Varie, 26 febbraio 2002
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Gattinoni Fernanda
• Cocquio Trevisago (Varese) 20 dicembre 1906, Roma 26 novembre 2002. Stilista • «’Madame”, così la chiamavano tutti, cominciò che non aveva neanche 18 anni e non smise mai. Pochi giorni prima di morire era ancora lì, nel suo atelier, a Roma, minuta ed elegante in pantalone e maglietta nera. ”Con l’età – raccontava – sono diventata francescana e mi pare che mi calzi bene solo questa tenuta”. Lo diceva lei. Non lo pensava nessuno: avrebbe potuto indossare ancora qualsiasi cosa. Era una donna naturalmente elegante. Sete, bustier, strascichi e ricami appartenevano al suo mondo, certo, ma la raffinatezza con le quali li disegnava li rendeva capi semplicemente eleganti. ”Esistono delle regole irrinunciabili – diceva – . Ho faticato tutta una vita ad insegnare alle donne che la trasparenza è inutile, stuzzica ma non conquista. A questi poveri uomini oggi quale mistero è rimasto da svelare?”. E allora non sarà forse un caso se le donne, principesse e stelle, che ha vestito in settantotto anni di moda siano tra le più belle e misteriose: Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Kim Novak, Lucia Bosè, Ava Gadner, Margaret d’Inghilterra, Anna Magnani, Anna Maria Pietrangeli, Gina Lollobrigida, Anna Maria Pierangeli, Isa Miranda, Lana Turner, Maria Josè e veramente tante altre ancora. Tutte la conoscevano e si affidavano a lei perché sapevano che ”madame” non avrebbe mai tradito in nome della sua moda. Che sembra facile a dirsi, ma non sempre è così. Poteva anche essere finito, il capo, ma se non donava, era impietosa. Ricordano le cronache di quando a dieci minuti dalla cerimonia in San Pietro strappò le maniche difettose dell’abito da sposa dell’allora principessa del Belgio Maria Josè che andava all’altare con il futuro re d’Italia Umberto di Savoia. Donna puntigliosa e ragazza curiosa. Era il 1925 quando, promessa della maison londinese Molyneaux griffe della Real casa, aspettando a Buckingham Palace di entrare in una stanza per prove di sartoria, sbirciò da un buco della serratura: vide la regina Elisabetta bambina che faceva prove di portamento: ”Poveretta!”. Per lei anche i nomi più famosi sono sempre stati prima di tutto essere umani, donne. ”Anna Magnani, energia cosmica in espansione come il nero che amava indossare”, ”Liz Taylor, più era straziata più cercava la ridondanza”, ”Silvana Mangano, la dignità in persona”, ”Audrey Hepburn, si assoggettava alle linee sartoriali e poi si lasciava vincere dagli egocentrismi e mi chiedeva un thermos di succo d’arancia per andare a Cinecittà: ma non poteva comprarlo al bar...: però mi diede la soddisfazione di una nomination agli Oscar per Guerra e Pace”. Abiti e sentimenti. E sensazioni. Non ce la faceva a dividere. Dopo Londra avrebbe dovuto andare da una ”mademoiselle” che era la più grande, Coco Chanel: ”Quelle mani così nodose e gialle dalla nicotina. Le continuava a muovere: esprimevano che era una donna imperiosa, sprezzante. Non saremmo andate d’accordo”. Così torna in Italia (erano gli anni Trenta) e collabora con la sartoria milanese Ventura (lei era nata a Cocquio Trevisago in provincia di Varese) che poi si trasferisce a Roma. E nel ’34 la direzione dell’atelier è già sua. Nel ’ 46 fonda la sua maison: il primo tailleur firmato Gattinoni era in velluto verde, per Clara Calamai. Poi gli abiti da sogno, l’alta moda: le vite segnate, i bustini, le gonne a ruota, gli abiti impero. A metà degli anni ’80 l’affianca