Varie, 26 febbraio 2002
FO
FO Dario Sangiano (Varese) 24 marzo 1926. Attore. Scrittore. Premio Nobel per la letteratura 1997 • «La favola inizia sul primo vagito, un mattino di marzo del ”26, mentre sulla ferrovia l’omnibus delle sei e mezza veniva fermato dall’autorevole drappo rosso agitato da Felice Fo, padre di Dario, capostazione di San Giano. ”Così fu per decisione delle Ferrovie dello Stato, quindi di Dio, ai miei occhi di bambino il vero direttore generale delle Ffss, che organizzava i movimenti dei ferrovieri, dei treni e la nascita dei figli dei capistazione”. Tant’è che, poco dopo, Pa’ Fo vien spostato con la famiglia qualche stazione più in là, prima a Primo Tronzano, poi a Portovaltravaglia, i ”paesi delle meraviglie” dove Dario, come un giovane Gulliver, si muoverà alla scoperta del mondo. Dalla vicina Svizzera, fantasticata con le case di cioccolato e poi scoperta terra di anarchici e di ”spalloni”, al mondo del lago, coi suoi ciarlatori e fabulatori capaci di incantare con storie tratte da cronache locali o da pettegolezzi da lavatoio e da loro trasformate in poemi epici. ”Un vero master di Giullari: ho rubato a man bassa”, ammette. E anche il famoso gramelot, la lingua universale che non c’è ma che si fa capire ovunque, viene da lì: ”Colpa dei maestri soffiatori, arrivati fin lì da mezza Europa. Ancora oggi sull’elenco del telefono di quei paesi si trovano tanti nomi ”foresti’, francesi, tedeschi, polacchi, spagnoli... Un minestrone linguistico in continua ebollizione, un crogiolo di culture antidoto naturale contro ogni forma di razzismo, dove tutti lavoravano, tutti si rispettavano”. In quel mondo piccolo dai tratti ”internazionali”, si usa dare i soprannomi. Dario, lungo lungo secco secco, è naturalmente ”lo smilzo”. ”Non potendo competere con i muscoli, mi facevo valere dipingendo e raccontando storie. Avevo successo. Quando facevo il pendolare con Milano per frequentare l’Accademia, il mio scompartimento era sempre affollato. Ci chiamavano il ”Caravan dei ciuch’, la carovana degli ubriachi”. Qualche anno dopo ai tavolini del Giamaica, il mitico locale di Brera frequentato da artisti squattrinati, teneva banco ai suoi compagni di corso, da Morlotti a Peverelli ad Alik Cavaliere, imbastendo lì per lì irresistibili caricature dei grandi maestri. ”Tra le satire più richieste quella di Carrà che costringeva la moglie a posare per una delle sue celebri marine ma nel ruolo di un cane; o quella di De Chirico che rifaceva a ritmi da catena di montaggio la stessa tela con piccole varianti secondo le richieste del mercante...”. E con Tadini, suo grande amico, organizza una beffa da manuale, facendo credere a critici e giornalisti che Picasso sarebbe venuto a Milano per inaugurare una mostra. ”Al suo posto arrivò Otello, un bidello. Piccolo, pelato, la faccia identica al grande Pablo. Ci cascarono tutti”. Tra i personaggi indelebili, il nonno Bristìn, maestro di clownerie e di botanica. ”Mi ha insegnato a guardare col naso, ad ascoltare gli odori e i profumi”. Non da meno la madre, Giuseppina, dotata di poteri paranormali, capace di parlare coi vivi come coi morti. E Lucy, la giovane sirena che lo ammalia nuotando nel lago: ”Il primo amore, grande e doloroso. durato tre anni, poi lei sposò un altro”. Tempo Sereno erano invece il cognome e nome ”veri” di un giardiniere già finito tra i personaggi di una commedia di Fo, Gli arcangeli non giocano a flipper. ”Suo fratello - ricorda Dario - si chiamava Tempo Nuvoloso: la prova che il lago è una fucina di pazzi. Chi dice che mette malinconia non lo conosce. Malinconiche sono le grandi ville dei ricchi, ma per la gente comune è miniera di fantasia e vitalità. Non a caso intorno ai laghi nascono spesso scrittori, attori, cronisti”. […] Il drammatico periodo della Repubblica di Salò, quando per sfuggire alla deportazione in Germania, il giovane Fo si arruolò tra i parà di Varese. […] Il funerale del padre. ”Pa’ Fo morì a 90 anni nell’87, lo stesso giorno di Piero Chiara, suo conterraneo. I due funerali si incrociarono: chi era venuto per Chiara, vedendo l’imponente corteo di mio padre con la Banda degli Ottoni e le bandiere rosse, pensò si trattasse dello scrittore ”mangiapreti”. E si aggregò lasciando solo il feretro