Varie, 26 febbraio 2002
GABBANA
GABBANA Stefano Milano 14 novembre 1962. Stilista • «Dolce e Gabbana, soci indissolubili nel lavoro (in privato, si dice, separati in casa), superata la quarantina, sono gli ultimi reperti della meravigliosa stagione della grande moda italiana: ”Noi veniamo dalla scuola di grandi maestri come Armani, come Versace, veri creatori, veri inventori, gente di autentica passione. Oggi non ce ne sono più, l´anonimato, anche culturale, accomuna i cosiddetti giovani stilisti: non basta portare l´orecchino e buttar giù un disegno, per fare questo lavoro con successo. Noi produciamo ogni anno, oltre agli accessori, circa 4800 modelli di abbigliamento donna e uomo, e li pensiamo e tagliamo uno per uno, perché prima di tutto siamo dei veri sarti. Poi vanno in produzione, ma prima sono passati per le nostre mani, e li abbiamo accarezzati, amati”. Certo, in vent´anni, il duo, che porta sempre jeans stracciati (Stefano ne ha in guardaroba una quarantina, però sbrindellati in punti diversi), ha avuto una carriera fulminante: partiti uno da Polizzi Generosa in Sicilia, l´altro da Milano stessa, mettendo insieme due milioni di lire di allora per cominciare, oggi possiedono insieme: tre sedi a Milano tra cui una nuova di sette piani pubblicata da riviste di arredamento dal fusion Mies Van der Rohe-maioliche di Caltagirone, il primo negozio al mondo per uomo su tre piani con abbigliamento, barbiere siciliano, istituto di bellezza affollatissimo, bar lussuoso, abitazione superricca in città, mitica villa anni Trenta a Roquebrune in Costa Azzurra, casa a Stromboli mozzafiato (come dicono le esperte di moda) e a Portofino stanno terminando di sistemare un´area con più case, che era in affitto a Berlusconi. Ma la padrona di quel paradiso, incapricciata dei due giovanotti e del loro amore per l´arredamento rococò-zebrato, ha preteso che fossero i soli a comprarla. In più la loro azienda è tra le poche che ha avuto utili record malgrado i tempi molto grami, che sconsigliano a molte signore di comprare a 1000 euro l´ennesimo paio di stivali di finto leopardo con tacco d´acciaio.[...] ”Ci volevano comprare, ci hanno offerto una barcata di soldi. Abbiamo capito il nostro valore e abbiamo detto no”. E hanno fatto bene, pensando alle angustie in cui boccheggiano i grandi gruppi finanziari che a furia di comprare marchi stracotti o a sentirsi padroni del mondo, oggi sono in affanno. Tutto il superfluo che negli anni hanno inventato, estasiando moltitudini di esibizioniste, oggi lo si vede, copiato, nelle vetrine di veterolusso. Nelle loro paiono invece, per rigore di taglio, grazia di colore e perbenismo, il guardaroba di Elisabetta d´Inghilterra» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 28/9/2003). «Siamo stati gli ultimi italiani a emergere. Poi si è innescato un meccanismo strano: quando nell’ 84 abbiamo presentato la prima collezione, la sfida era sui vestiti. Adesso i vestiti vengono dopo, prima ci sono i soldi e il potere. Se li hai, fai strada. Sennò non ne fai. Noi ci siamo sempre autoprodotti. Armani è un altro indipendente, ma siamo animali in via di estinzione. Adesso gli stilisti vengono comprati dai grandi gruppi. Ed è una fregatura, perché le aziende ti danno i soldi, ma puntano al guadagno immediato, non lasciano ai giovani il tempo di crescere. come pretendere che un bambino a tre anni sappia già leggere e scrivere. Come fa uno stilista, in un paio di stagioni, a produrre utili? Quando noi abbiamo cominciato, ci ha dato una mano la famiglia di Domenico. Non avevamo contratti, non avevamo nulla da perdere, pensavamo solo ai vestiti ed è stata la nostra fortuna. [...] Se non hai qualcuno dietro, non fai niente. Prendiamo Alexander Mc-Queen: lui è un grosso creativo, però è stato comprato. E lo stesso Galliano: comprato, anche se non del tutto. La cosa migliore invece è fare un passo per volta, non avere fretta, radicarsi nel mercato. Mi piacerebbe scrivere un libro per spiegarlo ai giovani e dire che la possibilità di arrivare, malgrado tutto, c’è, però bisogna crederci tanto, anche quando prendi sberle. [...] Ci accusavano di essere volgari per via delle spalline del reggiseno in vista, della corsetteria, dei lacci. Mi ricordo che l’invito della nostra sfilata, nel ”91, era un paio di collant con il reggicalze. Ne uscì un casino. Adesso il reggicalze lo fanno tutti e non si non scandalizza più nessuno. [...] Siamo maturati, scandalizzare per scandalizzare non ci interessa, è un percorso già fatto. Rompere gli schemi, oggi, significa spaccare tutto e rimescolare, come abbiamo fatto nell’ultima collezione, combinando mille stampe e mille stili diversi. Penso sia la strada giusta per fare qualcosa di nuovo. Il vestito che scandalizza non interessa più: che m’importa di vendere un pantalone con tre gambe? Riuscire a fare abiti che danno sensazioni nuove: questo è lo scandalo. [...] Il mercato italiano è un po’ ingessato, ma è il migliore. Londra, Londra, Londra... Non si fa che parlarne. Gli stilisti inglesi non è che non siano bravi, ma non hanno il mestiere nelle mani, a parte McQueen o la Westwood, due geniacci. Oppure Galliano, che è mezzo inglese. Noi prendiamo molta ispirazione da Londra, perché è l’unica città davvero eccentrica. Ci andiamo un weekend sì e uno no. I collant stampati, le scarpe da tennis con gli abiti classici da uomo, i jeans rotti sono venuti da lì. La cosa bizzarra è che gli stilisti inglesi non riescono invece a mettere in pratica tutta questa creatività che vedono attorno. Noi abbiamo un’industria alle spalle tanto abile da realizzare qualunque cosa ci venga in mente: tessuti, maglie, bottoni, ricami. Gli altri no: né la Francia, ne l’Inghilterra, né gli Usa. [...] Il fatto che abbiamo questa morbosità dello stare sempre fuori, in mezzo alla gente, è proprio per il timore di perdere il contatto. Ogni tanto il dubbio mi viene e lo dico a Domenico: chissà per quanto ancora potremo disegnare D& G, la nostra linea giovane (non parlo della Dolce & Gabbana, quello è un altro discorso, quella siamo noi e basta). Ci sono dei fenomeni giovanili che mi sforzo di capire, che capisco anche. Ma non li vivo più in prima persona, non è più il mio stile di vita. [...] Quando realizzeremo (speriamo di non essere così cretini da non capirlo) che non siamo più in sintonia con i giovani, faremo disegnare la D& G da qualcun altro. Che dobbiamo fare? Non vogliamo che la linea invecchi con noi» (Da. Mo., ”la Repubblica” 29/10/2003). Vedi anche: Stefano Jesurum, ”Sette” n. 36/1999.