Varie, 26 febbraio 2002
FONTANA
FONTANA Carlo Milano 15 marzo 1947. Ex sovraintendente alla Scala (1990-2005). Ex senatore dell’Ulivo (2006-2008) • «[...] stato fatto fuori dalla Scala, dopo quasi 15 anni da sovrintendente, al termine di un brutale power play tra Riccardo Muti, Gabriele Albertini, i lavoratori e un consiglio di amministrazione dove siedono calibri come Fedele Confalonieri, Marco Tronchetti Provera, Bruno Ermolli. La sua revoca ha prodotto un sisma: dimissioni a catena tra i suoi avversari, il nome Scala infangato, le ironie sul sistema Italia, il sindaco Albertini sulla graticola. [...] ”Chiunque faccia il mio mestiere mette in conto di vivere pericolosamente. Io sono stato per 15 anni un uomo al servizio di una grande istituzione al di là delle convinzioni politiche. Ho anteposto a tutto, alla mia identità culturale e politica, quello che credevo il bene della Scala. Ho fatto mediazioni, forse errori, ma da socialista riformista mi sono tenuto a quanto mi diceva mio padre (Ciro Fontana, storico segretario generale di Palazzo Marino, ndr). Anche nel 1944, nel periodo più buio della Repubblica di Salò, lui che era già funzionario comunale lavorava al meglio per garantire il buon servizio alla cittadinanza. Io sono cresciuto con questo imprinting, rafforzato poi dalla frequentazione con Paolo Grassi [...] Io ho avuto un buon rapporto con tutti i sindaci, perché il sindaco è presidente del Cda. Compreso Albertini, fino al diktat di Muti. Albertini, penso, ha dovuto assumere posizioni che non condivideva fino in fondo [...] Albertini non aveva piena consapevolezza del suo ruolo. Dopo l’assurdo paragone ”Sacchi-Van Basten’, parole di Confalonieri, anche il sindaco è entrato in quella logica. Nel luogo deputato, il Cda, non si è mai arrivati a un confronto tra me e il maestro Muti, che aveva aperto la vertenza. Anche fingendo che non esista uno statuto secondo cui il direttore musicale dipende dal sovrintendente, e non viceversa, non si capisce perché il sindaco non abbia ritenuto di portare il dissidio dentro al luogo istituzionalmente corretto per cercare di risolverlo. Di fronte all’aut aut di Muti, tutti i consiglieri hanno detto ”Via Fontana’. Perché? Non sono riuscito a darmi una risposta [...] Ho sempre pensato che il maestro Muti rappresentasse una risorsa dell’istituzione. Ricordo che ho dovuto affrontare due grandi emergenze in questi anni: quella economica, cui ho risposto con la trasformazione da ente lirico a fondazione, e quella strutturale che ha portato alla nuova Scala. Queste emergenze hanno fatto sì che mi concentrassi più sugli aspetti extramusicali del lavoro” [...]» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 12/5/2005). «’Quasi tutti gli obiettivi, che avevo individuato come essenziali sin dal 1991, sono stati raggiunti. Niente è calato dall’alto, per miracolo. Ne parlai allora alla Commissione Cultura del Consiglio Comunale. Sono tanti pezzetti costruiti faticosamente: la riforma strutturale, la riforma istituzionale cui hanno concorso le varie giunte. Devo dire che la spinta decisiva l’ha data l’amministrazione Albertini. Dal ”97 [...] c’è stata un’accelerata, perché più determinata era ed è la volontà politica. Niente, comunque, sarebbe stato possibile senza l’’atout” Muti, senza la certezza del livello artistico e professionale che rappresenta [...] Politicamente io sono rimasto un socialista riformista. L’ho nel Dna familiare. Non sono andato plasmandomi sul cambiare dei governi cittadini. Il mio salvagente, se di salvarmi ce ne fosse stato bisogno, è stato la professionalità. Del resto, io, come sovrintendente, non ho galleggiato, nel senso di mantenermi in qualche modo sul pelo dell’acqua, ho nuotato anche controcorrente, ho agito. grazie a Dio che l’ho fatto [...] Se la Scala non fosse diventata Fondazione, avremmo un problema non da poco. Non potremmo pagare gli stipendi, perché il finanziamento pubblico non consente di coprire il così detto ”costo masse’. Dagli anni Novanta, abbiamo assistito a una progressiva diminuzione del contributo statale, da quando Giuliano Amato, ministro del Tesoro o addirittura premier, si lanciò nella discutibile affermazione: ”Verdi e Goldoni se lo paghino gli italiani”. Noi avevamo già una buona quota di introiti nostri. Nel ”95-96, le nostre entrate di botteghino erano già il 35 per cento del fabbisogno totale. Ma la Fondazione ha dato legittimità all’ingresso dei privati e, nel 2000, per la prima volta, entrate di gestione e aiuto dei sostenitori hanno superato il finanziamento statale: 55 per cento del bilancio contro il 45 [...] Continuo a ritenere giusto quel che, nel 1951, diceva Antonio Ghiringhelli: il rapporto ideale sarebbe 50 e 50. Comunque, nessuno dei nostri alleati si è mai permesso di mettere il naso nelle scelte artistiche [...] Il problema è quello solito. Non è possibile aprire