di Chiara diretto invece alla Pieve. Scoperto l’errore, sbandamento improvviso di folla, per correre dietro alla bara ”giusta”» (Giuseppina Manin, ”Corriere della Sera” 4/10/2002). «Ho studiato architettura e sono uscito da certi schemi. La geometria è stata fondamentale per insegnarmi a scrivere […] So montare uno spettacolo, dirigere una compagnia e per questo devi avere anche intelligenza di rapporti . So evitare conflitti, essere umanista anche nella vita. Se uno pensa solo a recitare la compagnia si sfascia dopo due mesi […] Ho una bella resistenza, ma concepita molte volte con dolore e sofferenza. Il senso positivo dell’essere e dell’agire è una concezione che s’impara […] Mio padre era capostazione. Ho fatto le elementari in dieci scuole diverse, perché mio padre ha cambiato dieci paesi diversi […] Sono sempre stato uno ”sfangone”, come si dice a Milano. Lavorare mi distende ed è il modo più intenso di vivere e di riposarmi» (Alain Elkann, ”La Stampa” 25/3/2001). Sposato da cinquant’anni con Franca Rame. «Cinquant’anni insieme, sul palcoscenico, nella vita privata, nella comunanza ideologica, nell’impegno politico attivo, nella scrittura, nell’amore per il figlio Jacopo e per i nipotini, nelle delusioni, nella coerenza, nella resistenza ai soprusi, nei litigi, nella messa al bando da una società vile, nell’ostracismo da parte del potere, nella generosità munifica, nella solidarietà e affetto per e degli altri. Insieme anche nei premi: quando a Stoccolma, nel dicembre del 1997 fu conferito a Dario Fo il Nobel per la letteratura, lui mostrò una foto della moglie Franca Rame, dedicandole parole bellissime per dividere con lei, com’era giusto, l’alto riconoscimento. Insieme, sempre, proprio loro, considerati peccatori sulfurei e pericolosi dalla Chiesa e dai parroci, che per anni esortarono i parrocchiani a disertare il loro teatro per non lasciarsi contaminare, che sentimento provano a dirsi ”stiamo insieme da cinquant´anni, come due vecchi, saldi, timorati sposi”? Lei: ”Non ho tempo per soffermarmi su questi pensieri, lavoro sempre. Se mi incamminassi su questo sentiero forse mi impressionerei, perché solo dire cinquant’anni fa mi dà gli incubi. Certo una vita esagerata l’abbiamo avuta tutti e due, e se penso che nel mio archivio sul sito www.francarame.it ho già riversato un milione e mezzo di documenti e devo inserirne ancora due milioni, sono costretta a riflettere che una vita fatta di tre milioni e mezzo di documenti, ognuno un pezzo della mia, della nostra storia, non si può definire sprecata”. Lui: ” stata una vita bella. Con tutti i casini, i dolori, le violenze, gli arresti, gli sgombri, la galera, le bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene una obbligandoci a lasciare Milano, la cosa tremenda e mai cancellata che Franca subì nel ’73, i 40 processi, abbiamo vissuto tre volte più degli altri, a una velocità incredibile. Anche adesso abbiamo il piede sull’acceleratore”. […] Quel Piccolo Teatro in cui nel 1953, la compagnia Parenti-Fo-Durano mise in scena la rivista Il dito nell’occhio: Fo era uno spilungone di 27 anni, con un grosso naso, Rame a 24 anni era una specie di Marilyn Monroe ancora più alta e splendente, innamoratissima di quell’attore-autore che lei corteggiava implacabile sino a farsi sposare un anno dopo. Adesso la coppia ha qualche acciacco, e se Dario è stato poco bene qualche anno fa, chi non è in gran forma oggi è Franca: che però non rinuncia, sia pure con voce flebile e atteggiamento impaziente, a impedire quasi al marito di parlare: perché lui è lirico, e trasformerebbe ogni ricordo in un pezzo teatrale, mentre lei è pratica, lo riconduce alla realtà, gli corregge le fantasie, ha una memoria di ferro per date, circostanze, frasi dette, documenti d’epoca, come se il suo cervello fosse un archivio perfettamente computerizzato. Lei: ”Non creare confusione. Tu di testi ne hai scritti almeno 120, ne hai rappresentati una sessantina, certi li hanno messi in scena all’estero, alcuni non li hai mai pubblicati”. Lui: ”I guai cominciarono subito quando uscimmo dai teatri usuali perché eravamo stufi di essere l’alka seltzer della borghesia, e volevamo un altro pubblico, che non venisse a sentirci solo per ridere ma per capire