il figlio Raniero ma nel 1993 scompare prematuramente. ”Madame” continua. L’aiuta un ex compagno di scuola del figlio, Stefano Dominella, che diventa presidente. L’atelier viene affidato a un giovane di cui Fernanda Gattinoni si fida, Guillermo Mariotto. L’azienda va avanti, la signora è sempre lì. Ma non sta a guardare il mondo fuori» (Paola Pollo, ”Corriere della Sera” 27/11/2002). «Ha lavorato fino a poche ore prima di morire, a ottobre era a Milano per le sfilate, delle settantenni diceva: ”Mi sembrano tutte delle vecchiette”. [...] Nella sua lunghissima esistenza consacrata alla moda non si è mai fermata, né davanti alle regine né davanti alle dive. l’unica stilista italiana (ai suoi tempi si diceva sarta) rimasta sulla breccia così a lungo. Tre quarti di secolo sempre idealmente con l’ago in mano (anche se non ha mai cucito né tagliato). E con l’orgoglio di chi ha saputo dire di no a Coco Chanel e di sì a Maria Josè di Savoia. Sui suoi soffici sofà Ava Gardner e Lucia Bosè quasi vennero alle mani perché innamorate dello stesso uomo, Walter Chiari. Via Veneto e Hollywood, le dune di Sabaudia, dove aveva una celebre villa, e il fasto degli Emirati, per una folla esigente e privilegiata di ambasciatrici e di principesse, di regine e prime donne, signore di potere e di censo, grandi star. A recensire i suoi abiti era Irene Brin; a intessere le sue pr lo zio dell’attuale sovrana del Belgio; ad ammirarla e a piangerla, oggi, è Lady Franca Ciampi. Qual è il segreto della vera eleganza? le avevamo chiesto non molto tempo fa. ”Saper conoscere la propria personalità, voler somigliare a se stessi. Oggi c’è molta più volgarità, le donne copiano dalla televisione”. Detestava il nudo: ”Stuzzica ma non conquista”. Sapeva essere caustica anche con le bellissime e con le più chic, figuriamoci con le altre. Di Audrey Hepburn, per la quale disegnò i costumi di Guerra e pace aggiudicandosi una nomination all’Oscar, disse che era ”troppo perfettina, e a me i perfettini non piacciono”. Vestì anche, ma di sfuggita, Evita Peron, ”una donna elegante forse per i parametri sudamericani. Anche d’estate voleva sempre una stola di pelliccia, perché non sapeva dove mettere le mani”. Margaret d’Inghilterra correva da lei in incognito, ma tiare e corone venivano depositate in guardaroba. Ha lavorato fino alla fine, e questo è stato il suo segreto: uno degli ultimi abiti ”storici” usciti dal suo atelier è il vestito da sposa tempestato di cristalli e ricami per Noura, la figlia del re saudita Fahad. Quindici metri di strascico e 500 milioni di vecchie lire. Mentre l’abito nuziale per Irene Pivetti, giudicato all’ultimo troppo leghista, fu l’unico della sua carriera che non venne indossato; era il ’97. Che sgarbo, che affronto, ma quanta pubblicità. Il lavoro, solo la passione per il lavoro, ha potuto smorzare lo strazio infinito del suo lutto più grande: la morte a poco più di 40 anni del suo unico figlio Raniero, scomparso nel ’93. La maison riacquistò nuovo slancio grazie al disegnatore venezuelano Guillermo Mariotto e alla guida dell’amministratore delegato Stefano Dominella, i due migliori amici di Raniero. [...] A 17 anni era già a Londra, apprendista nell’atelier Molyneux. lei che deve mettere alla porta Mae West, aspirante mannequin: troppo bassa. Negli anni Trenta ha il coraggio di dire no a Coco Chanel che la vuole assumere nel suo atelier parigino. Preferice la casa di moda Ventura, a Roma, che sforna gli abiti per i nomi più in vista dell’aristocrazia, come quello di Isabelle