Varie, 26 febbraio 2002
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Gaber Giorgio
• (Giorgio Gaberscik) Milano 25 gennaio 1939, Montemagno (Firenze) 1 gennaio 2003. Cantante. Autore. «Era cresciuto in una famiglia appassionata di musica. Lui stesso cominciò prestissimo a suonare la chitarra e continuò malgrado fosse stato colpito dalla poliomielite con conseguenze nefaste sull’uso della mano sinistra, fino a trovarsi, poco più che diciottenne, a debuttare al leggendario Santa Tecla, accanto a straordinari emergenti di quell’epoca come Adriano Celentano e Enzo Jannacci, tutti accomunati da una vena di oltraggiosa follia. Era la Milano che alla fine degli anni Cinquanta sembrava una fucina laboriosa di idee, la Milano di Carpi, Strehler e Dario Fo, dove teatro, cabaret e musica si mescolavano allegramente e senza pudori. Lui fu tra i primi a cogliere lo slancio ribelle e iconoclasta del rock’n’roll. Mentre Celentano imitava Presley, Gaber realizzò con Jannacci alcune surreali trovate del calibro di Una fetta di limone. Approdò alla gloriosa Ricordi e l’esordio, il primo 45 giri siglato Ricordi, fu Ciao ti dirò, scritta con Luigi Tenco, il primo di una lunga serie di successi diventati popolarissimi: La ballata del Cerutti, Goganga, Porta romana, Torpedo blu, Barbera e champagne. Ricordando questi brani è facile notare come ci fosse sempre una dichiarata vena teatrale. Erano canzoni spesso ”recitate”, arricchite di gesti e calembour, con rare eccezioni verso temi di puro slancio lirico, come in Non arrossire, un vero gioiello melodico. Ma il teatro era la sirena che più lo tentava. Già nel 1961 aveva messo in scena il suo primo spettacolo, realizzato insieme alla compagna di allora, la cantante Maria Monti. In quegli anni appariva spesso in televisione (celebri un paio di duetti con Mina) e tentò anche la strada dei festival. A Sanremo ci andò più volte, ma con scarso successo. La più nota è la volta di Mai mai mai, Valentina"ù nel 1966. Paradossalmente andò meglio al festival di Napoli dove, in coppia con Aurelio Fierro, cantò A pizza. Impensabile, alla luce del Gaber successivo, e infatti quella strada lo rappresentava sempre meno. Il disagio era fortissimo e, a ben vedere, già in molte delle canzoni dell’epoca c’era la visione lucida e severa del vivere borghese, il gusto polemico (memorabile fu La risposta al ragazzo della via Gluck nella quale replicava musicalmente alla ”naiveté” di Celentano). Dalla fine degli anni Sessanta, in perfetta sintonia con quanto avveniva nel paese, aveva cominciato a radicalizzare il suo impegno. Il signor G, del 1970 apre la seconda e più significativa fase della sua storia. Al signor G seguiranno tanti altri memorabili spettacoli, scritti insieme a Sandro Luporini, amico e collaboratore fedele per tutta una vita: Dialogo tra un impegnato e un non so, Far finta di essere sani, Anche per oggi non si vola, Libertà obbligatoria. Da qui le nuove canzoni, spesso estratte da un continuum teatrale recitato tra monologhi e melodie, tra cui le più famose: La libertà e Far finta di essere sani. Nel giro di pochi anni chiuse con tutta la fatua ufficialità del mondo dello spettacolo. Con la televisione soprattutto, dove non mise più piede (fino al clamoroso ritorno a fianco di Celentano nel 2001), ma per molti anni anche col teatro ufficiale, preferendo i circuiti alternativi della sinistra non istituzionale. in questa fase che si crea il mito di Gaber uomo di sinistra, da lui smentito ripetutamente negli ultimi anni, gettando nella costernazione un intero popolo di spettatori che si riconoscevano in canzoni come Shampo, Io se fossi Dio e anche nella più recente Qualcuno era comunista. In realtà già dal 1978 aveva preso le distanze dal movimento dando ai suoi spettacoli un assetto meno militante. Nel 2001, dopo tanti anni di lontananza, era tornato a incidere un vero e proprio disco, non legato a uno spettacolo teatrale, che conteneva canzoni disilluse, profonde, amare, ma comunque intensissime, che oggi suonano come un dolente testamento. Mai la canzone italiana ha riso con tanta amara e caustica consapevolezza. Il suo enorme canzoniere è forse il più spietato e severo ritratto dell’Italia degli ultimi decenni, dai primi perdenti personaggi della periferia di Milano ai tic ideologici e ai vizietti della borghesia, ma anche il segno profondo della nostalgia di un sogno di cambiamento che si è infranto miseramente tra le angustie della realtà» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 2/1/2003). «Non salvava nessuno il suo sberleffo cesellato, teatrale e musicale. In uno degli ultimi spettacoli, « E pensare che c’era il pensiero del ”95, diceva fra l’altro: ”Mi fa male la democrazia, questa democrazia che è l’unica che conosco [...]