Varie, 1 marzo 2002
GERVASO
GERVASO Roberto Roma 9 luglio 1937. Scrittore. Giornalista • «Giornalista e scrittore, idee di destra, ”ma liberali” [...] ”Il moralista denuncia i peccati e i vizi altrui per meglio nascondere i propri. Io denuncio quelli degli altri, augurandomi che se ne emendino, ma non assolvo me stesso. Il qualunquismo è il luogo comune. Accade a tutti di frequentare i luoghi comuni perché sono i più affollati. Io dico cose sgradevoli. E quando le cose sono sgradevoli la sinistra accusa di qualunquismo la destra e la destra accusa di moralismo la sinistra [...] Ho sempre cercato di fare il mio dovere. Non guido, ma non passerei col rosso. Ho sempre pagato le tasse, anche se in qualche occasione le maledico perché alcune le giudico ingiuste, immorali, certo, come l’Ici per esempio. Se per strada vedo un pacchetto di sigarette, lo raccolgo e lo butto nel primo cassonetto che incontro. Tre volte al giorno porto a spasso il cane, ma ho sempre con me la paletta e i sacchetti. Non ho mai fatto il furbo. Il biglietto sull’autobus lo pago. Può darsi che in qualche caso abbia fatto male il mio dovere: credo che sia capitato a tutti. Ma il senso civico ce l’ho” [...]» (Luigi Vaccari, ”Il Messaggero” 25/10/2004) • «[…] La mia vita non è stata facile […] In certi momenti, è stata difficilissima. Ho sempre combattuto, e spesso, contro tutti. E non perché sia un donchisciotte, ma perché sono, o m’illudo di essere, un uomo libero. E la libertà, in un Paese di pecore e di conigli come il nostro, si paga cara. Cara e in contanti. Nato nel 1937, quando, nel giugno del 1940, scoppiò la guerra avevo tre anni. E quando, nell’aprile del 1945, finì, otto. Ne ho molti ricordi, più tristi che lieti. Vivevo a Torino con i miei genitori e con mia sorella e ho conosciuto, non dico la fame, ma il bisogno, gli stenti, che mi sono stati di grande insegnamento e hanno contribuito a plasmare il mio carattere. A scuola me la sono sempre cavata, ma la mia pagella era più irta di sei e di sette che di otto, di nove, di dieci. Un po’ meglio sono andato all’università, ma mi sono laureato a ventotto anni. E non perché battessi la fiacca, ma perché, a ventitré, con il viatico di Montanelli, entrai al ”Corriere della Sera”. Ero reduce da un infelice viaggio negli Stati Uniti dove, con una borsa di studio Fulbright, avrei dovuto fermarmi due anni. Ma dopo soli tre mesi mi buscai un devastante esaurimento nervoso e dovetti rientrare in Italia. Al ”Corriere della Sera” feci per un anno e mezzo il cronista di nera. Avevo i nervi a pezzi e atroci coliche renali, ma strinsi i denti e i pugni e mai cedetti alla tentazione di piantare tutto, di dire addio al giornalismo. Montanelli che - come me - ciclicamente soffriva di depressione, mi fu molto vicino. Quando si rese conto che non ce la facevo, ottenne il mio trasferimento a Roma, dove lui viveva con la moglie Colette. Io mi acquartierai a casa di mio nonno e delle mie quattro zie finché non mi emancipai e con i diritti d’autore del primo libro, L’Italia dei secoli bui, scritto a quattro mani con il grande Maestro, affittai una bellissima mansarda dietro piazza Navona. Più tardi conobbi Vittoria e ci sposammo. Lasciai il ”Corriere della Sera” e scrissi su molti altri giornali, feci tanta radio e tanta televisione. Erano gli anni Settanta, la contestazione aveva lasciato nella società rovinosi strascichi di permissivismo e, insieme, d’intolleranza. Chi non militava a sinistra, era, ipso facto, di destra. E chi era di destra, non era un liberale, un conservatore, un moderato. Chi era di destra, era un fascista. Io, e non per eroismo, ma per temperamento, non abiurai la mia fede politica e questo mi valse le censure e gli anatemi di molti colleghi, intruppati nel gregge che aveva il suo infallibile profeta e il suo inflessibile pastore nel principe rosso. Fui messo al bando come un reprobo, da additare al pubblico ludibrio. Anni da dimenticare, anni che seminarono l’odio e la violenza, in nome di falsi idoli e di valori traditi soprattutto da chi con tanta enfasi e baldanza li proclamava. Sono state esperienze dure e amare, che in parte ho rievocato nei miei libri perché ne facessero tesoro le nuove generazioni. […]» (’Il Messaggero” 20/5/2005).