Varie, 26 febbraio 2002
FRUTTERO
FRUTTERO Carlo Torino 19 settembre 1926. Scrittore • «L´altra metà della ditta, quella che tragicamente si sciolse con il suicidio di Franco Lucentini [...] ”Scherzavamo su tutto, ma senza cinismi. Senza mai dire: tutti i politici sono corrotti, tutte le donne sono puttane, tutti i tedeschi sono assassini, tutti i maghrebini sono criminali [...] Franco diceva: il riso deve arrivare al momento giusto. In una serata giusta, non avendo niente da leggere, anche un trattato sul cemento può diventare interessante, diceva [...] Sono molto casalingo. Passo le serate fra i libri, qualche chiacchiera e la televisione [...] talmente orrenda da sfiorare, in certe sue trasmissioni, il capolavoro involontario. Personalmente seguo le inchieste e le partite di calcio [...] Non mi è dispiaciuto che per il secondo anno di seguito lo scudetto sia andato alla Juventus [...] Il calcio è un modo di rappresentare la vita. Ventidue giocano e ottantamila persone giudicano. Un tribunale assurdo e affascinante [...] perché ottantamila ciechi che seguono solo il loro sentimento sugli spalti sono uno spettacolo unico. Del calcio adoro la casualità in azione. Una gamba tesa o ritirata, un millimetro in più o in meno possono decidere un risultato. su questo che si innesta il calcio cosmico, vissuto, parlato, negato, esaltato: nessun argomento è così denso di ipotetici se. come nelle battaglie: se a Waterloo quel generale fosse arrivato prima. Se, se, se... [...] Maradona, Platini, Del Piero sono bellissimi da vedere, i loro gesti ce li portiamo dentro, a volte fin da bambini [...] Da bambino giocavo in porta. Ricordo che tuffandomi, sentivo l´odore della terra e dell´erba. Giocavamo nei prati, intorno a Torino [...] Un gran strazio a scuola, con brutti voti, tra il cinque e il sei al massimo. Nessun interesse per quella tortura [...] Avevo 14 anni. Nel 1942 cominciarono i bombardamenti su Milano e Torino. Con i miei sfollammo in una casetta del Monferrato. E lì nel paese dove stavamo c´era un castello con una biblioteca fornitissima. Erano libri in prevalenza francesi e inglesi. Ricordo che per accedervi cominciai a prendere lezioni di inglese e francese da un prete [...] Leggere in un´altra lingua mi entusiasmava. Tra i 15 e 18 anni lessi tantissimo. Fu per me un modo di sopravvivere alle bombe. Credo che non si possa più leggere come ho letto io. Ci vorrebbe un´altra guerra mondiale [...] Eravamo una nazione avviata alla sconfitta, al disastro. Tutta la retorica del fascismo, tutte le buffonate, tutte le promesse con cui ci avevano martellato la testa, svanirono alla prima cannonata. Era un paese cialtronesco da cui scappare [...] Andai via dopo la guerra. Grazie al tesserino universitario potei facilmente arrivare a Parigi e lì, da immigrato, cominciai a fare ogni sorta di lavoro [...] Mi pare fosse il 1947. Ricordo che ogni tre mesi andavo alla Préfecture de Police a farmi rinnovare il permesso di soggiorno [...] Feci il pittore edile, le consegne di sidro, il metallurgico. Lavoretti che oggi svolgono i nostri immigrati. Sempre molto precari e sottopagati. Mangiando poco e dormendo in posticini incredibili. Però mi divertivo. Mi bastava essere lì [...] Ai miei occhi la città continuava ad essere la capitale universale, come era stato per tutto l´Ottocento. Con la differenza che la mia Parigi non era quella letteraria degli esistenzialisti, ma quella desolata delle periferie e dei chilometri percorsi a piedi. Ricordo che smisi di scrivere e quasi di leggere. Per anni vagai tra la Francia e il Belgio [...] Ho fatto perfino il giostraio. Ma prima ricordo che finii, senza un soldo, a lavorare in un ospizio di Anversa. Insieme a un altro paio di disperati andavamo tutte le mattine all´alba in un piccolo mattatoio a caricare dei bidoni di ossa, con cui poi all´ospizio facevano il brodo [...] Trovai questa occupazione in una giostra che si spostava nelle Fiandre. Viaggiavo su di una roulotte piena di gente come me. Eravamo tutti un po´ sbandati. Poi finii in una acciaieria di Charleroi e lì feci il duro lavoro del manovale [...] Stavo nei pressi dell´altoforno. E dopo la colata, armato di un ferro dovevo grattare via quello che era restato sul bordo. Correvo un certo rischio [...] Cinque anni fino al 1952 [...] Una specie di sfida. Io privilegiato, certo non ricco ma rispettabile borghese, volevo vedere come me la sarei cavata senza nessun aiuto. Se ti viene un mal di denti terribile e tu sei in una camerata di cento persone, in una fabbrica in rovina, è l´una di notte, non c´è la mamma, non c´è il dottore, non conosci nessuno, che fai? questo che volevo verificare [...] Furono anni duri ma belli. E poi ho capito qualcosa che solo lì avrei potuto apprendere in mezzo a tutti quei