varie, 26 febbraio 2002
VALENTINO
VALENTINO (Garavani) Voghera (Pavia) 11 maggio 1932. Stilista • «Adorato dalle principesse e dalle giovani dame di sangue blu, coccolato dalle dive hollywoodiane di stampo yankee, idolatrato dalle signore che ”almeno una volta nella vita sognano di possedere un suo abito”. E ancora, amato dalle modelle con velleità di reginette del bon ton, molto chiacchierato negli ambienti della finanza nostrana e rilanciato dalle righe elogiative dei giornali internazionali [...] sfavillante carriera, costellata di grandeur e riconoscimenti, non ultimo l’American fashion Award, dato al Lincoln center dal Council of designers of America [...]» (Antonella Matarrese, ”Panorama” 17/8/2000) • «[...] Torre Menapace è un sobborgo periferico dove Voghera si stempera a settentrione nella campagna piatta dei campi divisi da filari spettrali di gelsi, alberi mutilati per fascine, che solo in estate concedono qualche rara foglia. T’amo pio bove e mite un sentimento di vigore e di pace, eccetera. Di lì vengono i Garavani. Lì c’era la cascina del nonno. Anche lui con quel nome da bambino, Valentino. Il figlio, Mauro, sposa Teresa e si trasferisce in un caseggiato umbertino nel centro di Voghera. Due piani, facciata giallastra vagamente neoclassica, interno con appartamenti di ringhiera, di fronte il mercato coperto. Prima apre una bottega da barbiere, poi passa al commercio all’ingrosso di articoli elettrici. Con questa seconda attività procura alla famiglia una certa agiatezza, una quasi ricchezza, almeno nei parametri della provincia. Nel 1925 la moglie dà alla luce Wanda. Sette anni dopo arriva Valentino. Già alle elementari, istituto De Amicis, il secondogenito Garavani disegna distratto, sui libri di scuola, fiori e modelli di vestiti come fiori capovolti. Studente con profitto non brillante del liceo classico Grattoni, ruba ore ai compiti pomeridiani per frequentare un corso da figurinista a Milano. Al ritorno, percorre a piedi la breve distanza che separa la stazione da piazza Meardi. Si siede su una panchina e racconta agli amici. La moda è già una specie di religione. Vi si accosta con la devozione e la costanza di un seminarista. La vocazione era stata precoce, a sei anni. ”L’ultima figlia di Vittorio Emanuele III sposa il principe Luigi di Borbone Parma”. La radio di casa, in radica, pesante e massiccia come un cassettone, annuncia il fidanzamento ufficiale. ”Per la lieta circostanza”, aggiunge lo speaker, ”Sua Altezza Reale indosserà un abito di lamé verde”. Lamé verde. Una formula, due parole, una scintilla che accende sogni infantili. Sogni che nel negozio di tessuti della zia, in via Torino, si moltiplicano per i nomi di stoffe francesi. Dentelle. Faille. Taffettà. Mousseline. Crêpe georgette. Fuori gli altri bambini giocano a pallone. Per lui le scarpe della fantasia non hanno tacchetti, ma sono inglesi e fatte a mano. Conserva, crescendo, l’aria un po’ infantile del paggetto. I maglioni di cachemire sono gli unici lussi di una giovinezza senza vizi, strappati al padre con l’immancabile ed efficace intercessione materna. La stessa intercessione che gli procura a diciotto anni il permesso di andare a Parigi. E centomila lire al mese per viverci più che dignitosamente, comunque vada. Viene messo a bottega da Dessès. Da lui impara la costruzione tecnica, l’interpretazione della stoffa, il valore dei rapporti cromatici. Prende casa a Saint Germain-de-Prés. Di sera frequenta i foyer dei teatri, la danza è la sua seconda passione. Anche qui, zero improvvisazione. Studia i fondamenti al Palais de Chaillot e debutta con successo in un balletto di Béla Bartók. In Italia canta, in un’estemporanea performance radiofonica, La canzone di tutti, esordio senza seguito per una gola magari anche fine e intonata; ma già di poche parole. L’ambiente artistico della capitale francese lo attrae. Ivette Chauviré, celebre danzatrice, ammirata di sera, è la sua ispirazione diurna per i tagli leggiadri. Niente bohème. Detesta istintivamente tormenti e contrasti, tutto scorre liscio come seta. Tanto che nemmeno il trucco mnemonico dei ricordi, così forte e frequente tra le persone arrivate, produce a posteriori aneddoti su quel periodo. Casomai vanta occasioni. Jean Renoir lo nota e lo convoca sul set di un suo film. Domani si gira. Vuole dargli una parte, un ruolo impegnativo, anche se breve. ”Domani non posso, grazie, maestro, ma è santa Caterina, patrona delle sarte” Forse sente minacciata l’esclusività di un apprendistato preciso, pignolo, puntuale, una disciplina professionale che ha assunto carattere