. Mi fanno male i politici, più che altro tutti [...]. E come sono vicini a noi elettori [...]. Ma sì, io vorrei anche dei bacini sul collo, per capire bene che lo sto prendendo nel culo”. Brano duro, con Gaber alle prese con le sue maschere tragiche, comiche, con le sue pose inimitabili, coinvolgente più che mai con quella sua raffinata tecnica di anticipare il gesto alla battuta. Ancora col suo tema preferito, lo smarrimento generale, il bombardamento di messaggi, il buonismo dilagante. Sempre attento al privato, agli anni che passano, alla pancia che cresce, ai disagi di un mondo maschile alle prese con un universo femminile sempre più disinibito e aggressivo. Il suo pessimismo toccò il fondo nell’ultima opera, La mia generazione ha perso, solo discografica, dal momento che una recrudescenza della poliomielite giovanile gli aveva precluso il teatro: ”Noi, con i nostri slanci, i nostri ideali, le nostre passioni e le nostre utopie siamo riusciti davvero a migliorare il mondo? Credo proprio di no”. Il nemico per lui era ”la stupidità dilagante in una società allo sbando dove i cretini andrebbero stanati con ferocia. I giovani sono conciati male, per colpa nostra”. La sinistra, che sperava di farne una bandiera, capì ben presto che con questo iconoclasta c’era poco da fare: fu definito ”qualunquista”, anche se nessuno si permise mai di dubitare della sua onestà intellettuale. Era partito da canzoni normalissime, quelle che cantava al Santa Tecla di Milano per pagarsi gli studi alla Bocconi. Il passaggio al professionismo fu rapidissimo e casuale. Con Mogol discusse a lungo sul nome d’arte (Johnny Nuvola oppure Rod Corda o al limite Joe Cavallo). Alla fine optarono per Gaber (’cioè il mio vero cognome Gaberscik privato della desinenza”). – La canzone che incisi – ricordava – si chiamava Ciao ti dirò e la composi con Luigi Tenco, anche se per ragioni tecniche le nostre firme non risultano”. Sfondò subito. Ciao ti dirò eseguita al Musichiere del 1959 fa capire che il ragazzo è speciale. Piace la seguente Geneviève, ma è Non arrossire, lanciata nel 1960, a farlo conoscere a l grande pubblico. il tipico brano per il ”guancia a guancia”, la voce è pastosa e accattivante, la faccia indimenticabile. Nello stesso anno Una fetta di limone assieme a Enzo Jannacci con il quale dà vita a duetti irresistibili e nel 1961 La ballata del Cerutti, che diventa popolarissima nonostante lo stile di scrittura di Gaber sia ironico-cabarettistico. Metteva nelle canzoni scorci di periferia milanesi (il bar del Giambellino). E fece ancora centro nel ”62 e ”63 con canzoni fortemente ”ambientate” come Trani a gogò e Porta Romana. Ma la formula canzone gli va stretta. Lo si avverte con chiarezza nel 1969 in tv a Senza rete: in Suona chitarra spiega che la canzone non è necessariamente evasione. In un’altra puntata dello show si scatena in Paparadio, duetto parlato e cantato con la spumeggiante Ombretta Colli, attaccando il neonato programma radiofonico di telefonate in diretta Chiamate Roma 3131 e denuncia lo scollamento fra le canzoni e i problemi reali della gente. Ma ”gli anni della spensieratezza”, come chiamava lui, quelli precedenti al debutto dello spettacolo teatrale Il signor G annoverano altre canzoni di grande impatto: Mai, Mai (Valentina) (1966), La risposta al ragazzo della via Gluck, E allora dai, Torpedo blu (allegra, amena e quasi fumettistica con quel clacson inserito nella partitura), Il Riccardo ( sì, quello che ”a solo gioca al biliardo”), Com’è bella la città (ironica, ambientalista, anticipatrice del nuovo corso gaberiano), Barbera e Champagne. Nel – 70 la svolta. Vuole un rapporto diretto col pubblico, basta con canzoni fini a se stesse. Riempie i teatri con Il signor G., Dialogo fra un impegnato e un non so, Far finta di essere sani, Anche per oggi non si vola. Ma pochissime canzoni degli spettacoli diventano popolari: perché manca la promozione tv e perché la scrittura è legata alla recitazione. Per la loro costruzione esilarante diventano classici Shampoo (da Far finta di essere sani) con