Varie, 25 febbraio 2002
FIORIO
FIORIO Giorgia Torino 23 luglio 1967. Fotografa, ex cantante e attrice • «A qualcuno in Italia questo nome dice ancora qualcosa, è uno di quei nomi agonizzanti che sopravvivono alla fine della propria popolarità e si confondono in uno stinto grumo di ricordi televisivi, come Maria Laura Baccarini, o Ivan Cattaneo, o Tinì Cansino, o Fiordaliso. Ad altri ormai non dice più nulla - scordato -, ad altri ancora nulla ha mai detto, ma il fatto è che la cosa ancora detta da questo nome agli italiani, o non più detta, o mai detta, è sbagliata. Perché Giorgia Fiorio non è l’ ex teenager del Festival di Sanremo dei primi anni Ottanta, quando suo padre Cesare era direttore generale del reparto corse della Fiat; non è l’ ex ragazzina dai capelli neri e il vocione basso destinata a raccogliere l’ eredità di Gigliola Cinquetti e di Rita Pavone; e il suo nome, fuori d’ Italia, da dieci anni dice un’altra cosa, limpida e incisa come le fotografie che lo trasportano per il mondo. Infatti Giorgia Fiorio, a trentatré anni, è una grande fotografa, e la storia che l’ha portata dalla vacua popolarità adolescenziale a una fama matura e adulta è esemplare [...] Innanzitutto, un consiglio: guardatele, le fotografie di Giorgia Fiorio. Sono immagini, non possono essere descritte; e in più, a differenza di tante altre belle immagini, di parole ne contengono pochissime. Sono tutte in bianco e nero e da oltre dieci anni raffigurano uomini: pugili, toreri, legionari, minatori, marinai, pompieri, tutti infilzati dallo spillo di uno stesso sguardo vergine e puro - lo sguardo di chi non ne sa nulla. In cambio, gli uomini le hanno dato indietro una miriade di sguardi perduti , fieri, dolenti, reminescenti, scagliati da corpi esibiti come trofei, o impegnati come trivelle al lavoro; e questa galleria di uomini è una delle più agghiaccianti dimostrazioni di come in natura la mascolinità sia data sotto forma di destino molto più che di funzione biologica, e sia un ingombrantissimo catafalco nervoso molto più che una faccenda di ormoni. [...] Quello che resta da acclarare è come, da un a vita adolescenziale già strutturata e irta di ingombri sia riuscita a passare a questa vita d’artista così letteraria, fatta di lunghi viaggi solitari, ritorni a casa e interminabili giornate chiusa in un sottotetto a farsi rodere i bronchi dalle esalazioni degli acidi per lo sviluppo e la stampa. [... Parigi, dove vive, anzi dove torna [...] la sua fulgida bellezza borghese. Gesticola molto, mentre parla [...] ”Non sopportavo la m usica che facevo. A quattordici anni suonavo, avevo un gruppo rock e la musica mi appassionava. Ma quando venni ’scoperta’ e ’lanciata’, è proprio il caso di dire che la musica cambiò di colpo, e mi ritrovai a cantare cose che non mi piacevano affatto. Non ho mai avuto realmente successo, ma dopo uno, due, tre Festival di Sanremo, e dischi, e tournée, si può dire che quella roba mi si era appiccicata addosso e mi identificava in un personaggio che non aveva niente a che fare con me. Ricevevo let tere da alcuni miei coetanei in cui venivo accusata e a volte insultata per ragioni che mi accorgevo di condividere in pieno. Non potevo andare avanti così [...] successo che un giorno ero in aereo e un tale si è seduto accanto a me e ha cominciato a guardarmi. Quando la tua faccia passa in televisione nessuno si fa scrupoli a fissarti come un cretino. Ha cominciato a chiedermi chi ero, diceva che mi aveva visto di sicuro, che dovevo essere una famosa, una cantante, forse, e insisteva a chiedermi chi ero, chi ero, chi ero. E io, per scollarmelo di dosso, pensai di dirgli di essere un’altra: gli dissi che era impossibile ch e mi avesse visto, poiché abitavo a Mombasa da otto anni e facevo la fotografa. Funzionò, il tipo smise d’ importunarmi e si fece i fatti suoi. Ma da quel momento cominciai a pensare a come sarebbe stato bello se fossi stata veramente quella persona lì, e decisi di diventarlo. Quando tornai dissi al mio agente che avrei smesso, feci la tournée che era già fissata e poi lasciai la musica [...] Mi misi a lavorare con un fotografo di Torino: a portargli le borse, all’inizio, perché di fotografia non sapevo niente, e dopo nove mesi cominciai a fare i primi scatti. Ma capivo benissimo che quello che cercavo mi passava sotto gli occhi senza che io riuscissi a coglierlo. Alora seppi di questa scuola incredibile che c’ è a New York, l’International Center of Photography, e feci domanda per essere ammessa. Mi presero, e passai un anno full-immersion a studiare laggiù, dove insegnano tutti i più grandi fotografi del mondo. Fini ta la scuola rimasi a New York, perché mi ero fissata di fare un libro sui pugili, anche se non avevo ancora un editore. Feci il lavoro, che ho pubblicato molti anni dopo, poi tornai in Italia e continuai a lavorare. Per finanziarmi vendevo poco all a volta i gioielli che mi aveva lasciato mia nonna - con grandissimo senso di colpa, come si può immaginare -: li trasformavo direttamente in pellicola, attrezzatura, biglietti d’aereo, avendo cura che non avanzasse mai una lira, come se la nonna mi avesse lasciato quelle cose, anziché i gioielli. E da lì, piano piano, grazie anche ai premi che mi davano un po’ di soldi, sono andata avanti. Ora non sono ricca, ma il mio lavoro, che è molto dispendioso, si autofinanzia”» (Sandro Veronesi, ”Corriere della Sera” 11/3/2001).