Varie, 1 marzo 2002
GERONZI Cesare
GERONZI Cesare Marino (Roma) 15 febbraio 1935. Banchiere. Ex presidente di Generali (aprile 2010-aprile 2011), Mediobanca, Banca di Roma. Nel luglio 2011 condannato in primo grado a quattro anni per il crac Cirio, nel novembre 2011 condannato a cinque anni per bancarotta fraudolenta e usura nell’ambito del processo per la vendita delle acque minerali siciliane Ciappazzi alla Parmalat (gennaio 2002) • «[...] Il banchiere che Nino Andreatta chiamava “il ragionier Geronzi” e che scendendo da Marino, paesotto dei Castelli romani, divenne grande elemosiniere della prima e della seconda Repubblica, di Berlusconi, di Fini, come di Botteghe Oscure, l’uomo cui tutti o quasi nel palazzo, a destra e a sinistra, a nord e a sud, devono qualcosa [...] la sua scalata è una di quelle “success story” nutrite di intelligenza e scioltezza, di furbizia e spregiudicatezza, di vivacità e sfacciataggine, che simboleggiano un po’ l’intera parabola di questo paese. Che effetto le fa - gli chiesero una volta - aver conquistato il Banco di Sicilia? E lui, serio serio: “Bello, ho fatto il militare a Palermo”. Dopo il militare, nei primi anni sessanta, Geronzi entra da impiegato in Banca d’Italia, un anno prima di Fazio. Non molti anni dopo lo ritroviamo capo dell’Ufficio Cambi, uno snodo allora centrale a difesa della liretta. Florio Fiorini, grande esperto all’Eni di speculazioni sui cambi e fondi neri, quel periodo sul finire degli anni Settanta l’ha raccontato così: “C’era una cordata di amici, ci avevano soprannominato la banda dei sette, eravamo il terrore delle banche centrali. Ogni tanto mi chiamava il dottor Geronzi, responsabile dei cambi di Bankitalia: dottor Fiorini - mi faceva - non le sembra che lei e i sui amici stiate un po’ esagerando? Io chiamavo gli altri: ragazzi, il dottor Koch - così lo chiamavamo in codice - è incazzato, qualche giorno di tregua, please”. Quando Guido Carli si dimise da governatore e il dottor Koch ebbe la definitiva certezza che nel palazzo di cui gli avevano affibbiato il nome il suo amico Antonio Fazio e Lamberto Dini avrebbero fatto più carriera di lui, se ne andò con Rinaldo Ossola al Banco di Napoli, per poi passare a dirigere la Cassa di Risparmio di Roma, vecchio feudo democristiano e papalino. Così comincia la vera scalata al potere. Con il benestare del Vaticano, della Dc e del Psi, Geronzi assorbe il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma. Poi verranno la Banca Nazionale dell’Agricoltura, il Mediocredito Centrale, il Banco di Sicilia, Bipop, Fineco. Nel 2002 arriva in Borsa la nuova holding Capitalia: 2000 sportelli, 30 mila dipendenti. Ma per gli sportelli il dottor Geronzi non ha smodata passione. Quel che è in cima ai suoi pensieri, ciò che quasi materializza il sogno di reincarnare Cuccia nel nuovo millennio, è quell’8,4 per cento di Mediobanca e quel 3,19 per cento di Generali nel portafoglio di Capitalia (ergo il “Corriere della Sera”), che lo mettono al centro degli equilibri del bancocentrico capitalismo italiano, in una fase di grandi cambiamenti. Di equilibrismi il dottor Koch ha vissuto tutta la vita. Nato con la politica da banchiere pubblico, ha prosperato con la politica da banchiere privato. Prima o seconda repubblica per lui “pari son”: da An alla Quercia, dagli amici del Manifesto a Forza Italia. Forse qualcuno ricorda ancora che quando Berlusconi era sull’orlo del fallimento, con Comit e Credito Italiano che gli chiedevano di rientrare dal mostruoso debito, era stato lui a salvare il Biscione. Ma l’animo bipartisan è grande, contiene tutti: aiuta i diesse esposti per 502 miliardi di lire, “ristruttura” i debiti, pur meno consistenti, del Ppi e del Cdu. Cesarone o Penna Bianca, come lo chiamano gli estimatori, “è un ottimo taxi”, sintetizza una volta Paolo Cirino Pomicino, richiamando la celebre frase di Enrico Mattei, capo del primo Eni, che si vantava di usare i partiti, per l’appunto come un taxi. Immunità diplomatiche a 360 gradi per il destro banchiere di Marino, rafforzate dall’ottima stampa e dal calcio [...] È lui tanti anni fa a scoprire le doti di Bruno Vespa e dei suoi congiunti, affidandogli la direzione di “Risparmio Oggi”, rivistina aziendale oggi ribattezzata “Capitalia” e tuttora nelle sapienti mani di famiglia. È lui a non lesinare con la Mmp, creata insieme a Biagio Agnes, minimi garantiti pubblicitari a tutti, ma proprio a tutti, da “Topolino” al “Secolo d’Italia”, dall’“Osservatore Romano” a “Class”. Buco finale: 450 miliardi di lire [...]