un solido rapporto con i privati se non esiste un’incentivazione fiscale e attraverso una legge, che è ancora troppo rigida, troppo sospettosa. Certo, noi abbiamo qualche privilegio. Ma, attenzione, Milano ha risposto attraverso grandi istituzioni, come la Cariplo e la Camera di Commercio, o grosse industrie come la Pirelli e l’Eni che avevano già storici legami con la Scala. Il Metropolitan di New York, il cui bilancio è al 99 per cento supportato dai privati, non è finanziato da aziende o istituzioni, ma da singoli mecenati che possono detrarre il 100 per 100 della donazione dalle tasse [...] La Scala ha proposto un progetto, ha dato un messaggio di innovazione, di cambiamento. Ed è stata capita dall’imprenditoria più avanzata. Noi non abbiamo chiesto denari per saldare debiti che non avevamo perché siamo in equilibrio di bilancio dagli anni Ottanta. Li abbiamo chiesti per un progetto che, in gran parte, è realizzato. Adesso, finalmente, possiamo affrontare il degrado e il rammodernamento del Piermarini. Sono cresciuto qui dentro, alla Scala. Tanto più per me, è traumatico lasciare questa sede. Ma dico, finalmente. Era un problema indifferibile. Apriamo un nuovo teatro che ci permetterà di allargare il pubblico. [...] I momenti brutti li ho dimenticati, anche perché la dinamica del lavoro, anche nei giorni più tristi, più sgradevoli, più faticosi, porta con sé degli avanzamenti. Quelli più belli spero debbano ancora venire. Ma ricordo il giorno in cui si è costituita formalmente la Fondazione e il 5 febbraio 2001 quando abbiamo preso possesso dell’Ansaldo. Ho toccato con mano che stavo portando anch’io un piccolo contributo alla storia della Scala» (Guido Vergani, ”Corriere della Sera” 3/12/2001). Grande appassionato di calcio, tifoso del Milan: «Lo chiamavano Dino Sani. Nella squadra del Parini, quinta ginnasio sezione B, primi anni sessanta. Non al Maracanà, per capirci. Eppure è un ricordo indelebile, coltivato con un pizzico di compiacimento anche se poi divulgato con apprezzabile autoironia: ”Mi piaceva fare il regista, provare a dettare i tempi di gioco. Ero anche un po’ lento, forse da qui il soprannome [...] Per me il calcio è Milan. Come l’opera è la Scala, come il teatro è il Piccolo. E a differenza delle esperienze professionali che presto o tardi hanno una fine, la passione per il Milan non tramonterà mai. Siamo partiti da Dino Sani per via di quel soprannome giovanile, abbiamo parlato di lentezza ma il riferimento dei compagni di allora era alla mia, perchè lui era in tutto e per tutto un grande campione. Lo vidi esordire a San Siro nell’autunno del ’61 in un Milan-Juve sotto la neve, finì 5-1, pur conoscendo a malapena i compagni la sua regia fu straordinaria. Come un altro vero campione era Altafini, oggi il suo presente televisivo lo volgarizza e ne sminuisce la dimensione di giocatore, ma che centravanti è stato. Perché Schiaffino no? Pensi che il suo ricordo più nitido ce l’ho nella Roma, dopo averlo tanto applaudito nel Milan. Un’Inter-Roma l’ultimo dell’anno, lui in una magistrale interpretazione da libero, gol di Manfredini e 1-0 per la Roma [...] Gli spettacoli memorabili nascono da grandi solisti che danno ciascuno il massimo e si integrano a perfezione nell’assieme. Vale sul campo e sul palcoscenico, nell’una Scala e nell’altra. La mia fortuna è che l’opera è da sempre la mia passione più grande. E il calcio è la seconda [...] Per me quello della domenica pomeriggio era un rito. [...] Ho cominciato nel ’54 con il Gre-No-Li. Avevo sette anni. Di Nordhal e Gren ho un ricordo vago, del barone assolutamente nitido. Un giocatore elegante, intelligente, corretto, tifai per lui e per la Svezia nella finale mondiale del ’58 ma non c’era nulla da fare contro quel Brasile di Pelè. Ogni tanto parlo con mia figlia Vittoria di quegli anni. E lei fatica a capire che noi studenti delle medie, noi pariniani, andavamo ai popolari da soli. E i nostri genitori si guardavano bene dal proibircelo, anzi ci incoraggiavano, perché era un modo tranquillo e niente affatto pericoloso di trascorrere le domeniche. Tant’è vero che nella nostra famiglia feci io da apripista, e mio padre Ciro cominciò ad aggregarsi soltanto negli Anni 60 [...] Mi vedo ancora in campagna, aggrappato alla radio il giorno della seconda retrocessione. Della prima, a tavolino, mi ero fatto una ragione. La stretta al cuore della seconda non la dimenticherò mai. Di buono c’è che rientrai a Milano proprio nel ’90, in tempo per godermi l’epopea di quegli anni [...] Non le dico la sofferenza il 13 maggio 2003, quando il derby di ritorno di coppa è caduto la sera della prima de I due Foscari. Per fortuna è finita bene, di qua e di là [...] L’emozione più forte la provai la volta che mi presentarono Rivera. Credo di averlo torturato poi per tutta la sera, né più né meno come un ragazzino”» (’La Stampa” 11/8/2003).