, verso quei membri del suo partito che non sembrano ancora aver elaborato culturalmente ciò che è stato il fascismo in questo Paese. Il tempo passa, il potere aiuta, la rassegna stampa estera è più benevola. Se Fini arrivasse mai in fondo alla sua corsa, se diventasse davvero ministro degli Esteri, si verificherebbe il paradosso di un leader pienamente realizzato, con alle spalle un partito che, in molte periferie, esibisce ancora personale politico postfascista, impegnato soprattutto a prendersi la sua rivincita, a cambiare la toponomastica e rispolverare dall’oblio i cimeli del regime» (Alessandro Longo, ”la Repubblica” 9/1/2002). «Il parlamentare siciliano, mentre osserva il suo leader che fa il viceleader a Palazzo Chigi, sintetizza così la situazione: ”U sceccu zoppu si gode ”u stratuni”, che sarebbe più o meno come dire che ”solo l’asino zoppo si gode lo stradone”, mentre intorno robusti purosangue nitriscono al cielo e rotolano a terra. Perché da quando sta al governo, Gianfranco Fini dispiega la sua geometrica e silente potenza (o impotenza, a seconda dei casi) dando un po’ all’uno e un po’ all’altro, un giorno con un alleato di governo e quello appresso con l’altro, creando un po’ di parapiglia persino all’interno di An. Così, se sulla faccenda dell’Airbus sta con il ministro degli Esteri Renato Ruggiero, sul tema dell’immigrazione fa fronte con Umberto Bossi, mentre sulla devolution la sua posizione è simile a quella dei centristi neodiccì del Polo. E sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ha fatto inalberare persino Francesco Storace. Così come, in privato, fa sapere in questi giorni di non gradire le intemperanze leghiste. In privato, però. E in ogni occasione, consola il Cav. ”Nelle beghe di governo – dice un dirigente di An – Gianfranco sta attento a finire al più incerottato, mai sotto i ferri”. E così, l’accorta cautela da ”sceccu zoppu”, che lemme lemme nell’ombra va, lo ha finora preservato da scontri e polemiche. Del resto ai suoi, sempre piuttosto irrequieti, l’ha detto a brutto muso: ”Non è più tempo di battute e barzellette, le cose vanno prese sul serio”. E siccome sul serio vanno prese le cose e ancor di più le aspettative, ha anche intimato ”di smetterla di dire che la prospettiva è quella di portarmi a Palazzo Chigi”. Non perché non sia vero, anzi, ”così facendo si complica questo ipotetico percorso’. Scuote la testa un dirigente centrista della Casa delle libertà: ”Mah, a me non sembra di vedere tutta questa grande attività di Fini. Anzi, è un po’ defilato, anche per effetto della polarizzazione che si è registrata ultimamente. Ad esempio, su questa faccenda del mandato di cattura europeo: di suo, lui non è né europeo né antieuropeo, e quindi...”. Ovvio che la faccenda la vedono con occhio diverso a via della Scrofa. ”Con il suo atteggiamento – dicono – Fini prova a diventare il crocevia da cui partono tutte le strade, un elemento di mediazione all’interno del governo. Per questo serve autorevolezza dietro le quinte e sostanziale silenzio pubblico”. Raccontano, gli uomini di Fini, che ”siamo ancora in una posizione di metà guado, un partito che un po’ si sente sotto esame. Non possiamo permetterci né il piglio bossiano né la polemica dura dei centristi”. Dicono che forse si pratica ”una cautela magari eccessiva’, ma poi spiegano che ”Bossi se ne frega di essere accreditato, non ha ambizioni di legittimazione, mentre i centristi di legittimazione non hanno bisogno: per noi è tutto più complicato, siamo ancora in cerca di una casa” – dove degnamente accasare un leader presente che si immagina futuro statista. Una cautela dettata anche dai buoni rapporti tra Fini e Ciampi, ”per questo Gianfranco ha preso quella posizione sulla devolution: il Quirinale, in materia, sta molto attento a non superare una certa soglia”. Casomai, qualche preoccupazione Fini ce l’ha sul futuro congresso del partito: le correnti hanno promesso una soluzione unitaria, ”ma in periferia il contrasto resta, e se non si trova una camera di compensazione dove discutere, rischiamo di arrivare a un’unità non reale, un bel problema per la strategia di Fini’. Perché proprio dal congresso primaverile dovrebbe partire ”la fase 2’ di An al governo, con la richiesta di una modifica costituzionale per l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Un eccesso di cautela che fa sorridere un ex diccì come Gustavo Selva: ”La vedo eccessiva, casomai dovremmo sviluppare una forte aggregazione di destra”. E una richiesta di maggiore visibilità dentro An c’è. ”Un partito è fatto di tifosi sugli spalti, che non amano il pareggio”. Un lamento salito anche dal gruppetto dei capicorrente finiani. Selva alza le spalle: ”Sono tutti al governo, dovrebbero dare visibilità con le loro opere”. E malizioso aggiunge: ”Potrebbero piuttosto fare come Francesco Storace, che ha visibilità ce l’ha perché lavora”» (’Il Foglio”, 11/12/2001). «[...] Ha sviluppato un interesse per la politica alle scuole superiori, quando militava nel partito di destra Msi. Nel 1977 è stato nominato segretario del gruppo giovanile, il Fronte della gioventù. Dopo essersi laureato in Psicologia all’Università di Roma, ha cominciato la carriera professionale come giornalista, scrivendo per il quotidiano dell’Msi ”Secolo d’Italia” fino al 1983 [...] Come segretario dell’Msi lo ha guidato allo scioglimento nel 1994, quando ha fondato Alleanza Nazionale, entrata a far parte della coalizione di centrodestra e fidata alleata del partito di Berlusconi ”Forza Italia” [...] sposato con Daniela e ha una figlia. I suoi hobby sono le immersioni subacquee, lo sci di fondo e la lettura. Non parla inglese» (da un rapporto della Cia, Maurizio Molinari, Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 15/9/2005).