. Ignota, invece, la perdita nella breve vita de “L’Informazione”, fondato con il solito duo Tanzi-Cragnotti. Pubblicità e calcio, calcio e pubblicità hanno poi contagiato tutta la famiglia. La figlia maggiore Benedetta si occupa di spot pubblicitari con Luigi Carraro, figlio di Franco. La minore, Chiara, ha fondato la più importante agenzia sportiva italiana. Indovinate con chi? Con Andrea Cragnotti, figlio di Sergio, Francesca Tanzi, figlia di Calisto, e Alessandro Moggi, figlio di Luciano. Giuseppe De Mita, figlio di Ciriaco e poi direttore generale della Lazio ne è stato solo un dipendente. Chissà che voleva dire Gaucci quando dalla latitanza ha ambiguamente parlato della famiglia Geronzi e di 85 milioni di euro da lui sborsati. [...]» (Alberto Statera, “la Repubblica” 23/2/2006) • «Beniamino Andreatta aveva capito tutto. “Di lui sentirete parlare”, avvertì un giorno i suoi colleghi parlamentari. Erano gli anni Settanta, tempi non sospetti. “Il ragionier Cesare Geronzi”, come Andreatta lo chiamava, aveva quarant’anni e una posizione invidiabile in Banca d’Italia dove era entrato nel 1960, l’anno delle Olimpiadi di Roma. [...] Era l’uomo del fixing, colui che aveva in mano i bottoni della sala operativa cambi, centro nevralgico per la difesa della lira. Il governatore Guido Carli lo aveva spedito in Svizzera a imparare, e lui aveva imparato. Eccome. Oltre a manovrare i cambi aveva anche imparato che la Banca d’Italia poteva essere un formidabile trampolino di lancio. Prima Rinaldo Ossola se lo portò al Banco di Napoli. Poi il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani lo indirizzò alla Cassa di risparmio di Roma di Remo Cacciafesta. Da dove è cominciata la sua scalata. La Cassa era una banca pubblica, piccola e neanche messa troppo bene. Fra i soci dell’istituto c’era tutta la nobiltà papalina, ma anche politici e imprenditori legati alla politica. Un salotto forse un po’ polveroso, che aveva il suo principale punto di riferimento nel leader della dc romana, Giulio Andreotti. Ma che ben utilizzato poteva diventare un formidabile strumento di potere. E Geronzi (che allora qualcuno considerava appoggiato dai socialdemocratici) accettò di buon grado di diventare il simbolo di quel mondo andreottiano, punta di diamante di una sorprendente espansione nel mondo della finanza. Il sistema bancario era quasi tutto in mani pubbliche e l’unico modo per crescere era ovviamente comprare banche pubbliche, cioè controllate dalla politica. Il primo colpo fu l’acquisizione del Banco di Santo Spirito dall’Iri di Romano Prodi. Il secondo l’assorbimento del Banco di Roma dall’Iri di Franco Nobili, manager legatissimo ad Andreotti, con un’incredibile operazione a costo zero, “intorno alla quale”, commentò il futuro commissario della Consob Salvatore Bragantini, “i registi dell’operazione hanno saputo creare un insolito consenso politico”. Mica tanto insolito, se si considera che quell’operazione aveva la targa del Caf, l’asse Craxi- Andreotti- Forlani che allora governava l’Italia. In quella fusione comparve curiosamente anche colui che sarebbe stato il nemico più acerrimo del governatore Antonio Fazio, che è l’uomo oggi più vicino a Geronzi. Insieme a Gino Giugni, l’allora tributarista Giulio Tremonti fu infatti incaricato dall’Iri di studiare il valore dei conferimenti. Ma c’è da giurare che l’attuale ministro dell’Economia non immaginava nemmeno lontanamente come sarebbe andata a finire. Il potere di Geronzi cresceva comprensibilmente incontrastato. Siccome il denaro non ha odore, tutti (o quasi) i partiti si abbeveravano alla Banca di Roma. Il Psi, la Dc, i liberali e i socialdemocratici. Uno snodo centrale fu quando Geronzi intuì che Silvio Berlusconi e le sue reti televisive avevano un futuro: mentre le altre banche gli voltarono le spalle, il banchiere