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 2002  febbraio 26 Martedì calendario

FOLKMAN Judah Cleveland (Stati Uniti) 24 febbraio 1933, 15 gennaio 2008. Medico, hanno fatto parlare alcune sue ricerche per trovare una cura contro il cancro

FOLKMAN Judah Cleveland (Stati Uniti) 24 febbraio 1933, 15 gennaio 2008. Medico, hanno fatto parlare alcune sue ricerche per trovare una cura contro il cancro. «Da quando nel maggio 1998 un articolo sul ”New York Times” ha reso noti gli stupefacenti risultati di due molecole scoperte nel suo laboratorio, l’angiostatina e l’endostatina, capaci di arrestare e far regredire il 98 per cento dei tumori su cui erano state sperimentate nei topi, la sua vita è diventata un inferno. Centinaia di telefonate al giorno di malati in cerca d’aiuto sono troppe anche per un uomo tutto d’un pezzo come il chirurgo bostoniano che ha portato avanti per 37 anni un’idea in cui nessuno credeva. Oggi, il premio Nobel James Watson lo paragona a Charles Darwin e lui non nasconde la sua soddisfazione, ma questo non lo devia dal suo rigore etico: i pazienti non devono essere illusi e i mass media sono molto spesso incontenibili. Allora lui ha chiuso le comunicazioni: basta interviste a giornali e televisioni, basta fotografie fino a che non sarà in grado di curare la gente invece che i topi. [...] ”Per oltre un secolo l’unico trattamento per l’ulcera è stato la chirurgia. Quando io ero un giovane apprendista al Massachusetts General Hospital, ogni notte vedevo dei pazienti portati d’urgenza con un’ulcera perforante, vomitavano sangue e li buttavamo di corsa sul tavolo operatorio: il più delle volte il chirurgo li salvava, ma almeno una volta al mese qualcuno moriva perché non riuscivamo a fermare l’emorragia. E badi bene: quello del Mass Hospital era il più basso tasso di mortalità al mondo. Ma oggi non si opera più: ci sono farmaci che curano l’ulcera senza bisogno di interventi chirurgici. .Già, le prime sperimentazioni di queste molecole (gli H2 antagonisti) si fecero nel 1967-68. Allora iniettavamo il farmaco per endovena e portavamo comunque di corsa il paziente in sala operatoria. Ma ci accorgemmo che l’H2 antagonista fermava l’emorragia: potevamo correre un po’ meno e operare con calma. Un successone, ma la casa farmaceutica insisteva: ”Perché non li provate senza operare?’, ci chiedevano. Nessuno l’avrebbe mai fatto. Nessuno avrebbe mai rischiato la vita del paziente negandogli l’operazione: e questo per molto tempo. Fino a che un giorno il più grande esperto di chirurgia dell’ulcera in America si trovò un paziente gravissimo alle nove di sera, lo fece portare in sala operatoria, preparò tutto e si fermò ad aspettare: l’H2 antagonista scorreva nel sangue del malato e l’emorragia si arrestava progressivamente. Il chirurgo aspettò così per ore, seduto sul suo sgabello con la mascherina sul viso e il bisturi pronto, fino alle sei del mattino; poi lo rimandò in stanza senza operarlo, niente più sangue, niente più ulcera perforante. Tutti gridarono allo scandalo, l’ospedale avviò un’inchiesta impietosa accusando il medico di negligenza, di aver rischiato la vita del malato negandogli l’intervento, volevano cacciare uno dei più bravi chirurghi dell’ulcera del paese, togliergli il diritto di esercitare. Oggi, nessuno opera più, l’intervento antiulcera non si insegna nemmeno più nelle scuole: credo di essere rimasto l’unico qui dentro a saperlo fare.. Ma con il cancro le cose stanno diversamente: non ci sono terapie in grado di curarlo al 100 per cento, e ci sono pazienti disperati. . quello che sto dicendo. Quando il resto non funziona si può dare l’angiostatina o l’endostatina. Ma se mi arriva una paziente con un cancro al seno, non ci penso neppure a negarle l’operazione, o a