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 2002  febbraio 26 Martedì calendario

FRANKS Tommy. Nato a Wynewood (Stati Uniti) il 17 giugno 1945. Generale, a capo delle truppe Usa nella guerra dell’Afghanistan e nella seconda guerra del Golfo

FRANKS Tommy. Nato a Wynewood (Stati Uniti) il 17 giugno 1945. Generale, a capo delle truppe Usa nella guerra dell’Afghanistan e nella seconda guerra del Golfo. «Non ha mai frequentato la nobile scuola di guerra sul fiume Hudson. Compagno di liceo di Laura Bush, moglie del presidente, ha dovuto lasciare l’università senza laurearsi. Suo padre era un meccanico, la mamma casalinga. Rimasto orfano, si arruola nell’US Army, va nel 1965 in Vietnam, come soldato semplice, subisce tre ferite e torna a casa con la Stella di Bronzo al merito. Una borsa di studio per marmittoni intelligenti lo promuove ufficiale di artiglieria e gli assicura stavolta non una, ma due lauree. E quando riceve la nomina a colonnello, va a lavorare con i generali a quattro stelle, la superélite dell’esercito. Il contadino furbo ha fatto carriera. Ma è rimasto il pupillo della scuola tradizionale, aerei, carri e cannoni a sufficienza e arriverà la vittoria. [...] Sua moglie Cathy al mattino lo saluta dopo la ginnastica, ”Vai amore, rendi il mondo sicuro per le democrazie”. Nel jet d’ordinanza, come generale del Centcom, ha fatto disegnare quattro stelle sulla sua poltrona e quattro cuori su quella riservata a Cathy. La fedele metà gli è costata un’inchiesta per rispondere alla domanda ”chi paga i biglietti per la moglie del generale?” e per non avere saputo dire alla signora, ”lasciaci ora, cara” durante una riunione segreta» (Gianni Riotta, ”Corriere della Sera” 20/3/2003). «Si vanta di essere un ”soldato con gli anfibi coperti di fango”, all’elegante uniforme verde scuro con cravatta nera e medaglie preferisce la tuta mimetica, e il suo scarso senso diplomatico gli ha fatto in passato esclamare in pubblico vere e proprie chicche come ”il Sudan è un caso disperato” e ”il governo della Somalia non esiste”. Il temperamento del gigantesco texano (sfiora i due metri) fa storcere il naso agli analisti politici della Washington che conta, procura bruciori di stomaco alla Casa Bianca. Ma lui non si preoccupa: ”Vedo che le critiche arrivano soprattutto da parte di chi crede che questa guerra si possa vincere in quindici giorni”, scherzò il generale durante una delle rarissime apparizioni davanti ai giornalisti durante il conflitto in Afghanistan. Questa testardaggine e la sostanziale indifferenza alle critiche sarebbe piaciuta parecchio a Douglas MacArthur, che fu governatore del Giappone per sei anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e durante tutta la carriera si distinse – oltre che per il coraggio – per il disprezzo delle opinioni di ”politicanti e giornalisti”. Indipendenza che – peraltro – a MacArthur (ansioso di invadere la Cina) costò il posto – Truman lo rimosse bruscamente dalla carica nel 1951. Lo stile del popolano Franks e quello del severo MacArthur (che veniva da una famiglia di giudici e eroi della guerra di secessione) non potrebbero essere più diversi. Lontana anni luce la loro oratoria: famosissimo il discorso di un ormai anziano MacArthur a West Point nel 1962 (’Le ombre si allungano, il crepuscolo è vicino... ma riecheggia ancora nella mia memoria lo strano, dolente rombo del campo di battaglia”), volutamente disadorni i no comment borbottati da Franks. Il frequente ricorso a terribili raffiche di parolacce per sottolineare le sue opinioni – ovviamente lontano dai giornalisti – è uno dei suoi storici vezzi, e in questo più che il diffidente MacArthur ricorda il sanguigno generale Patton (il quale una volta apostrofò le sue truppe con le storiche parole ”è la prima volta che mi ritrovo alle prese con dei soldati negri, ma sappiate che non mi importa nulla del colore della vostra pelle: quello che mi interessa è che dovete ammazzare tutti quei mangiacrauti figli di puttana, sono stato chiaro?”). [...] Lo hanno incolpato – sempre in modo anonimo – di ”aver fatto scappare Osama” soltanto perché rifiutò di assecondare la richiesta della Casa Bianca di mandare centinaia di ranger tra i monti di Tora Bora per stanare lo sceicco del terrore (preferì continuare con i bombardamenti per non sacrificare i suoi uomini). Il principale capo d’accusa agitato dal contingente anti-Franks è proprio questo, la riluttanza a utilizzare gli uomini delle forze speciali (’Io non faccio show televisivi, faccio la guerra”) . Ma anche se non è un fedelissimo dei repubblicani attualmente al potere ( è arrivato al comando centrale quando alla Casa Bianca c’era Clinton) sembra avere la stima personale del presidente. Nell’ottobre 2001, pochi giorni prima di scatenare l’attacco contro l’Afghanistan dei talebani, Bush dimostrò di tenere in grande considerazione la sua opinione: ”Quando lui dirà che siamo pronti a colpire – spiegò Bush ai suoi ministri – allora lo dirò anch’io” . Stile sartoriale e personalità a parte, appartiene – come Colin Powell – alla generazione entrata nelle forze armate al tempo del Vietnam. Gli ex ragazzi che guardano all’intervento come ultima risorsa e – dopo essere stati travolti dal fallimento nelle risaie indocinesi della ”teoria del domino” – considerano l’espansionismo con enorme diffidenza. Per averne la prova definitiva basta pensare alla sua soddisfazione nello spiegare, durante un briefing al Pentagono nei primi giorni della guerra contro i talebani, che ”abbiamo un ottimo piano per abbandonare l’Afghanistan in caso di necessità”. La sua gaffe più celebre – o lapsus freudiano? – risale proprio ad allora, quando espresse ”il mio più profondo dolore per la perdita dei nostri soldati nell’attuale conflitto vietnamita”. Si corresse immediatamente con un sorriso nervoso dicendo ”no, conflitto afghano, ovviamente”, ma il danno era fatto, lo spettro della guerra che vide da ragazzo era stato evocato davanti alle telecamere della Cnn, in diretta tv» (Matteo Persivale, ”Corriere della Sera” 12/10/2002).