Varie, 25 febbraio 2002
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FIORI Publio Roma 25 marzo 1938. Politico. Avvocato, eletto deputato per la Democrazia Cristiana nel 1979, 1983, 1997, 1992, per Alleanza Nazionale nel 1994, 1996, 2001
FIORI Publio Roma 25 marzo 1938. Politico. Avvocato, eletto deputato per la Democrazia Cristiana nel 1979, 1983, 1997, 1992, per Alleanza Nazionale nel 1994, 1996, 2001. Sottosegretario alle Poste nell’Amato I, alla Sanità nel governo Ciampi, ministro dei Trasporti nel Berlusconi I. «[...] fané con chioma cotonata, capo pattuglia dei cristiano-sociali che militano in An. [...]» (’L’espresso” 22/3/2001). «[...] vicepresidente della Camera e uno dei fondatori a Fiuggi di An. In rotta con Fini dopo lo strappo del referendum [...]» (Primo Di Nicola, ”L’espresso” 14/7/2005) • «[...] gambizzato nel 1977 ”ho pagato personalmente il mio prezzo con dieci colpi di mitra nelle gambe”) [...] ex esponente di An, oggi presidente del partito che tenta di realizzare la rifondazione Democristiana [...]» (’Corriere della Sera” 25/5/2005) • «[...] è uomo che resta impresso nella memoria. Visto una volta non lo si dimentica più, merito della straripante capigliatura che gli aggiunge dieci centimetri buoni alla statura. Un paragone storico lo si può fare con un altro grande italiano degli anni settanta: Bobby Solo. Come tutti i democristiani di seconda fila ha costruito il proprio cursus honorum grazie alla capacità di cambiare corrente, alla fine addirittura partito, al momento giusto. Il suo percorso è di quelli ormai rari nel parlamento italiano. Ha iniziato dalla gavetta: comincia come tavianeo (anche i tavianei esistevano, allora), poi si mette nell’ombra di un personaggio chiave della scena politica romana, Amerigo Petrucci, potente sindaco della capitale di parte andreottiana . Ritroviamo così Publio Fiori presidente dell’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) i cui compiti oggi ci sfuggono, ma che allora era un importante snodo assistenziale del partito-stato democristiano. Nel ”71 Fiori è poi eletto consigliere comunale a Roma, diventa assessore ai Lavori Pubblici e nel ”75 consigliere regionale e capogruppo dc alla regione Lazio. Mostra subito prepotenti doti presidenzialiste, si fa notare e purtroppo lo notano anche le Brigate Rosse. Il 2 novembre del ”77 è vittima di un brutto attentato, di quelli che i brigatisti portano a segno contro bersagli ”facili” e di grande effetto. Publio Fiori non ha la scorta e ferirlo alle gambe non compo rta nessun rischio per i terroristi . Trionfale, due anni dopo, nel ”79, il suo ingresso in Parlamento: viene eletto con 100.000 voti di pre ferenza. Ma, anche a causa di una tessera P2 (peraltro sempre negata) non riesce a trasform a re in posizione di potere quel record elettorale. Infatti la corrente di Giulio Andreotti a Roma, negli anni Ottanta, è dominata da Vittorio Sbardella e tra lui e Fiori non corre buon sangue. Così Fiori resta defilato.Anche le preferenze subiscono un lento, costante declino: nel ”92 torna alla Camera con solo 30.000 voti. Sbardella e i suoi uomini, con l’appoggio di Comunione e Liberazione, occupano tutte le posizioni di potere in città e, sul piano politico, teorizzano quel ”governissimo” col Pci che vede Fiori su posizioni di netta opposizione. Nel 1992 Giulio Andreotti, ormai senatore a vita e con la formidabile macchina per le preferenze in disarmo, si muove nel tentativo di passare dalla poltrona di pre sidente del Consiglio a quella di presidente della Repubblica. Ma non conta certo su Publio