Colonna, e per le mogli e le amanti dei gerarchi. la sartoria da cui uscirà l’abito da sposa di Maria Josè, su disegno del principe Umberto: ”Dieci minuti prima della cerimonia ci accorgemmo che le maniche facevano difetto - racconterà la Gattinoni - Fui io a staccarle con le mie mani, addosso alla principessa”. Isa Miranda la chiama ad Hollywood. L’ultimo capo che fa per Ventura è un austero cappotto di cammello per Edda Ciano. Alla radio Mussolini annunciava l’entrata in guerra: ” la fine, disse lei durante la prova, e ci mettemmo a piangere tutte e due”. Il primo abito con il suo nome, quando riesce a mettersi in proprio, è un tailleur di velluto verde per Clara Calamai. Negli anni Cinquanta la consacrazione. Il grande e mondanissimo atelier in via Marche è visitato da Guttuso e da Capogrossi, da Visconti e da Roberto Rossellini che le porta Ingrid Bergman: ”Diventammo grandi amiche, una donna sempre sorridente, solare, innamoratissima di Roberto, pendeva dalle sue labbra e viveva nell’angoscia perenne che lui non mi pagasse i conti”. Un’altra cliente storica fu l’ambasciatrice Usa Claire Boothe Luce, ”donna molto nervosa e autoritaria, interessantissima. Diventammo amiche perché io osai criticarla”. La cliente meno vanitosa fu Anna Magnani: ”Non le importava niente di vestirsi, voleva solo roba nera e larga”» (Laura Laurenzi, ”la Repubblica” 27/11/2002). «Una vita consacrata al bello. La sua storia e quelle delle donne che hanno indossato i suoi abiti ci parlano del Novecento. La moda e il costume come filo conduttore per raccontare un´epoca. Scorrono le immagini: Edda Ciano, Evita Perón con il tailleur nero che parla alla radio ai suoi ”descamisados”, la regina Maria José con il suo abito da sposa, Audrey Hepburn stile impero in Guerra e pace e ancora Lana Turner e Kim Novak con la vita strizzata da corsetti e l’abito che fasciava le curve. Tante donne, tante vite e un pezzo di mondo che non c’è più e di cui era una delle ultime interpreti e testimoni. [...] Vestì anche Margareth d’Inghilterra e Diana che andava nella boutique di Londra: ”Una donna che mi sarebbe piaciuta, l’ho capito subito quando l’ho vista in un filmato scendere da una macchina con uno scatto delle gambe nervose. Un misto di fragilità e sincerità. Peccato che andava da sola in negozio”. [...] Non le piaceva Wallis Simpson, l’avventuriera che aveva portato via un re all’Inghilterra. Anche lei troppo poco ”diretta”. Della duchessa di Windsor, diffidò dopo aver saputo che aveva sfilato il fidanzato, re Edoardo VIII, a un´amica mentre questa era ricoverata in una clinica. Per questa signora del gusto le cose sono sempre state così, o bianche o nere. Giudizi veloci e decisi. Bocciata Parigi, Mademoiselle - come la chiamavano allora - decise di tornare in Italia, che aveva lasciato a soli 17 anni. [...] Il padre possedeva alberghi e una mentalità aperta. Tanto che mandò la figlia in Inghilterra a studiare l’inglese. Ma nello stesso tempo Fernanda faceva mille cose, suonava l’organo alla Saint Peter Church, preparava piccoli spettacoli teatrali, creava costumi per gli attori. Fino a Moulineaux e all’inizio di una carriera straordinaria. [...] Da lei andavano tutti i più bei nomi dell’aristocrazia, Isabelle Colonna, le principesse Barberini e Odescalchi. Nel dopoguerra si cerca di dimenticare il dolore con i divi di celluloide. I tempi della Hollywood sul Tevere consacrano la sartoria Gattinoni. Le donne di Madame si riconoscono per strada e sul grande schermo» (Maria Corbi, ”La Stampa” 27/11/2002).