romano intervenne a fianco del leader di Forza Italia. Ma anche il Pds, che nel 1997 arrivò ad essere esposto con l’istituto di Geronzi per 203 miliardi di lire. Soprattutto, quel rubinetto alimentava molti imprenditori considerati parte integrante di quel mondo nel quale la politica c’entra sempre qualcosa, come Domenico Bonifaci, Giuseppe Ciarrapico, Sergio Cragnotti. Fino all’inevitabile coinvolgimento nell’affare del calcio, che oggi ha portato Capitalia ad essere addirittura il primo azionista della Lazio. In un intreccio di rapporti, anche personali, sempre più fitto, che la fine politica di Andreotti non ha affatto scalfito e che negli anni successivi ha conosciuto nuovi sviluppi. Già all’inizio degli anni Novanta la moglie di Geronzi, Giuliana Iozzi, era in società nel settore farmaceutico con Piergiacomo Jucci e Eugenia Cataldi, rispettivamente figlio e moglie di Roberto Jucci, ex comandante dei carabinieri già responsabile della sicurezza di Andreotti. Adesso la figlia di Geronzi, Chiara, giornalista del Tg5, è socia (insieme ad Alessandro Moggi e Giuseppe De Mita, rispettivamente figli di Luciano Moggi e Ciriaco De Mita) della Gea, società che gestisce contratti di molti calciatori. L’altra figlia, Benedetta, lavora invece alla Federcalcio di Franco Carraro, ex sindaco socialista di Roma all’epoca in cui nacque la Banca di Roma, nonché presidente del Mediocredito centrale. Istituto che ha rappresentato un’altra tappa importante nella scalata di Geronzi. L’acquisizione del Mediocredito, avvenuta con il sostegno di Fazio e il benestare del governo di Massimo D’Alema, ha consentito alla Banca di Roma di acquisire il Banco di Sicilia. Prima di conquistare, dopo un durissimo scontro politico, la Bipop. Operazione che ha completato la lunga metamorfosi della Banca di Roma in Capitalia: ovvero quella della possibile preda che si è trasformata in predatore. Grazie all’appoggio sempre più esplicito (e da molti criticato) del Governatore. È con l’appoggio di Fazio che Geronzi ha pilotato la privatizzazione della banca, dosando sapientemente il peso degli azionisti. Ed è con l’appoggio di Fazio che Capitalia e le banche alleate hanno conquistato le Generali e scalzato da Mediobanca Vincenzo Maranghi. Intorno all’erede di Cuccia i tamburi di guerra cominciavano a suonare [...]. Proprio in quell’aprile del 2002, quando il ragionier Geronzi veniva insignito della laurea in Economia e commercio all’Università di Bari. Nell’occasione Fazio ricordò le parole di Luigi Einaudi: “Le difficoltà dell’arte bancaria sono eccezionali; questo è il motivo per cui abbiamo a capo delle banche italiane uomini eccezionali”. Un anno dopo sarebbe deflagrato il caso dei Cirio bond» (Sergio Rizzo, “Corriere della Sera” 6/12/2003) • «Tramontata l´era degli Agnelli e i Pirelli, spenta la stella dei Cuccia e dei Siglienti, il “Cesarone” della superbanca romana, con quella perfetta chioma d´argento pareva davvero il simbolo del “nuovo ordine” del capitalismo italiano. Algido, autoreferenziale, e intoccabile. Quel suo studio affrescato, al quarto piano del palazzo a due passi da Piazza Venezia, era diventato la cabina di regia di tutte le più importanti operazioni di questi ultimi anni. La sua nuova creatura, Capitalia, aveva assunto l´eredità della vecchia Mediobanca governata dal mitico “don Enrico”. Il moderno salotto buono della finanza, trasferito dalle poltroncine stile impero di via Filodrammatici a Milano ai divani di pelle rossa di Via del Corso a Roma. Dopo l´“incidente” sul caso Cirio, ci si chiede se questo “giocattolo” finirà per rompersi. [...] Creare il suo gigante bancario gli è costato scommesse e compromessi. Sempre un po´ “border line”. Tentate convergenze con l´alta finanza lombardo-piemontese. Ma anche relazioni pericolose con il generone romano e sudista: da Ciarrapico e Bocchi a Casillo e Semenzato. Dal disastro Federconsorzi all´affare Cirio. C´è stata una lunga fase in cui l´Avvocato, con sabaudo distacco, diceva: “Quell´istituto si dà un gran da fare: secondo me lo dovrebbero chiamare ’Banca di traffico centro-meridionale’...”