quel nevrotico affannarsi nella cura del corpo, e Libertà obbligatoria. Sono, queste, canzoni finemente cesellate, che giocano sulla foné, amplificata dalla gestualità: La massa è cantata come una entità imprevedibile di cui diffidare, Le elezioni offrono lo spunto per una serie di considerazioni su questo rito di cui sottolinea il vuoto in mancanza di altri valori, descrivendo un elettore che si appropria furtivo la matita copiativa. La provocazione più forte arriva nel 1980: è l’invettiva di 14 minuti intitolata Io se fossi Dio. Una maledizione dai toni biblici, contro tutti: i giornalisti definiti ”cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti”, i radicali, i socialisti, i pacifisti. Tutti insomma. E alla fine l’attacco a Moro, assassinato pochi anni prima dalle Br: ”Aldo Moro, resta ancora quella faccia di c. che era!”. In un Paese ancora sotto choc sembra davvero troppo. Le case discografiche si rifiutano di pubblicarlo. Alla fine lo diffonde una etichetta indipendente che fa capo allo stesso Gaber. Che non cesserà di stupire neppure con l’ultimo Destra e sinistra in cui mette alla berlina luoghi comuni comportamentali e lo stesso concetto di distinzione fra gli schieramenti. ”L’Italia – confidava – sembra impegnata solo a dividersi fra pro e contro Berlusconi. Io da che parte sto? Da quella del pensiero”» (Mario Luzzato Fegiz, ”Corriere della Sera” 2/1/2003). «Lo studio della chitarra era cominciato come terapia; era una piacevole speranza di salvezza per il braccio sinistro, sofferente degli esiti di una poliomielite. Era il 1954, il futuro genio del teatro-canzone aveva appena 15 anni; studiava ragioneria e alle corde della chitarra si appese, scoprendo subito una passione che finì per divorare interamente i suoi progetti di vita. Narrano le cronache che l’iscrizione ad Economia e Commercio rimase più o meno virtuale perché nel frattempo il ragazzo - con il suo ciuffo alla moda e un simpatico nasone, secco secco e una voce tonda e suadente, capace allora di grandi dolcezze ma poi in maturità di terribili ire e sarcasmi - si ritrovò coinvolto in un complessino jazz che si chiamava Rocky Mountain. Nella seconda metà dei Cinquanta era ormai a capo dei Rolling Crew, e incideva con anche l’amico Enzo Jannacci le prime piccole cose, come Non occupatemi il telefono. Tutto si dipanò in una minuscola manciata di anni, dentro un gruppetto di amici che avevano base artistica al Santa Tecla, cantina milanese che voleva imitare le caves parigine, dove si stava formando un gruppo di amici rimasti poi per sempre sodàli: c’era Dario Fo che scriveva le prime canzoni per Jannacci, e perfino un imberbe Celentano con il quale Giorgio mise su un duo. Nel 1958, Mogol allora funzionario della Ricordi andò a cercarlo lì, e con sua grande sorpresa gli propose di incidere un disco; Nanni Ricordi era appena tornato dall’America, dove aveva visto una nuova generazione di musicisti crescere con altri linguaggi e nuove storie: e fu proprio Giorgio Gaber il primo di una lunga lista di artisti scritturati per svecchiare i cataloghi dell’azienda e con essi la canzone italiana; da Gino Paoli a Luigi Tenco, da Umberto Bindi a Sergio Endrigo a Ricky Gianco, c’erano tutti i grandi nomi che inventarono il cantautorato. I suoi primi pezzi, come Ciao Ti dirò e più tardi Una fetta di limone facevano l’occhiolino al rock, ma più spesso la sua vena era romantica e malinconica, fra Geneviève e soprattutto Non arrossire, che nel 1960 si trasformò in un successo strepitoso; il testo era suo e di Maria Monti, ragazza bizzarra con la quale si era nel frattempo fidanzato. Insieme affrontarono il pubblico nel primo teatro, il Gerolamo, nella pièce Il Giorgio e la Maria con la regìa di Giancarlo Cobelli. Era il piccolo seme di una passione che dopo una decina d’anni lo avrebbe portato per sempre fuori dallo stretto ambito della canzone d’autore, inventore di un genere rimasto inimitato e legato soltanto alla sua figura. Sarà stata forse la frequentazione della Maria, ma dal Gerolamo in poi Gaber cambia con decisione registro. Se da una parte ci sono alcune partecipazioni al Festival di Sanremo non esaltanti, con Benzina e cerini (1961), Così felice (1964), Mai mai mai Valentina (1966), E allora dai (1967), fuori da quello contesto che non gli appartiene il suo interesse andrà soprattutto alla canzone ispirata al mondo folk, che rilegge in uno stile