non sottoporla a una chemioterapia con farmaci che hanno mostrato di funzionare bene come il tassolo. [...] Ma penso che dovremmo sperimentare i nuovi farmaci anche insieme a vecchie terapie. [...] dobbiamo tornare al 1961 [...] a quel tempo lavoravo per la Marina degli Stati Uniti. Ero un giovane chirurgo. E stavo in un’équipe che cercava dei possibili sostituti del sangue da utilizzare nelle trasfusioni. Così ho capito che i tumori per crescere hanno bisogno di vasi sanguigni e che sono loro stessi a stimolarli [...] c’era un buon sostituto del sangue. Era una soluzione del pigmento rosso che c’è nelle cellule sanguigne. E dovemmo sperimentarlo in diversi organi isolandoli dall’organismo, in laboratorio. Allora mettemmo in un contenitore di vetro una tiroide di coniglio e le somministrammo diverse soluzioni di emoglobina (tramite un unico canale ) per vedere quale funzionava meglio. Quindi decidemmo di vedere se la ghiandola così trasfusa era in grado di sostenere il processo di crescita cellulare e inserimmo alcune cellule tumorali. Con grande stupore constatammo che tutte crescevano un pochino; poi, ancora piccolissime, si fermavano [...] Certo, potevano essere morte, ma noi le trapiantammo in un topo e osservammo una rapida ed enorme crescita dei tumori che finirono con l’uccidere l’animale. Quando li sezionammo scoprimmo che al loro interno si erano creati molti nuovi capillari. Iniziammo così a pensare che la crescita tumorale dipende dalla formazione di nuovi vasi sanguigni senza i quali il tumore non cresce, anzi si riduce alla grandezza di una capocchia di spillo [...] Tutti all’epoca ritenevano che i tumori per crescere non avessero bisogno di nuovi vasi sanguigni. Questo era un dogma, l’idea accettata da tutti: patologo o oncologo che fosse, ogni saggio ricercatore partiva senza dubbio dal presupposto che i tumori crescono su una rete già esistente di capillari, e ne possono al più causare una dilatazione come effetto della malattia. Fino alla fine degli anni Settanta nessuno ha creduto all’ipotesi che i tumori per mantenersi in vita stimolavano la crescita di nuovi vasi sanguigni. E quindi toccò provarlo: ci abbiamo messo quindici anni [...] Le cose in medicina vanno così. Alla fine ce l’abbiamo fatta. Prima abbiamo portato a termine una serie di esperimenti grazie ai quali abbiamo dimostrato che, in presenza di un tumore, c’è una proliferazione di capillari. Ma i nostri colleghi continuavano a dire che questa proliferazione era il risultato di un’infezione dovuta alla malattia, e che, eliminando l’infezione, non avremmo certo eliminato il tumore. Allora si trattò di trovare proprio le molecole che i tumori usano per stimolare la crescita di nuovi vasi. Ma non siamo riusciti a riprodurre in vitro le cellule endoteliali fino al 1973 [...] Sono le cellule che rivestono internamente il cuore e i vasi sanguigni e linfatici, e non erano mai state riprodotte in vitro: dunque nessuno credeva che sarebbe stato possibile. E anche dopo che riuscimmo a farlo, nel 1973, la comunità scientifica restò talmente scettica (dicevano che quelle ottenute in vitro non erano in realtà cellule endoteliali) da costringerci a spendere altri cinque anni per dimostrare che di fatto lo erano. D’altra parte, senza la possibilità di avere a disposizione una quantità pressoché infinita di queste cellule, possibile solo con la produzione artificiale, non saremmo mai riusciti a sperimentare quale delle proteine presenti nel tumore ha la funzione di stimolare la crescita dei vasi. Abbiamo speso tutti gli anni Settanta a dimostrare e a trovare il Taf (Tumor angiogenesis factor): lo chiamammo Factor proprio perché non avevamo idea di cosa fosse [...] I nostri colleghi ci dicevano che questo Fattore esisteva solo nelle nostre menti e ci vollero sei anni per dargli un nome. Nel 1982 avevamo in mano la prima proteina che, potevamo provarlo, stimolava l’angiogenesi nei tumori. Di lì a poco anche un’équipe del Beth Israel Hospital, che è proprio qui di fronte e che conosceva il nostro lavoro, si mise alla ricerca di fattori angiogenetici e nel 1985 ne trovò un altro. Oggi ce ne sono 14 conosciuti. [...] 