. L´ambizione di Geronzi è sempre stata quella di trasformarla, la sua banca. A costo di seminare nel fango. Alla fine degli anni ´80, con l´indulgenza della Dc, del Vaticano e del Psi, con la sua piccola Cassa di Risparmio di Roma assorbì il Banco di Santo Spirito e il Banco Roma. A metà degli anni ´90 sfilò allo scalcagnato conte Auletta la disastrata Bna. A metà del 2002 ha “ingoiato” Bipop e Banco di Sicilia, piene di sofferenze e buchi di bilancio, e ha dato vita finalmente al colosso bancario che aveva sempre sognato. Con Capitalia, Geronzi è riuscito a trasferire Piazzetta Cuccia a Via del Corso. È riuscito a tessere una trama di rapporti personali e di incroci azionari blindati con l´Ambroveneto e l´Unicredit. Paradossalmente, proprio grazie ai buoni uffici di Gianni Agnelli, che nel frattempo aveva imparato a stimarlo e che in una delle ultime cene dell´Avvocato a Milano aveva detto a Bazoli: “Lei, Profumo e Geronzi dovreste collaborare, per il bene dell´Azienda Italia...”. Così è stato. Nel vuoto pauroso di classe dirigente e nel declino inesorabile dell´industria nazionale, i tre hanno gestito la drammatica crisi della Fiat, governato la ristrutturazione di Telecom, pilotato la transizione di Mediobanca. Nel bene e nel male, hanno assicurato uno sbocco non traumatico al “Sistema-Paese”, altrimenti condannato alla colonizzazione o alla scomparsa. Oggi Geronzi è un super-banchiere. Nel patto di sindacato di Capitalia ha riunito Moratti e Tronchetti, Colaninno e Ligresti, Angelucci a Merloni. È vicepresidente anziano di Mediobanca, ha partecipazioni strategiche ovunque. Si è inventato una specie di “Capitalia football club”. È azionista di riferimento della Lazio. Ha in mano la Roma di Sensi. Presta soldi all´Inter di Moratti. Tiene in pegno il 99,5% delle azioni del Perugia di Gaucci. Si serve della “leva” finanziaria del Mediocredito centrale, presieduta da Franco Carraro che è anche presidente della Figc. Ha una figlia, Benedetta, che dello stesso Mediocredito centrale è responsabile marketing. Ha un´altra figlia, Chiara, che è giornalista del Tg5 e che ha fondato la Gea World, insieme ai figli di Moggi, Tanzi e Cragnotti. Era fatale che, in questa fitta e intricatissima ragnatela, Geronzi rimanesse impigliato ai trucchi di quello che il solito Cuccia definì “una fattucchiera”, cioè proprio Sergio Cragnotti? [...] Geronzi e Fazio sono amici. Ma oltre all´amicizia, condividono un progetto: “Tutti e due hanno sempre avuto a cuore la salvaguardia di un solido polo creditizio del Centro-Sud”, dice un grande banchiere del Nord. Ma la difesa di quel progetto, evidentemente, disturba la Casa delle Libertà. Perché avviene al di fuori della sua “giurisdizione”, come ha dimostrato l´operazione Generali. E perché, come dice Cossiga, di qui alle elezioni europee può “nascondere” soluzioni politiche imprevedibili di fronte alla crisi di leadership del Cavaliere. Così si spiegano i velenosi attacchi del ministro del Tesoro contro la Banca d´Italia» (Massimo Giannini, “la Repubblica” 6/12/2003). «“Ho impiegato 22 anni per assumere la funzione di direttore generale di una piccola Cassa di risparmio e ne ho impiegati altri 17 per arrivare a quello che faccio oggi”. Così si racconta Cesare Geronzi nel ’99 [...] ad Alain Elkann. E questa autobiografia in tre righe, condita da un giudizio sui “giovani di quest’epoca che hanno ambizioni molto più frenetiche” sintetizza alla perfezione le due vite, a velocità diversissima, di quello che forse è il più potente banchiere italiano. Vent’anni e passa di lavoro silenzioso nelle sale di Bankitalia e altri venti di esercizio misurato di un potere altrettanto silente e sempre in crescita nel ben più esposto mondo delle grandi banche, Cesare Geronzi da Marino - Castelli romani - non è un re del credito, ma piuttosto un cardinale. Un porporato della finanza capace di smussare ogni angolo senza mai rinunciare ai propri obiettivi, di mettere assieme mondi in apparenza diversissimi - il capolavoro [...] unendo nel patto di sindacato della Capitalia di cui è presidente, il colosso bancario Abn-Amro, grandi nomi come Moratti e Tronchetti Provera e costruttori di meno chiara fama ma di mezzi comunque solidi - e soprattutto di portare avanti senza esitazioni