personale, moderno, raffinato; racconta i colori dell’ambiente milanese con La ballata del Cerutti (’Il suo nome era Cerutti Gino/ Ma lo chiamavan drago/ Gli amici al bar del Giambellino/ Dicevan ch’era un mago”) o Trani a gogò o Il Riccardo o Barbera e Champagne; e intanto rilegge pezzi tradizionali come Porta Romana e La Balilla, nella quale esibisce effervescente vis comica. Nel frattempo ha sposato Ombretta Colli, compagna di arte, e ha avuto l’amatissima figlia Dalia, sposata con il figlio del suo collaboratore di sempre Sandro Luporini. Il suo lavoro va ormai al di là comune sentire nella musica popolare, si allarga apertamente al recitato ammantandosi di ambizioni più complesse, tanto che gli ultimi successi musicali dei primi Settanta - Far finta di essere sani e Lo shampoo - finiscono per coincidere con gli spettacoli teatrali della nuova fase artistica. Nei suoi trent’anni di teatro, i dischi con i brani degli spettacoli sono stati venduti solo nell’ambito delle tournées. Ma spesso, nei bis delle fortunatissime pièces, Gaber tornava un sorridente chansonnier, imbracciava la chitarra e cantava le vecchie ma sempre amatissime canzoni»(Marinella Venegoni, ”La Stampa” 2/1/2003). «Bisognava vederlo. Per quanto la voce fosse così intonata, la pronuncia così chiara, le canzoni così dense, non era uno chansonnier. Era un attore che cantava, era puro teatro. Era la canzone che si incarnava. Il suo corpo sottile, vulnerato fino dall’adolescenza, nevratile, flessuoso, nella solitudine del palcoscenico sprigionava un’energia quasi medianica, un pathos quasi imbarazzante. Ci si chiedeva se farsene attraversare, da quell’energia e da quel pathos, dovesse costargli tutto, a Gaber, o potesse ridargli tutto. Si capiva, in ogni modo, che l’azzardo era assoluto, la dedizione totale. Lo abbiamo ammirato e amato, in tanti, soprattutto per la forza smisurata con la quale ha inscenato se stesso, senza risparmio, sfinendosi sul palco, battendosi fino all’ultimo fiato. Bisognava vederlo quando giocava a calcio-tennis, nella sua casa toscana, con la gamba lesa in inspiegabile armonia con i movimenti più avventurosi, e giocosi. Come Garrincha, del quale si dice che fu la speciale zoppia a condurlo in gloria, esprimeva un agonismo contagioso, un dinamismo stupefacente. Aveva talento. Aveva vita, dentro, e sapeva come esprimerla. Poi noi del pubblico, come normalmente capita, spendemmo le nostre energie intellettuali soprattutto per discutere quello che cantava, quello che diceva, quello che sortiva dalle sue estati passate a chiacchierare e a scrivere con il sodale di sempre, il pittore viareggino Sandro Luporini. Ma è come lo cantava, è come lo diceva, quello che ci imprigionava a lui anche quando avremmo preferito passare ad altri spettacoli, anche quando la sua furia e il suo sarcasmo colpivano, molto scomodamente, pure quello che ci faceva comodo. Anche quando ci sembrava corrivo, o esageratamente acido, l’unicità del suo ”come” ce lo restituiva così artista, così talentuoso, da applaudirlo sempre allo stesso modo. La televisione, che insieme al rock’n’roll fu la sua prima patria artistica, non poteva contenere né reggere una così potente smania di esprimersi. Decise così di sparire dal video e di ricomparire solo sui palcoscenici. Inventò un genere - lui lo definiva ”canzone a teatro” - fatto a sua misura, a misura del suo corpo di artista. Imparò a mettersi da solo le luci (nel campo, diventò un maestro), a disegnare la scena per isolare e esaltare la sua silhouette solitaria, a orchestrare le canzoni in modo che la musica sostenesse la sua voce senza mai incombere. Ne sortì un carisma scenico stupefacente: forse solo Carmelo Bene, in Italia, per ben altre vie e con altri linguaggi, sapeva catalizzare il flusso emotivo del pubblico con altrettanta sicurezza. Pur di tutelare il ”qui e ora” del teatro, di difenderlo da ogni interferenza, evitava le interviste, e i passaggi televisivi si contano, negli ultimi venticinque anni, sulle dita di una mano: l’ultimo da Celentano. Era un uomo intelligente e timido. Non semplice. Non sempre afferrabile. Ha traversato la parte finale di un difficile secolo sempre in stato vigile, quasi febbrile, meditando, leggendo, parlando con altre persone, misurando con la propria sensibilità gli umori collettivi (lui, così solitario) come per compensare il suo carattere appartato» (Michele Serra, ”la Repubblica” 2/1/2003).