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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

GIMONDI

GIMONDI Felice Sedrina (Bergamo) 29 settembre 1942. Ex ciclista. Senza dubbio il migliore italiano del dopo Coppi/Bartali, seppe vincere tutto quello che c’era da vincere nonostante la sua fosse l’epoca del ”cannibale” Eddy Merckx. Primo al Tour de France del 1965 (con tre vittorie di tappa), settimo nel 1967 (due tappe), quarto nel 1969 (una tappa), secondo nel 1972, sesto (una tappa) nel 1975. Terzo al Giro d’Italia del 1965, quinto nel 1966 (una tappa), primo nel 1967 (una tappa), terzo nel 1968 (una tappa), primo nel 1969, secondo nel 1970, settimo nel 1971 (due tappe), ottavo nel 1972, secondo nel 1973 (una tappa), terzo nel 1974, terzo nel 1975, primo nel 1976 (una tappa). Campione del Mondo nel 1973, secondo nel 1971, terzo nel 1970, sesto nel 1968, settimo nel 1976, decimo nel 1972. Campione italiano nel 1968 e nel 1972. Altri successi: Vuelta di Spagna 1968, Milano-Sanremo 1974, Parigi-Roubaix 1966, Giro di Lombardia 1966 e 1973, Parigi-Bruxelles 1966 e 1976 • « stato, fino all’avvento della meteora-Pantani (1998), l’ultimo italiano a vincere la grande corsa francese, nel 1965. La gente si ricorda più di lui che delle gesta del ”Pirata” in un Tour trafitto dalle vicende doping caso Festina […] ”E pensare che non avrei dovuto farlo quel Tour. Gli accordi erano: fai un Giro alla grande e basta. Ma io in quel Giro arrivai terzo... […] L’entusiasmo era tanto. Pezzi e Salvarani mi dissero: fai qualche tappa, solo per dare una mano ai compagni. Mancava Fantinato, un titolare, per un dolore al ginocchio. Presi tempo: vediamo, dissi, parlo con papà... Ma dentro di me avevo già deciso. Vengo, dissi, però voglio ridiscutere il contratto. Mi accordai, e così fui fregato due volte. Immaginate quanto avrei potuto chiedere da vincitore del Tour...”. Una fuga clamorosa, la maglia gialla alla terza tappa, cinque giorni da leader, poi la crisi a La Rochelle. ”Pioveva, ci fu una caduta e rimasi attardato, persi la maglia. Ma come arrivarono i Pirenei, tre giorni dopo, la ripresi subito”. Mancava il grande Anquetil, avrebbe dovuto essere il Tour di Poulidor e lui beffò tutti. ”Mi sentivo forte. Venne la crono di Chateaulin; Salvarani mi disse, se perdi la maglia, non ti preoccupare, è tutto normale. Normale un cavolo! Io avevo vinto fior di crono da dilettante. Fui secondo a soli 7’’ da Poulidor”. Però sul Ventoux, alla 14a tappa, rischiò di saltare. ”Mi attaccavano in tanti. Gli italiani prima di tutto. Motta aveva lanciato l´azione su quella salita. Poulidor e gli altri francesi gli diedero man forte. Io mi sentii improvvisamente vuoto, cominciai a sudare freddo. Poi decisi di salire al mio ritmo, senza strappi, nel finale mi ripresi e riuscii a conservare la maglia gialla”. Dopo Rouen, vinse anche la cronoscalata di Mont Revard. ”Avevo preparato la tappa meticolosamente. D’un tratto mi si ruppe un ingranaggio; misi la catena su quello più piccolo e spinsi forte. Ero in ritardo rispetto a Poulidor, rimontai e vinsi. Lì capii che quel Tour era mio. Poi dominai anche la crono finale a Parigi...”. Un ciclismo epico, diverso da quello da ragionieri di oggi. Non ha nostalgia? ”No. Nostalgia no. La vita va avanti. Il ciclismo cambia con la vita. Oggi siamo più ricchi, ma viviamo peggio. C’è troppa esasperazione, troppa fretta di arrivare. Non c’è spazio per dialogare, per i rapporti fra persone, fra gli stessi corridori. un ciclismo più freddo, che non entusiasma il tifo, perché non ci sono più le sfide e i duelli. Armstrong fa solo il Tour; gli avversari solo il Giro o la Vuelta; gli specialisti delle classiche della primavera non li trovi più in autunno. Io ero in prima fila dalla Milano-Sanremo al Lombardia...”