devozionale. Passa a Guy Laroche. giovane, gli permette di abbandonarsi al suo estro. Frequenta la Viscontessa de Ribes. ”Erano i tempi in cui le donne si cambiavano tre, quattro volte al giorno. Il parrucchiere era importante come il calzolaio. Mentre la de Ribes si preparava, io schizzavo le sue idee. Di solito indossava quei piccoli nulla neri che erano tutto”. Gli rimane impresso il segno della semplicità cui un tocco, uno sbuffo, un fiocco, regala spettacolarità teatrale. Il lusso e la classe dei francesi. Resterà la sua cifra estetica. La donna che vuole vestire non deve passare inosservata. In uno scampolo di vita normale incontra Giancarlo Giammetti, studente di architettura. Toscano, solare quanto lui è lunare, di otto anni più giovane. Nasce un legame che diverrà sodalizio anche d’affari. [...] Quando, alla fine degli anni Cinquanta, sente di avere l’arte da parte, vende i suoi cinquanta maglioni di cachemire in un’ultima puntata sulla Costa Azzurra e, neanche trentenne, si trasferisce a Roma. Apre un atelier in via Condotti. Il padre ha messo ancora mano al portafoglio, ma dietro il gesto che intacca la montagna di risparmi c’è l’impulso della madre. Un socio vogherese partecipa all’impresa nella miope illusione di immediati ritorni e presto si ritira. Bianco è il colore della collezione d’esordio. Prime difficoltà, e qualche servizio sui rotocalchi. Giammetti prende su di sé le mansioni organizzative e le pubbliche relazioni. In questo, il sognatore silenzioso non ci sa fare. Gli anni Sessanta segnano l’inizio di un’ascesa costante. Jacqueline Kennedy vede un Valentino indosso a un’amica, durante un gala newyorchese. Chiede chi l’ha disegnato e il caso vuole che lui sia ancora in città. Tra l’omicidio di JFK e il secondo matrimonio, la stampa americana trova il tempo di interessarsi all’abbigliamento dell’ex first lady. Giudizi lusinghieri di penne acide use a malignare sul jet set. Arrivano ordinazioni su ordinazioni. L’abito per il matrimonio con Onassis verrà richiesto da altre trentotto clienti (ma c’è chi dice quattrocento). Valentino comincia a fare scuola, lo certificano le prime imitazioni. La solida, proficua e famosa azienda familiare è mandata avanti, oltre che da Giammetti, dalla sorella, Wanda Garavani in Villani, e da suo marito, ex manager della Motta. Il fatturato è consistente. Da via Pollaiolo, quartiere Parioli, Valentino si trasferisce in una villa d’epoca sull’Appia antica. Lo seguono la madre e il padre, importati a Roma direttamente da Voghera. Quest’ultimo muore due mesi dopo il lungo trasloco. il 1972. Teresa resta una presenza rassicurante tra le stanze stile Impero, le tende con la mantovana, le tappezzerie floreali, i tavolini vestiti, i quadri di Botero e Fontana. Coltiva rose (il figlio ama la varietà inglese, più armonica, grazie al gambo meno lungo ed esile). Negli interstizi nascosti di una vegetazione raffinata, pianta qualcosa per la cucina. Aromi per ricette padane fanno capolino non lontano dalla piscina. Quando Valentino compra fenicotteri rosa per il giardino forse la signora Garavani non approva. Ma allorché uno viene ritrovato morto, lei avvezza alle liti lombarde da vicinato lo mette in cella frigorifera per l’autopsia, per scoprire se l’hanno avvelenato. Donna schietta e di rara simpatia, agli ospiti offre infusi di rosa per l’insonnia, l’influenza e ogni altra malattia. Fa in tempo a vedere la luce dei primi riconoscimenti. Le copertine di ”Time” e ”Life”. La sottopongono a preparativi laboriosi per incontrare la regina d’Inghilterra. Manda tutti a quel paese dopo l’ennesimo inchino di prova. Perde la pazienza in dialetto vogherese, se ne va, ma farà la sua figura, senza dissacrare l’etichetta reale. Muore nel 1976. Funerale con maison al gran completo. La ”V” è una griffe che comprende ormai tutto il lusso, dalle piastrelle per il bagno alle scatole eleganti, passando per i profumi. Al vertice della visibilità c’è l’haute couture. Alla base c’è il lavoro. Compreso quello del creatore, che arriva a palazzo Mignanelli, la nuova sede romana, anno di costruzione 1576, verso le dieci di mattina e ne esce all’ora di cena. Sfilate che alternano le stagioni, presenze mondane sapientemente coltivate, Liz Taylor, Sophia Loren, Farah Djba. Tempo libero speso in rapporti che sono in realtà pubbliche relazioni. L’immancabile codazzo. Il maggiordomo greco Tanassis, il cuoco inglese, qualche collaboratore, i carlini chiari che sputacchiano un po’, discendenti di Oliver, acquistato in America, che ha dato il nome alle collezioni casual per i giovani. Una