Fiori per organizzare le proprie manovre nei corridoi di Montecitorio. La battaglia per la presidenza della Repubblica viene persa da Andreotti e da Forlani ed è l’inizio della crisi dell’intero assetto politico sorretto dal patto Andreotti-Craxi-Forlani. Da quella crisi nasce il governo Amato, che provoca nuove crepe nel blocco democristiano romano di uno Sbardella che ha già perso il c ontrollo diretto sul Comune, passato al socialista Franco Carraro. Publio Fiori sa approfittare della crisi di Sbardella e con l’appoggio di Paolo Cirino Pomicino - suo referente esterno, troppo esterno, nella corrente andreottiana - diventa sottosegretario ai Trasporti nel governo Amato e poi sottosegretario alla Sanità nel governo Ciampi. La Dc romana assomiglia sempre più a una maionese impazzita. Andreotti non ha più il dominio della città e la lotta tra le correnti diventa parossistica nella battaglia per la candidatura a sindaco nelle amministrative del novembre del ”93. Uno dopo l’altro i candidati vengono bruciati da veti incrociati inappellabili. Publio Fiori tenta di giocare una propria candidatura: viene bloccato. Dopo la bocciatura di Rocco Buttiglione verrà nominato un nuovo ”signor nessuno”: l’ex prefetto Carmelo Caruso. chiaro che A n d reotti ha perso il controllo della vita politica cittadina e che nessuno tra i suoi luogotenenti riesce a emergere sugli altri. a questo punto che il fiuto politico di Publio Fiori, gli fa intuire, finalmente, la mossa giusta. Nell’ottobre del ”93 appoggia la candidatura di Gianfranco Fini alla poltrona di sindaco. Fiori comprende che è finita la fase ventennale del riciclaggio dei missini attratti dalle sirene del potere nella Dc romana (Vittorio Sbardella, Pietro Giubilo, Giuseppe Ciarrapico) ma è giunta l’ora per una operazione inversa, perché una parte della Dc traslochi nel Msi. Viene espulso dal partito di Martinazzoli, ma la sua intuizione è vincente. Il 46 per cento dei voti dei romani alla destra missina stupiscono il paese, non Publio Fiori che tesaurizza il proprio protagonismo con la lista Msi-Alleanza Nazionale. Il suo abbraccio con Gianfranco Fini viene interpretato dalla sinistra (che ha ottenuto la poltrona di sindaco per Rutelli solo grazie all’appoggio in extremis di Mariotto Segni) come il passaggio di truppe andreottiane verso l’estrema destra. Invece Publio Fiori trasloca da solo nella nuova casa che Fini sta costruendo per poter lasciare ”l’abitazione paterna”. Non lo segue nessuno, tranne i fedelissimi che gli reggono lo staff nella seconda circoscrizione (Parioli-Flaminio), gli è compagno d’avventura solo un altro ex democristiano, il giornalista Gustavo Selva. Questo ruolo isolato, questa scelta azzardata, ma appagante, ne esaltano oltre misura - oltre i meriti e oltre la capigliatura - la statura politica. Publio Fiori è utile a Gianfranco Fini per la costruzione di Alleanza Nazionale, è l’unico dirigente politico con un peso elettorale proprio - anche se in ambito esclusivamente cittadino - che accetti il rischio di costruire la forza politica che superi il Msi. Questa unicità viene ampiamente ripagata dopo le elezioni del marzo ”94. Il Polo vince a Roma in 22 collegi uninominali su 24 e un’altra volta Fiori è praticamente l’uomo politico ”nuovo” (Luigi Ramponi è un generale dei Servizi e Domenico Fisichella è un emerito professore) esibito sul palco a fianco di Teodoro Buontempo e di Domenico Gramazio dall’ingombrante passato e dall’impetuoso presente . Il premio per queste mosse, tanto azzardate quanto azzeccate, viene subito e Publio Fiori viene