Varie, 26 febbraio 2002
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FREEMAN Cathy Mackay (Australia) 16 febbraio 1973. Sprinter. Campionessa dei 400 piani (ritiro nel 2003), prima di dedicarsi all’atletica ha giocato a lungo a pallacanestro
FREEMAN Cathy Mackay (Australia) 16 febbraio 1973. Sprinter. Campionessa dei 400 piani (ritiro nel 2003), prima di dedicarsi all’atletica ha giocato a lungo a pallacanestro. stata la prima aborigena a partecipare nell’atletica a un’Olimpiade (Barcellona ’92). Nei 400 ha vinto l’oro olimpico a Sydney 2000 e due ori mondiali (Atene ’97 e Siviglia ’99). stata anche argento all’Olimpiade ’96 dietro la Perec. Si è rivelata ai Giochi del Commonwealth ’94 vincendo 200 e 400. «Ha caratterizzato almeno due momenti dell’Olimpiade 2000: dapprima quando fu scelta - per le sue origini aborigene e, si disse, anche per interessamento del colosso Nike, di cui aveva sposato uno dei dirigenti, Alexander Bodecker - come ultimo tedoforo, quindi perchè in occasione della finale dei 400 metri piani, la "sua" gara, lo stadio olimpico fu gremito da 112 mila spettatori, accorsi per assistere al suo trionfo e poi pronti a cantare in coro l’inno australiano strappando una lacrima di commozione anche al più distaccato degli osservatori. Taglia minuta (52 chili su 164 cm), aveva già gareggiato nelle due precedenti edizioni dei Giochi. Diciannovenne, a Barcellona, era stata la prima aborigena a far parte della squadra australiana, senza però andare al di là delle batterie. Quattro anni dopo ad Atlanta, invece, solo Marie José Perec, al culmine della condizione, riuscì a batterla: 48”25 contro 48”63. Poi, mentre la francese andava disperdendo il suo grandissimo talento, Cathy ne ha raccolto la leadership mondiale, conquistando i titoli iridati di Atene ’97 e Siviglia ’99, fino all’apoteosi olimpica in patria, logica conseguenza di un primeggiare costante. Un trionfo che fece si che le venisse perdonato il fatto di aver incassato, da sponsorizzazioni e ingaggi, due milioni e mezzo di dollari senza pagare una lira di tasse. Campionessa olimpica a 27 anni, nessuna delle rivali in grado di insidiarla più di tanto, tutto faceva pensare che la Freeman avrebbe continuato a essere la regina dei 400 ancora per qualche anno. E invece, dapprima la decisione di concedersi un anno sabbatico per recuperare energie dopo una stagione che l’aveva vista costantemente al centro dell’attenzione, quindi una grave malattia che ha colpito il marito inducendola a ritardare il rientro per poterlo assistere. Gli anni di pausa sono così diventati due. Solo nell’inverno 2003 è tornata ad allenarsi ma i risultati non sono stati esaltanti [...] una serie di sconfitte con riscontri cronometrici che, anzichè migliorare, sono andati peggiorando. L’idea del ritiro definitivo si è fatta così strada, per non affogare nella mediocrità il ricordo dei giorni in cui nessuno in Australia era popolare quanto lei» (Giorgio Barberis, "La Stampa" 18/6/2003). «Si era tatuata sul braccio la scritta "cos I´m free", perché io sono libera, ma è probabile che non si sia sentita libera mai, tantomeno la notte della vittoria dei 400 metri alle Olimpiadi di Sydney. [...] Ha conosciuto il privilegio di essere un simbolo ma anche i pericoli del simbolo che sovrasta l´atleta. Era arrivata seconda alle Olimpiadi di Atlanta nel ’96, prima medaglia aborigena della storia, dietro a José Marie Perec, un´altra che poi ha finito male la sua carriera. Ma tutta l´Australia ha poi visto in lei il personaggio che, per i Giochi di casa, avrebbe dovuto rappresentare l´incontro e la pacificazione delle due culture che danno vita al paese. Divenne la paladina della riscossa aborigena ma anche della buona coscienza bianca. Fu lei, avvolta in una tuta spaziale, ad accendere il braciere nella cerimonia inaugurale, sentendo su di sé gli occhi dei centomila dello stadio Olimpico, occhi della sua gente che non si sono staccati da lei per mesi. E la sera della finale dei 400, quando ha tagliato prima il traguardo con un tempo (49"11) superiore a quello di quattro anni prima, è stata la notte in cui 112.524 spettatori hanno applaudito e sottoscritto la realizzazione di un sogno, certo, ma soprattutto di un progetto. Forse percepì la freddezza del piano preparato per superare anche certe ostilità di aborigeni e non ai Giochi: certo non è mai apparsa una donna felice. La sua vita privata è stata difficile: al di là dell´infanzia povera nel Queensland, ci sono due matrimoni interrotti. Il primo con Nick Bideau, il tecnico che poi sarebbe diventato l´allenatore e il compagno di Sonia O´Sullivan, che la sbeffeggiava, dicendole che sarebbe diventata grassa come tutte le aborigene. Poi Alexander Brodecker, dalla quale si è separata dopo che gli è stata vicino per aiutarlo a guarire da un tumore alla gola. Ed era infelice nel suo ruolo pubblico. Dopo averlo accettato (in fondo era stata lei per prima a festeggiare la vittoria nei Giochi del Commonwealth del ´94 avvolta nella bandiera aborigena, nera e rossa con il sole giallo) faticava a trovare la via per esprimerlo. Perseguitata dalle domande del mondo, diceva di non voler fare crociate o di avere particolari rivendicazioni. Si era piegata ad essere l´eroina del paese, ma non aveva la personalità per reggere la parte: fu sufficientemente brava a spendere tutto quello che aveva per vincere la gara che doveva vincere. Fece in tempo a vedere anche la fragilità politica dell´operazione "Freeman", dopo che da ogni parte, finiti i Giochi, si disse che in fondo non è che cambiasse molto la storia delle due comunità australiane» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica”, 2003).