1985 [...] un anno importantissimo per me: fu allora che scoprimmo il primo inibitore dell’angiogenesi. Il primo farmaco potenziale. La molecola capace di inibire la vascolarizzazione della cellula tumorale. A quel punto avevo tutti i tasselli del mosaico: soprattutto avevo qualcosa capace di fermare la crescita dei vasi. E, secondo la mia ipotesi, in linea di principio capace di fermare la crescita tumorale [...] Ci volle parecchio, una volta compresa la strada, per trovare una molecola che superasse tutte le prove necessarie per arrivare a essere sperimentata. Ma nel 1992 sono iniziate le prove cliniche del Tnp 470, un fattore antiangiogenetico che sembra funzionare bene sui pazienti. Ma è ancora un farmaco di prima generazione [...] Testando proteine su proteine abbiamo poi scoperto una seconda generazione di antiangiogenetici (il Vitaxin e l’Anti Vegf) capace di bloccare la proliferazione dei vasi e stabilizzare così la grandezza del tumore. Ma il vero salto di qualità lo abbiamo fatto con angiostatina ed endostatina che rappresentano una terza generazione di antiangiogenetici e sono in grado di ridurre fino a una grandezza virtualmente inoffensiva i tumori [...] Io non credo che la gente comprenda quanto è difficile passare da un’idea a un farmaco [...] Eppure credo che non si possa fare ricerca senza accettare le frustrazioni, i tempi lunghi, i buchi nell’acqua. Chi fa ricerca si trova in un oceano di cui non sono ancora state tracciate le carte di navigazione. Portare avanti un’idea nuova di zecca è una faccenda rischiosa [...] se hai un’idea la devi provare, altrimenti nessuno la accetta. Gli scienziati sembrano conservatori, ma in effetti altro non fanno che esercitare un legittimo senso critico, e ti chiedono passo dopo passo di dimostrare ciò che sostieni usando la loro intelligenza e le loro conoscenze per chiederti di fare gli esperimenti necessari. Ma quando li hai fatti e con le prove di laboratorio hai scartato ogni obiezione, allora ti credono. Ed è bene che sia così: il mondo è pieno di ciarlatani e persone che vogliono accelerare le tappe di questo processo [...] Un conto è vedere in laboratorio che una molecola è capace di svolgere una certa funzione, un altro conto è produrla, conservarla, spedirla in tutto il paese: insomma produrla industrialmente. Fleming scoprì le proprietà della penicillina nel 1927 e, scrive lui stesso nell’autobiografia, nel 1932 era disperato. ”Mollo tutto’ pensava, ”questa roba è instabile, non riusciremo mai a produrla’. Poi scoppiò la guerra e ricominciò a lavorarci: nel ”41 ad Oxford trovò il modo di riprodurla in laboratorio. Ma nessuna casa farmaceutica era in grado di trasformare la penicillina di Fleming in un prodotto fruibile. Sia in Inghilterra che negli Stati Uniti i farmaceutici gli rispondevano all’unisono: ”Non sappiamo ottenere un farmaco da un lievito’. Era assolutamente scoraggiato e nel bel mezzo della guerra decise di andare alla Rockefeller Foundation, che lo aveva finanziato, per ringraziare e dare forfait. Lì un tizio, per puro caso, gli consigliò di rivolgersi a chi aveva esperienza con i lieviti, i produttori di birra. Lo mandarono giù nell’Indiana dove c’era la birreria Pfizer. Sa, la Pfizer: oggi è uno dei primi gruppi farmaceutici al mondo. dura, mi creda” [...]» (Judah Folkman, ”L’Espresso” 15/10/1998). Vedi anche: Simona Vigna, ”Sette” n. 19/1998).