nominato ministro dei Trasport i nel governo Berlusconi. Qui i suoi nuovi amici di An scoprono che Fiori democristiano era e democristiano è rimasto. Del suo passaggio ministeriale resta memoria in alcune crociere di politici sui barconi del Tevere, in nome del progetto per renderlo navigabile, progetto che gli vale una dura interrogazione avversa dal suo collega di An Ugo Martinat che definisce l’architetto prescelto quale organizzatore dell’iniziativa ”un truccatore di concorsi, un millantatore di titoli accademici nonché un mezzo imbroglione già finito in galera per tru ffa allo stato e altri reati”. Resta memoria anche nell’e ffimero tentativo di riesumare il progetto per il ponte sullo stretto di Messina, ma soprattutto passeranno ai posteri tre cose: le liti poderose con Lorenzo Necci; il veto alla privatizzazione della Banca nazionale delle comunicazioni e il re cord (ex aequo con Raffaele Costa e Clemente Mastella) di indiscrezioni ai giornalisti sui dibattiti in Consiglio dei ministri. Le liti con Necci hanno una base strutturale: con la trasformazione delle Fs in spa, i poteri del ministro sul feudo ferroviario si sono ridotti quasi a zero, ma Publio Fiori non riesce a capacitarsi della disavventura di essere il primo ministro di nascita democristiana a non poter profittare delle grazie di un’azienda che ha dato soddisfazioni di sottogoverno pari solo a quelle delle Poste e Telegrafi. Ancora oggi in Piazza della Croce Rossa uscieri e dirigenti ricordano le liti: ”O lui o io!”, urlava Necci ai suoi. E Fiori faceva eco, qualche corridoio più in là. I dissapori si sono talmente incancreniti da trascinarsi fino a tutto il tentativo di governo di Antonio Maccanico, con Publio Fiori che continua a mettere in guardia Gianfranco Fini sull’inaffidabilità di Necci quale ministro . ”Quella della Bnc era una svendita” Lo scontro sulla Banca nazionale delle comunicazioni vede Publio Fiori contrapposto d i rettamente all’allora ministro del Tesoro Lamberto Dini. La banca è ”da privatizzare”, da consegnare cioè, secondo quanto vorrebbe Dini, al controllo di un consorzio capeggiato dal San Paolo di Torino, ma Fiori è nettamente contrario. Un suo amico e supporter, il giovane imprenditore Fabio Vern a , spiega: ”Fiori si oppone con tutte le proprie forze ad una privatizzazione senza privati, una svendita a un pool di banche che vuole mettere le mani su un istituto strategico per tutte le operazioni di finanziamento degli investimenti nei trasporti per 80.000 miliardi ” . Fiori la spunta, Dini gli scrive un paio di lette re al curaro - spiegando che il Ministero dei Trasporti non ha voce in capitolo - ma la Bnc resta alle Ferrovie dello stato ed è additata come esemplificazione della volontà anti-privatista di An. Volontà che forse ha riscontro, ma che intanto ha impedito, secondo gli amici dell’ex ministro, che la Bnc, che vale minimo 1.000 miliardi (con i suoi immobili, i suoi sportelli e la sua compagnia di assicurazioni), venisse svenduta alla San Paolo per solo 700 miliardi . L’operazione Bnc porta a Publio Fiori un altro ritorno: un rapporto stretto col suo presidente, l’avvocato Giuseppe Consolo. Amico di Giulio Andreotti e di Bettino Craxi, ma anche di Antonio Maccanico e di Michele Coiro, Consolo viene nominato consulente giuridico del ministro e introduce nella squadra di Publio Fiori (i cui elementi di spicco sono Gioacchino Albanese - uomo di Cefis alla Montedison - consulente personale, Maurizio Maspes e Leonardo Mattioli, addetto stampa) la figura del partner politico. [...]» (’Il Foglio” 17/4/1996).