Varie, 26 febbraio 2002
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Frears Stephen
• Leicester (Gran Bretagna) 20 giugno 1941. Regista • «Grandi occhi azzurri su una faccia allungata e tagliata da una bocca stretta [...] autore di My beautiful Laundrette e Relazioni pericolose [...] ”[...] i miei connazionali mi considerano un veterano eccentrico, un camaleonte. Non mi amano. [...] Io mi considero un bambino viziato che gira film dove può e dove glieli offrono. Sono eclettico, che male c’è? solo un problema di ragionevolezza. La vita è troppo breve per dire di no. E poi io non credo al mito del regista-autore” [...]» (Sandro Rezoagli, ”Ciak” agosto 2000) • «Glenn Close, che fu la sua temibile marchesa di Merteuil in Le relazioni pericolose, dimostrandosi una spiritosa osservatrice, ha definito la sua faccia ”uno stadio dopo la partita”. E in effetti Stephen Frears non si può definire, all’aspetto, un uomo ”curato”. [...] tende ad accreditare di sé un’immagine passiva, del regista a cui le cose ”capitano”, di quello che non è bravo ”dare il calcio di inizio alle cose”. Gli è ”capitato” [...] quando aveva già quarantaquattro anni, di fare un film che è diventato il manifesto del nuovo cinema britannico anti-Thatcher e il primo film del meticciato culturale, e di trasformarsi nel regista di punta di un nuovo Free Cinema, entrando ”per caso” nell’avventura di My beautiful laundrette, il copione scritto da un allora giovanissimo scrittore anglo-pakistano, Hanif Kureishi, e prodotto per Channel 4. [...] filmografia perennemente al confine tra ”indie” e ”mainstream”, tra impegno e divertimento, tra cinema europeo e grande confezione americana. Una filmografia per cui in America hanno coniato per lui l’etichetta dello ”hooligan di classe del cinema britannico”, proprio per la sua capacità di mescolare i generi e i livelli e di dissacrare elegantemente le istituzioni. Gli piace, ma lui, dalla sua, ama definirsi ”frivolo”, in confronto almeno ai suoi coetanei e compagni del cinema inglese del ”realismo sociale” come Ken Loach ed Mike Leigh (’che sono molto più seri di me”), quasi a prendere le distanze dalle molte possibili letture politiche e impegnate che si possono applicare al suo cinema. I film come Sammy e Rosie vanno a letto o Prick up - L’importanza di essere Joe, che rievocavano stagioni selvagge della cultura britannica. I film come The Snapper e Due sulla strada-The Van, in cui si è fatto portavoce del proletariato irlandese. I film di alta confezione hollywoodiana come Le relazioni pericolose, Eroe per caso o Mary Reilly. O quelli che, sotto la patina elegante, sono film di denuncia, come Piccoli affari sporchi, che in forma di thriller parla del commercio di organi. E, come è nel suo stile distaccato e ironico, di Piccoli affari sporchi, tanto per chiamarsi fuori da ogni ”accusa” di impegno, Frears dice che lui, dell’argomento, non ne sapeva niente, che si è fidato delle storie raccontate dallo sceneggiatore, che non è un film ”sull’Inghilterra e sulla società inglese, come è stato a suo tempo My beautiful laundrette, ma un film sulla globalizzazione, sulle grandi migrazioni, su delle gente disperata, una storia che potrebbe svolgersi in qualsiasi grande città dell´Occidente...”. Dice anche di essere ”istintivo”. In che senso? ”Nel senso che, nel fare cinema, mi lascio andare più liberamente ai miei istinti, alla libertà dagli schemi. Mi piace quando il film si libera dalle restrizioni che gli vengono imposte dalle regole dei generi”. Frears, racconta, è cresciuto, prima a Leicester, poi a Londra, con il cinema vecchio stampo, ”il grande cinema della Warner degli anni ’30, con film divertenti che trattavano temi seri, e poi con Hitchcock, che, guarda caso, con la scusa dei brividi e dell’intrattenimento, si occupava di temi fondamentali come la colpa e la redenzione. Be’, anch’io aspiro a essere frivolo e serio allo stesso tempo”. La parte seria deve essergli entrata nel sangue (lui dice ”nelle ossa”) attraverso la frequentazione dei suoi due maestri riconosciuti, Karel Reisz e Lindsay Anderson. ”Da loro ho imparato tutto o quasi. Che il contenuto è soprattutto importante, ma che le scelte umane danno al film il suo sapore. E quindi gli attori...”. [...]» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 4/1/2006).