passione, quella per i cani, che ha toccato anche qualche trovatello, ma non gli alani da guardia nella villa sull’Appia, addestrati dal servizio di sicurezza. Predilige i primi. Pasta in particolare. I dolci, in alternativa il gelato, non mancano mai alla sua tavola, anche se lo hanno reso meno efebico e se la silhouette non è più quella di una volta. Inappuntabile nei suoi spezzati, pettinatura inalterabile, sempre cortese, sempre molto formale, una parola per tutti ma mai due per nessuno. L’imitazione del personaggio, resa celebre da un programma televisivo, ne restituisce l’aplomb un po’ impagliato e curatissimo, ma sbaglia completamente mira nei modi queruli e intrusivi, laddove Valentino è sempre sottotono e misurato. Pare, comunque, che non gli sia risultata sgradita la macchietta della Striscia di Mediaset. Fasi umane e professionali convivono nelle case acquistate, pietre miliari che segnano altrettanti periodi della vita. Infatuazioni immobiliari intense ma non destinate a durare. Subentra sempre una rapida disabitazione, con la relativa minaccia di vendere, mai mantenuta. Villa Cercola a Capri, dietro la piazzetta, con lo studio luminoso dove lavorarono gli artisti ai tempi gloriosi di Gor’kij, Malaparte, Munthe. Lo chalet di Gstaad. L’appartamento londinese. [...] il castello a qualche ora d’auto da Parigi. [...] è stato sfondo della morte della sorella Wanda, ultimo vincolo di sangue in una vita che si avvia verso una riservatezza che sa di solitudine. Mauro, uno dei due nipoti, nel ’98 si è schiantato con la moto contro un muro dei Parioli, per evitare una ragazza sullo scooter. [...] A Voghera, il nome Garavani è destinato a scomparire. La discendenza è poco numerosa e tutta femminile. Una cugina, Lina Magistrali, fu sua sarta première agli esordi. Ogni tanto prende l’Eurostar e lo va a trovare. [...] Non mette quasi più piede nella sua città natale, che tanto impegno mise nell’abbandonare. Una gran rentrée nell’87, quando il sole degli anni Ottanta era ancora alto e Voghera voleva scrollarsi di dosso la nomea di città carceraria (due istituti penitenziari su quarantamila abitanti, un record), sancita dal caffè mortale servito a Sindona. I giornali locali battezzarono l’evento ”Valentino-Day”, ci fu un febbrile ”count down”. Fino a giovedì 10 settembre, quando sulla piazza del duomo sfilarono gli abiti non inediti, già presentati a Parigi, colore dominante il bianco degli inizi. Ci furono pure le polemiche, perché l’opposizione comunista disse che la giunta voleva accaparrarsi la manifestazione (era vigilia d’elezioni) e perché gli ambulanti temevano che venerdì mattina, giorno di mercato, non avrebbero trovato il selciato sgombro dalla sera prima. Un anziano ”fu colto da malore mentre faceva la fila per il biglietto per la sfilata”. L’arciprete consegnò i certificati di battesimo, comunione e cresima allo stilista arrivato in Rolls Royce. Come spesso accade agli emigranti che fanno fortuna (e qui si parla di cinquecento miliardi di fatturato annuo) molti si fecero avanti per chiedergli soldi, tra questi il presidente della locale squadra di calcio[...]. Una donazione all’ospizio di via Don Minzoni, la stessa via dove è nato, poi Valentino scomparve, più abbronzato del solito. [...]» (Antonio Armano, ”Il Foglio” 11/2/2001). «Quello che è il sogno, come l’arte, il cinema la moda, deve [...] fare il meglio per continuare a distrarre e ad astrarsi da quanto succede [...] mi piacciono, come mi sono sempre piaciute, le famiglie di una volta anche con il loro rigore e le loro severità. Da noi manca un po’ tutto questo. Devo dire che noi italiani siamo fantastici. Lo siamo sempre stati, e io questo l’ho sempre detto. Però in questi ultimi tempi sento della gente intorno a me non allegra. Credo un po’ scontenta [...] Valentino cerca sempre di essere allegro. La mia educazione me lo impone e anche il mio modo di vedere le cose. Naturalmente ho degli alti e dei bassi, ma sono duro di carattere e sono anche capace di cambiare attitudine a seconda delle ore e delle giornate [...] mi piace molto disegnare. E di solito comincio tardi, verso le 11,30 e poi vado avanti fino alle otto o le nove di sera. Devo creare dieci collezioni all’anno [...] un grande impegno [...] Disegno, vedo delle prove, guardo dei tessuti, ricevo delle persone [...] da quando esiste il prêt-à-porter non faccio più le prove se non eccezionalmente per alcuni attori, attrici, alcune mie amiche o per delle giovanissime ragazze che amo vestire da sposa [...] ci vuole fantasia ma soprattutto molto tempo» (Alain Elkann, ”La Stampa” 6/6/2004).