Varie, 26 febbraio 2002
Tags : Aretha Franklin
Franklin Aretha
• Memphis (Stati Uniti) 25 marzo 1942. Cantante • «[...] una delle più grandi voci del Novecento, la più autorevole e la più influente, un talento ancora insuperato, ma in Italia non l’abbiamo quasi mai vista. Colpa della paura. Paura di volare. [...] cancellato l’Europa dai suoi impegni per evitare di salire su un aereo. Lo stesso motivo per cui all’epoca Mina, corteggiata da Sinatra e dagli impresari di Las Vegas, rifiutò prestigiosissimi ingaggi negli Usa. Ma al contrario di Elvis Presley, che gli aerei li pilotava ma ostinatamente schivò il vecchio continente, la Franklin fece un paio di visite in Europa che hanno lasciato tracce profonde nella storia del pop. Tutto si consumò tra il 1968 e il ’69, gli anni d’oro del soul, quando la diva vinse i suoi primi tre Grammy Award (ne avrebbe fatto incetta fino al 1975), finì sulla copertina di “Time” e cantò all’Olympia di Parigi. [...] quegli anni meravigliosi in cui l’artista incise di getto una sfilza di capolavori irrinunciabili anche per chi la musica leggera l’ha sempre guardata di traverso. I never loved a man (The way I love you e Aretha arrives nel ’67; Lady soul, Aretha now e Aretha in Paris nel ’68; Soul ’69, This girl’s in love with you, Spirit in the dark e Live at Fillmore West nei due anni successivi: tutti album che sono entrati nella leggenda, tutti realizzati con la stessa, semplicissima formula. “La feci sedere davanti al pianoforte e le dissi, canta!”, racconta il produttore Jerry Wexler, ricordando il loro incontro negli studi di Memphis. Fu il primo a intuire che per esprimersi al meglio Aretha aveva solo bisogno di libertà. La Franklin aveva esordito con un blasonatissimo mecenate, Albert Hammond, lo scopritore di Bessie Smith e Billie Holiday. L’aveva sentita cantare nella chiesa battista dove suo padre era pastore e stordito dalle enormi possibilità di una voce che non conosceva confini, si mise in testa di “costruire” una diva che riassumesse in una sola figura l’enorme statura gospel di Mahalia Jackson e la raffinata verve jazzistica di Ella Fitzgerald. Aretha si fece guidare, cercando di tenere bene in mente la lezione di Dinah Washington, la formidabile urlatrice che l’aveva tenuta sulle ginocchia quando era ancora una bambina nella parrocchia di papà, a Detroit. Per sei anni Hammond le fece incidere dozzine di canzoni in bilico tra jazz e pop; pregevoli, ma fuori sintonia con la sua prepotente e spontanea vena interpretativa. “Tutto quello che canto arriva dall’anima”, diceva lei. Hammond non capì che quel viene dall’anima non può essere plasmato, è già di per sé sublime. Quando Aretha sbarcò in Italia nel 1969, con le sue parrucche e i bauli carichi di preziose mantelle e copricapo afro, aveva ancora quella carica esplosiva che solo molti anni dopo avrebbe annacquato con visoni, cascate di diamanti e violini (prima del ritorno in grande stile nel film The blues brothers con una fantastica riedizione di Think, nel 1980). Tenne un concerto alla Bussola di Viareggio, poi il Cantagiro la scritturò per due show, uno a Mentana, pochi chilometri dalla capitale, l’altro a Roma. La star stava attraversando un brutto momento con il marito Ted White: dopo la prima serata e una lite furibonda tra i due in un ristorante romano, decise di rientrare in America e cancellò il secondo concerto. In un’intervista, il “Time” accennò alla sua burrascosa vita sentimentale: la cantante decise di non parlare più con la stampa e [...] non ha fatto eccezioni. Quando nel 1998 convocò David Ritz, il biografo dei grandi del soul, per dettargli le sue memorie, tutti speravano che avrebbe svelato molti segreti della sua vita lontana dai riflettori [...]. Ma From these roots [...] racconta poco di più di quello che tutti sanno, soffermandosi più volentieri sui particolari culinari che sui suoi leggendari appetiti sessuali. Del suo incontro con Hammond a New York, quando aveva 18 anni, ricorda con più affetto un ristorante di Broadway che serviva hamburger succulenti che l’emozione delle prime sedute in uno studio di registrazione in cui erano transitati i più grandi cantanti della storia. Di quella voce unica, inimitabile, sacra eppure sfacciatamente profana, che è stata il motore dei balli degli anni Sessanta, la colonna sonora delle marce per i diritti civili e la musa ispiratrice di intellettuali e leader neri come Langston Hughes, James Baldwin, Martin Luther King e Malcolm X, la grande Lena Horne una volta disse: “È un tesoro della cultura afroamericana. Spontanea, potente, esplosiva. La sua generosità mi fa piangere”» (Giuseppe Videtti, “la Repubblica“ 23/4/2005).