. Preferiva le battaglie sempre perdenti con un certo Merckx, il famoso ”cannibale”? ”Qualche volta l’ho anche battuto; a Merckx voglio bene come atleta e come uomo […] Eddy aveva un’altra ”cilindrata’. Ma io come volontà e impegno non gli ero certo secondo […] Oggi a 60 anni, se potessi, farei ancora il ciclista, il corridore. Allora esprimevo quello che pensavo. Magari ero aggressivo, perfezionista. Avevo la fama di duro. Però mi sentivo più realizzato in quell’ambiente”» (Eugenio Capodacqua, ”la Repubblica” 18/1/2003). Sul mondiale del 1973: «Una grande soddisfazione. E immagini indimenticabili. Quella fu la corsa della mia vita, volete che non ce l´abbia stampata in testa? [...] Felicità a parte, fui soprattutto sorpreso. Non era neppure immaginabile alla vigilia: quando a 5 metri dal traguardo mi resi conto di aver vinto, ebbi proprio un´esplosione di felicità. Il giorno dopo ero ancora frastornato. [...] Se ci penso, mi viene la pelle di gallina. Io battere il grande Merckx in volata...Perché lui era forte dappertutto, non ce n´erano e non ce ne sono più stati come lui. Quando ne parlo penso proprio che sia stato come un premio alla carriera, per le tante volte che sono arrivato secondo dietro Eddy. [...] In un certo senso: certe occasioni sono da prendere al volo. Se rifacciamo 100 di quegli sprint, Eddy ne vince almeno 90. [...] Mi sentivo responsabilizzato. Il tecnico azzurro aveva sacrificato Motta, che all´epoca divideva con me i pronostici nella maggior parte delle gare. Non volevo deludere e feci di tutto per stare dietro a Merckx [...] Du durissima, vuoi per il percorso, molto difficile, vuoi perché con l´Eddy non esistevano gare tranquille. Lui attaccava sempre e anche quel giorno partì a 80 chilometri dall´arrivo. Fu lui a promuovere la fuga decisiva. Eravamo in sette, c´era anche Battaglin con me e poi Zoetemelk. Era una fuga ben assortita. [...] Con Merckx la tattica era una sola: provare a stargli a ruota. Impostai la corsa su Eddy, cercando di risparmiarmi per il finale. Fece tutto lui. [...] Andava così: il massimo che potevi sperare era arrivare con Eddy; dentro di me sapevo che potevo essere battuto, ma sentivo che dovevo provarci fino in fondo. Mi dicevo: dai, arrivare dietro lui è come vincere. [...] Io la mia parte l´ho fatta; ma quando Eddy ha dato l´ultimo strappo sulla salita del Montjuich, al penultimo giro, e siamo rimasti in quattro, ho cercato di risparmiarmi. Mi sono incollato alla sua ruota. [...] Quando sbucammo in quel rettilineo enorme, Eddy fece un buco per mandarmi avanti e cogliermi in contropiede. Io frenai e rimasi dietro. E´ stato lì, forse, che ho vinto. [...] Arrivo all´altezza della pedivella di Maertens e mi accorgo che è piantato. Lui cerca di ostacolare il mio sorpasso allargando i gomiti. Io rispondo, allargando anch´io. E poi passo. A 40 metri dall´arrivo mi rendo conto di aver vinto. [...] Non ho mai contato le volte che Eddy mi ha battuto, ma neppure quelle in cui io ho vinto io. Non fu solo in quella occasione. Vinsi il Giro del ´67 e lui arrivò 8° a Milano, onorando il mio successo; lo superai anche nel Lombardia, quell´anno; e poi alla crono di San Marino nel ´68, a Bergamo nel Giro ´76, ad una Agostoni. Non era facile... Non era facile neppure stargli a ruota. [...] La logica diceva una cosa, ma io non ci stavo ad arrendermi alla logica. Era il mio modo di essere atleta. E poi non c´era verso. [...] Fossi stato un po´ più utilitarista avrei vinto di più. Ma non era il mio carattere e poi non sarebbe piaciuto alla gente» (Eugenio Capodacqua, ”la Repubblica” 1/9/2003).