e senza traumi, la lunga marcia che in due decenni trasforma la Cassa di Risparmio di Roma in uno dei maggiori gruppi bancari italiani. Una cultura dell’equilibrio esemplificata da un memorabile pranzo all’epoca del governo D’Alema, che lo vede assiso proprio tra l’allora premier e Silvio Berlusconi, quasi a racchiudere in una sola immagine l’essere - ma anche il dover essere (“è impossibile fare il banchiere a Roma senza conoscere Andreotti” è una sua affermazione difficilmente confutabile) - del banchiere costretto a pattinare in continuo movimento sul lago ghiacciato della politica. E sempre in nome dell’equilibrio, applicato ad altri campi, è lui stesso che per evitare inimicizie si accredita una moderata fede juventina che viene però smentita sia dalle frequentazioni dell’Olimpico, spesso proprio accanto al patron di Lazio e Cirio Sergio Cragnotti, sia soprattutto dall’insopprimibile tifo laziale - presumibilmente ereditario - delle due figlie. Figlie peraltro attivissime in campo calcistico: una come azionista della Gea, la società che tratta giocatori, l’altra assistente del presidente della Federcalcio - e anche di Mcc, la banca d’affari di Capitalia - Franco Carraro. Equilibrio a tutti i costi nella vita professionale di Cesare Geronzi, ma anche alcuni imprescindibili punti fermi, tutti o quasi incisi nel perimetro di Palazzo Koch, sede di quella Banca d’Italia dove la sua carriera comincia e si consolida nella trincea dell’Ufficio Cambi, quando la difesa della lira è affare vitale e gli speculatori - l’allora direttore finanziario dell’Eni Florio Fiorini per sfotterlo lo chiama “Dottor Koch” - giocano pesante. Gli uomini che hanno forgiato la sua vita e la sua carriera portano i nomi, e mantengono l’immagine nelle foto di cui si circonda, di Guido Carli e Rinaldo Ossola. Il primo, Governatore dell’istituto di emissione, è un grande estimatore di quel dirigente che frequenterà come amico, per tutta la sua vita. E proprio Ossola che, passato dalla direzione generale di Bankitalia alla presidenza del Banco di Napoli nell’80, vuole accanto Geronzi come capo del servizio estero. Un avventura che dura meno di due anni: prima se ne va Ossola, poi lo stesso Geronzi si muove verso quella Cassa di Risparmio di Roma da cui, assieme al presidente Pellegrino Capaldo e con il benestare di Giulio Andreotti, getterà le basi per la grande espansione. In questa seconda vita, quella del grande manager-banchiere, restano strettissimi i rapporti con chi è rimasto al vertice - è il caso del Governatore Antonio Fazio - in Banca d’Italia o chi ne è uscito perché chiamato ad altri ruoli istituzionali, come Lamberto Dini, e l’equilibrio (c’è chi la chiama trasversalità) nei confronti della politica. Con il consenso, talvolta con il consiglio, della Banca d’Italia - quella che meno di vent’anni fa era la Cassa di Risparmio capitolina - cresce a ritmo piuttosto veloce. Prima - siamo nell’87 - ci sono il Banco di Santo Spirito e l’anno dopo il Banco di Roma, entrambi ceduti dall’Iri. Ma poi, rafforzati i muscoli con le privatizzazioni, quella che ormai è la Banca di Roma guarda sempre più lontano: la Bna conquistata da Auletta Armenise, il Mediocredito centrale, il Banco di Sicilia, fino alla spedizione del 2002 - sempre sotto le bandiere di Bankitalia - verso le lontane province bresciane, dove c’è una banca come la Bipop, ricca di liquidità, ma decapitata nel management. Dalla metà degli Anni ’90 Geronzi non è più un banchiere romano, ormai è un protagonista della finanza a tutto tondo che siede come vicepresidente in Mediobanca (“Cuccia l’ho conosciuto nel ’92 e lo considero di certo un maestro”), partecipa alle più importanti operazioni finanziarie del sistema - gli ultimi casi sono il prestito “convertendo” Fiat o lo scontro sulle Generali - mentre ha trovato anche l’uomo giusto per mettere ordine in quella Capitalia che a furia di acquisizioni rischia di rimanere strozzata da qualche boccone. Accanto a sè chiama un banchiere non si sa se più giovane o più brillante - Matteo Arpe - che si occupa di ridare smalto ai conti dell’istituto con risultati strabilianti. [...]» (Francesco Manacorda, “La Stampa” 6/12/2003).