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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

GHEDINA Kristian Cortina (Belluno) 20 novembre 1969. Ex sciatore alpino. Ai Mondiali, 2 argenti e 1 bronzo

GHEDINA Kristian Cortina (Belluno) 20 novembre 1969. Ex sciatore alpino. Ai Mondiali, 2 argenti e 1 bronzo. Nel ”91 ebbe un incidente d’auto e rischiò di compromettere la carriera. Nell’estate 2000, facendo una piroetta da un trampolino, si infortunò alla schiena. Alla vigilia della discesa del Mondiale 2001 si ruppe un piede. «[...] 8 campionati del mondo (due argenti e un bronzo), quattro olimpiadi, tredici vittorie in Coppa del Mondo (12 discese, 1 supergigante) [...] ”Ho iniziato in Coppa del Mondo a Bad Kleinkirchheim, nel gennaio del 1988. Lo slalom lo vinse Tomba. Io mi piazzai 54esimo, a cinque secondi da Mueller, il migliore. Ero uno sbarbatello di 18 anni. Avevo il numero 81 di pettorale: le cifre invertite dell’età. Un segno del destino? Chissà. Dissi a me stesso che un giorno sarei stato anch’io un vincitore. I miei avversari di allora era gente come Zurbriggen, Girardelli, Hoeflehner, Stock. Ma io avevo dentro una forza di volontà infinita. Alla volontà ci resti attaccato sempre, anche quando sai che forse ti restano poche corse da fare. Altrimenti come si riuscirebbe a combinare qualcosa d’importante? Ma poi ci vuole anche tanta fortuna. Due anni dopo ero primo in classifica di discesa libera. Arriva il gran giorno di Kitzbuehel, sulla mitica Streif. Sono lì come uno dei favoriti. In gran forma. Durante la corsa mi si sgancia un attacco. Vado a sbattere contro la rete di protezione. Tre costole rotte e commozione cerebrale. Volevo finire sul podio, finisco a letto, immobilizzato. Due settimane dopo c’era un’altra discesa. I medici mi dicono di non pensarci nemmeno. Io non resisto. Convinco i medici a darmi l’okay. La gara prevista è annullata. Mi sento fregato. Poi quelli della Fis, la federazione internazionale, decidono di recuperarla a Cortina. A casa mia: non è questo un segno del destino? Infatti vinco. Ero stato di parola. ”Dedicai la vittoria a mia mamma Adriana, che era morta cinque anni prima, in un maledetto fuoripista, non lontano dal tracciato della gara. Avevo vinto sulla mia montagna, e quel giorno c’era un angelo che mi assisteva”. Dov’è il dolore, là la terra ti è sacra. I discesisti sono una razza speciale: uomini senza paura, pazzi scatenati, scavezzacolli adrenalinici, personaggi da Far West. Dicono che fanno stragi di cuori. [...] ”[...] io ho sempre messo davanti a tutto lo sci. Certo, ho avuto anch’io le mie storie importanti [...] l’amore viene dopo. Ti distrae. Ti coinvolge e ti fa perdere concentrazione. Le donne pretendono sempre di essere al centro dell’attenzione. Vogliono il tuo tempo. Io ne ho già così poco per me stesso, che per due non basta. Almeno, non ora. Dopo, smesso di sciare, penserò a metter su famiglia. Voglio godere fin che posso la mia lunga avventura sulla neve. Io amo la discesa. Rischio, salti, libertà, la natura. E la velocità. Il giorno che dirò basta, non lo dirò alla velocità. Passerò dalle piste di sci a quelle dell’automobilismo. [...]» (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 25/11/2005). «’Da piccolo volevo essere Tarzan [...] perché lo vedevo volare in televisione da liana a liana. Così provai anch’io. Da noi ci sono solo abeti. Ce n’era uno proprio davanti a casa mia. Io ero piccolo e magrino. Riuscivo a salire fino in cima, poi chiamavo mia madre e, quando si affacciava alla finestra, le dicevo: guarda! E mi lasciavo cadere aggrappandomi da un ramo all’altro. Erano elastici e in cinque secondi passando da quello più in alto a quello inferiore arrivavo a terra. Mia madre rischiava di svenire ogni volta. Bastava che se ne spezzasse uno e sarei diventato una marmellata [...] intorno ai 10 anni mi regalarono un bob di plastica. Andai subito a provarlo su un pendio ripido dietro casa. Alla prima corsa, il bob si spezzò contro un albero. Picchiai una botta terribile con la testa. Persi conoscenza e, quando mi svegliai, potevo vedere la fronte viola sopra gli occhi. Il naso era inguardabile. C’era il mio amico Ghezze che saltellava intorno a me spaventato”. I genitori allora gli comprarono una bicicletta. ”Era delle prime con gli ammortizzatori [...] Era un piacere sentire quel rumore quando la pressione si scarica negli stantuffi. Io, sempre dietro casa, scendevo in picchiata, poi c’era una specie di raccordo che mi permetteva di frenare la velocità risalendo una stradina in asfalto. Potevo vedere le auto che salivano e tenevo l’orecchio teso per sentire se qualcuno scendeva, perché gli alberi mi nascondevano la parte in discesa. Un giorno, purtroppo, non mi accorsi di nulla e quando imboccai la lingua asfaltata feci un frontale con un’auto. Volai sopra il tetto e ruzzolai nella scarpata vicina. Me la cavai con un po’ di graffi. Andò peggio durante delle strane acrobazie all’interno di un grande garage, perché non riuscii a frenare a andai a sbattere contro la saracinesca. Con la testa spezzai una finestrella e il vetro quasi mi recise una vena del braccio destro. Il sangue zampillava. Io lo tamponavo con la mano sinistra e ogni tanto lasciavo andare. Gli schizzi arrivavano fino al muro. Mi sentivo come l’Uomo Ragno.... [...] Dell’incidente d’auto in cui rimasi vittima il 7 aprile 1991 non ricordo nulla. All’inizio dell’autostrada Milano-Torino persi all’improvviso il controllo dell’auto mentre stavo filando a 180 chilometri all’ora. Probabilmente scoppiò uno pneumatico che avevo scheggiato la mattina contro un marciapiede”. Kristian trascorse parecchi giorni in ospedale e perse anche un lembo d’orecchio. ”Ma una sola volta ho avuto davvero paura di rimanere su una sedia a rotelle. Era l’estate del 2000. Ci stavamo allenando a Las Lenas, in Argentina. Sulla pista c’era un bel dente che invitava al salto. La tentazione era forte. Provai un salto mortale e atterrai a pelle di leone, ma non mi feci nulla. Allora decisi di riprovare, salii di più per prendere più velocità. Ne presi troppa, volai troppo in alto e cercai di abbozzare un doppio salto mortale. Atterrai di testa. Sentii un crack allo sterno, due vertebre si spezzarono. Persi il respiro. Mi dissi: ”è finita’. Presi davvero paura, pensai di rimanere paralizzato, un vegetale. incredibile quanti pensieri gelidi mi affollarono la testa in pochi attimi. Poi mi accorsi che riuscivo a muovere le mani e i piedi. Mi sentii rinascere”. [...]» (Gianni Merlo, ”La Gazzetta dello Sport” 16/12/2004).