Marxiano Melotti, La macchina del tempo n. 02/03 febbraio/marzo 2002 pag 21, 28 febbraio 2002
La vita dei pompieri nella Roma antica doveva essere piuttosto movimentata. La città, cresciuta troppo in fretta e in modo molto disordinato, era un groviglio di stradine e di case a più piani, spesso costruite con materiali poveri e riparate con mezzi di fortuna
La vita dei pompieri nella Roma antica doveva essere piuttosto movimentata. La città, cresciuta troppo in fretta e in modo molto disordinato, era un groviglio di stradine e di case a più piani, spesso costruite con materiali poveri e riparate con mezzi di fortuna. Il poeta Giovenale descrive con vivacità questo mondo di superficiali interventi e piccole speculazioni, così lontano dall’immagine austera e monumentale della Roma dei grandi palazzi. «Abitiamo in una città che si regge su sottili puntelli» spiega Giovenale. Gli abitanti sanno di dormire sotto la minaccia continua di crolli e di incendi; gli amministratori ricoprono in qualche modo le crepe e invitano a stare tranquilli; dall’ultimo piano di una casa un poveraccio chiede disperatamente acqua, mentre il fuoco ha già raggiunto il terzo piano; un ambiguo mercante straniero è sospettato di aver dato fuoco alla sua casa confidando di poter guadagnare qualcosa grazie agli aiuti dei vicini. Città vivace, insomma, tanto è vero che un servizio di pompieri venne organizzato già in età repubblicana. Un collegio di tre magistrati, coadiuvato da una squadra di schiavi pubblici, stazionava presso le porte della città, pronto a intervenire. Sembra che anche i privati, spesso in cambio di un compenso, mettessero a disposizione i loro schiavi per spegnere gli incendi. Fu Augusto a creare un vero e proprio servizio di vigiles, composto di ben 7.000 schiavi liberati, agli ordini di un prefetto che assunse rapidamente un ruolo di primo piano nella vita politica della città. Questo corpo, che aveva funzioni assai simili a quelle dei nostri pompieri e della nostra polizia, doveva mantenere l’ordine in città, evitare i furti e spegnere gli incendi. Il prefetto, quale magistrato, giudicava direttamente chi avesse causato gli incendi e poteva far bastonare chi ne fosse stato responsabile anche solo per negligenza. Il corpo degli antichi vigiles comprendeva diversi specialisti: innanzitutto medici pronti a soccorrere eventuali feriti; poi aquarii, che assicuravano l’approvvigionamento dell’acqua e il buon funzionamento delle pompe; emitularii, incaricati di stendere materassi e cuscini sotto le case in fiamme per attutire la caduta di chi si lanciasse dalle finestre; centonarii, che predisponevano abiti e rivestimenti formati da strati di tessuti di lana (i centones, imbevuti nell’aceto nella convinzione che così resistessero meglio alle fiamme), con cui cercavano di contenere e spegnere le fiamme; siphonarii, che manovravano i sifoni, cioè le pompe per spegnere le fiamme. Questi strumenti antincendio sfruttavano il principio della ”macchina di Ctesibio”, il grande inventore ellenistico che aveva messo a punto una pompa a doppio pistone per ottenere un getto d’acqua in pressione. Nella versione utilizzata dai pompieri, la macchina era più maneggevole, tuttavia non aveva una grande potenza e non riusciva ad assicurare un getto continuo. Questo strumento, per il suo carattere tecnologico, faceva tuttavia status symbol, tanto è vero che il povero Plinio il Giovane, relegato in Bitinia a fare il governatore, si lamentava con l’imperatore Traiano che la capitale della sua provincia, Nicomedia, non ne avesse ancora uno. Come al solito, furono i bizantini a escogitare un uso opposto di questo macchinario, trasformandolo in un sofisticato strumento bellico con cui gettare petrolio sulle navi nemiche per poi appiccare il fuoco.