proletari che arrivavano dalle parti più povere dell´Europa. Senza nessun sforzo vidi e capii che questi proletari erano come le duchesse e i principi del Castello di Passerano: ce n´erano di verbosi, di logorroici, di cupi, di tristi, di noiosi, di sognatori, di intelligenti, di onesti e di truffatori. Erano come tutti gli altri [...] Non ho mai avuto il mito del proletariato. La cosa potrà oggi sembrare irrilevante. Ma alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta l´intellettuale che non provava il senso di inferiorità di fronte alla classe operaia era una stranezza da guardare con sospetto [...] Cominciai a tradurre per l’Einaudi nel 1950. Ero il loro esperto di letteratura inglese. Nel ´52 mi offrirono di entrare in organico. Riluttavo, mi sentivo ancora molto anarchico. Il lavoro a tavolino, gli orari di ufficio mi procuravano angoscia [...] Ero perplesso. Guardavo la redazione dall´alto in basso. Mi parevano dei bambini che sapevano pochissimo della vita [...] Dissi basta alla vita raminga. Cominciai a fare i miei libri, a proporli, a tradurli [...] Pavese era morto suicida nel 1950. Non l´ho conosciuto. Lucentini che lo aveva incontrato mi disse che era un uomo di straordinario fascino. A me devo dire i suoi libri non piacevano. Semmai visto che spesso parlava di Langhe, gli preferivo Fenoglio [...] Ogni tanto Einaudi mi invitava a delle cene, dove c´erano degli stranieri, perché ero uno dei pochissimi che parlava inglese [...] A me non stava simpatico. Intanto era maleducato. Se veniva a casa tua, cominciava a dire: ma guarda come è orrendo quel cuscino, ma che schifo quel quadro, ma questo caffè è imbevibile. Però gli riconosco il talento di aver saputo mettere insieme gente straordinaria [...] Franco era un ramingo. Aveva vissuto a Vienna, a Praga, a Parigi dove ci conoscemmo una sera a casa di amici. Ricordo che allora faceva anche delle traduzioni per Einaudi. Una volta mi confessò che l´affare della sua vita era stato tradurre I mandarini di Simone de Beauvoire. Quelle seicento pagine non erano prosa, colavano senza nessuna difficoltà. Quando venne a Torino a lavorare in casa editrice, scoprimmo di pensarla esattamente allo stesso modo [...] Avevamo lo stesso atteggiamento per le cose culturali che accadevano. Ci faceva ridere la grande polemica per il Metello, o l´idea di prendere in seria considerazione il fatto che Pudovkin aveva fatto un film sui trattori sovietici! [...] La redazione era straordinaria: c´era Venturi, feroce anticomunista, Serini, liberale, Bobbio che mediava fra le due culture, c´era il figlio di Solmi, raffinato germanista, c´era Calvino. Devo dire che la casa editrice aveva molto l´aria del club [...] L´impressione era che tutto ciò che non avvenisse lì fosse irrilevante. Capisce? Nascevano il Saggiatore, Feltrinelli, Adelphi. La reazione era corale: sono dei dilettanti. C´era questa arietta da club con la cravatta di ordinanza [...] Einaudi ci affidò nel 1961 l´incarico di fare un´antologia di fantascienza con dei racconti segnalati dal vecchio Solmi. L´antologia andò così bene che Alberto Mondadori ci chiese di collaborare con Urania. Einaudi prima ci diede il permesso poi ce lo negò. Disse che quegli insettoni che comparivano sulle copertine non gli piacevano. E allora io gli risposi che a quel punto se dovevo scegliere fra Einaudi e Urania sceglievo Urania. Franco mi confessò che sarebbe venuto via volentieri con me [...] A noi piaceva la fantascienza secca, cattiva. Quando si comincia a pontificare, allora è meglio pubblicare Kant [...] La donna della domenica ci sembrava un buon romanzo. Il libro uscì nel 1972. Cominciavano le Brigate Rosse, l´Italia era nel caos. Il fatto che un romanzo tutto di conversazioni, un po´ alla Jane Austen, avesse avuto quel successo ci sembrava impossibile [...] Eravamo una coppia di artigiani, ciascuno con una forte personalità, altrimenti non avremmo potuto fare tutti i libri che abbiamo fatto [...] Per poter lavorare in due senza litigare occorre avere di sé un´idea altissima, altrimenti alla prima critica che ti muove l´altro ti sgonfi, ti deprimi, ti offendi. Il segreto del nostro sodalizio era invece la supponenza, l´autostima mostruosa [...] Eravamo in totale simbiosi. Ci teneva insieme l´eccesso di presunzione[...] Abbiamo svolto il nostro lavoro con spirito, intelligenza e moltissima fortuna [...] Fortuna di aver costeggiato la grande letteratura e i grandi interrogativi senza mai entravi dentro. Abbiamo così evitato polemiche e perdite di tempo inutili. Tra Urania, le traduzioni i libri polizieschi siamo vissuti bene. Tranquilli. Come se fossimo la repubblica di Andorra. Vedevamo le stesse cose degli altri, però eravamo la repubblica di Andorra”» (Antonio Gnoli, ”la Repubblica” 25/7/2003).