cosa stava succedendo in Italia. Era la fine degli anni 60 e c’era in giro una bell’aria di risveglio, un po’ come quella di oggi, di sogni, di voglia di fare, ma noi facevamo scandalo e appena potevano con mille scuse ci cacciavano”. Lei: ”Vai con ordine, se no non capiamo più niente neanche noi. Il momento brutto, negli anni del Mistero buffo, di Morte accidentale di un anarchico, di Pum, Pum! Chi è? La polizia!, di Tutta casa, letto e chiesa quando già ci avevano dato a Milano la palazzina Liberty, era alla prova generale. Perché arrivavano i funzionari della polizia e dicevano ”questo lo togliete e anche quest’altro’. Cose anche innocenti, tipo il commissario che cade sulla sedia e il poliziotto si siede sulle sue gambe”. Lui: ”Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, e magari gli andava bene: ma poi non era il testo, era la pantomina a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio innocuo io lo trasformassi in un Andreotti, capitava che in una tournée raccogliessi anche 260 denunce”. Lei: ”Ogni tanto Dario lo portavano in questura con la camionetta, allora tutto il pubblico andava dietro, e io con loro, a far casino. Avevamo avuto l’idea, per scavalcare la censura, di fare una specie di cooperativa a cui bisognava associarsi, così senza tessera non poteva entrare neppure la polizia. Ma una volta, a Sassari sfondò la porta, entrò e arrestò Dario che finì in galera per una notte: poi quel prefetto lì lo destituirono”. Una sera del 1987, ospite televisiva di Raffaella Carrà, la signora Fo annunciò inaspettatamente che aveva deciso di separarsi dal marito, che non sapendone niente, ci rimase malissimo. Lei: ”Ero stufa di fare la moglie, l’oca giuliva che si occupa solo di palcoscenico e carceri, e per il resto deve far finta di niente. Soffrivo come una bestia, perché le pene d’amore sono lancinanti, offensive. Sì, forse siamo stati separati un anno, senza far rumore. Ma tutte le donne lo sanno che capitano tra due coniugi fatti che poi non hanno valore, che passano, e allora val la pena di lasciar perdere, perché alla fine sai che altre cose contano, e che lui alla fine non ti lascerà mai”. Lui: ”Attorno a me c’erano, ci sono uomini che piantano tutto per ragazze giovani, ma io avevo capito che l’avventura è solo una pausa, un intervallo per prendere fiato, perché ci sono legami così indissolubili con la tua compagna di vita, che non puoi distruggere senza perderti. Noi abbiamo avuto e fatto tutto insieme, ci siamo reciprocamente riempiti la vita, non c’è episodio, bello o tragico, iniziativa, decisione, sogno, che non abbiamo affrontato insieme”. La gelosia è entrata nella vostra vita coniugale? Lei: ”Quando ero giovane, di uomini attorno ne avevo tanti, fino a togliermi l’aria, ma non ero né allegrotta né disponibile. Neanche allora lui mi ha mai dimostrato gelosia, fatto scenate. Però capita che non sempre puoi essere una moglie fedele, e si tratta di parentesi che ti capitano quando sei morta di dolore, allora anche un pirla ti può essere utile. Ma la cosa svanisce senza lasciare tracce, non conta”. Franca Rame si alza per mettere un po’ d’ordine tra la montagna di libri in giapponese, arabo, lituano, con le opere di Fo, ma anche tra quelli dedicati a Lei come la recente raccolta di saggi pubblicata dall’Università di Harvard e intitolata A woman on stage, una donna in palcoscenico. Dario Fo si mette a colorare un foglio di carta, e tra i loro gesti diversi, c’è armonia, complementarietà. Lui: ”Franca mi fa sudare le mani, quando le porgo un copione e so che tanto mi dirà ”guarda che qui non va bene”. Anni fa mi arrabbiavo, una volta la sbattei contro il muro, gridandole ”dammi tu allora la soluzione”, e lei me la diede subito, giusta. Ha il teatro nel DNA, perché i suoi stavano sul palcoscenico da quattro generazioni, ha intuito e mestiere, ha su di me un ascendente enorme”. Lei lo guarda poco convinta: ”Non esagerare, è che ho imparato a dire quello che penso da quando nelle recensioni i critici liquidavano tutta la mia fatica con la frase ”Bella la Rame’. Morivo di rabbia ma alla fine, anche quando le cose mie le scrivevo io, lasciavo che le firmasse lui, per insicurezza”» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 14/3/2002).