Varie, 1 marzo 2002
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Giulini CarloMaria
• Barletta 9 maggio 1914, Brescia 15 giugno 2005. Direttore d’orchestra. Oltre che direttore musicale della Scala, è stato artefice dell’Orchestra Rai di Milano, nonchè direttore emerito dell’Orchestra Sinfonica G. Verdi. Ha diretto nei maggiori teatri d’Opera del mondo e sono in pochi ad aver dimenticato la sua Traviata alla Scala con Luchino Visconti e Maria Callas. «[...] Era nato a Barletta il 9 maggio 1914 da una famiglia di origini mantovane. [...] si diplomò in viola al Conservatorio di Santa Cecilia, con Remy Principe, studiando a Roma in anni vivacissimi, pieni di fermenti nuovi. Vi insegnava tra gli altri Alfredo Casella, che poi ne divenne anche il direttore, e nello stesso ambiente si formò Petrassi. Nel ’36 vinse il concorso per suonare nell’Orchestra di Santa Cecilia, quando i concerti si tenevano ancora nella splendida sala dell’Augusteo. In quello spazio mitico suonò diretto dai più grandi: Stravinskij, Richard Strauss, Furtwängler, Bruno Walter e Mengelberg, assimilando i loro gesti. Si diplomò anche in composizione e in direzione d’orchestra. Nel ’44 debuttò come direttore sul podio dell’Orchestra di Santa Cecilia, in un concerto che celebrava la liberazione di Roma. Fin da giovane si confronta anche col teatro, che rilegge con una sua personale interpretazione. Nel 1950 dirige a Bergamo La Traviata, e dai primi anni Cinquanta comincia la sua collaborazione con la Scala (chiamato da De Sabata) e col Maggio Musicale Fiorentino. Dal ’55 appare regolarmente al Festival di Edimburgo. Alcuni spettacoli da lui diretti restano al tempo stesso nella storia dell’interpretazione musicale e in quella del teatro. Il 4 aprile del ’54 va in scena alla Scala l’Alceste di Gluck, ed è un trionfo. L’anno seguente, in maggio, debutta La Traviata con regia di Visconti, e la Callas nel ruolo di Violetta. Lo spettacolo, leggendario, aprì la strada al sodalizio Callas-Visconti destinato a ripetersi negli anno successivi. Memorabili anche gli spettacoli del Maggio Musicale. O, nel ’55, il Falstaff che diresse a Edimburgo, e nel ’58 il Don Carlos del Covent Garden di Londra, ancora con regia di Visconti. Dal 1966 al 1982 non mette più piede in un teatro. Vi ritorna, nell’82, proprio col Falstaff, opera che insieme al Trovatore gli è particolarmente cara. Dirige Falstaff a Los Angeles, a Londra e a Firenze, e in quello stesso anno riceve a Venezia il premio “Una vita per la musica”. Merita anche riconoscimenti come la medaglia d’oro consegnatagli dagli Amici di Verdi, mentre l’Accademia dei Lincei gli attribuisce il premio Feltrinelli. Moltissime le orchestre che ha diretto: dal 1945 al 1952 l’Orchestra della Rai, a Roma e a Milano. Nel ’55 fa il suo debutto americano con la Chicago Symphony Orchestra, e dal ’73 al ’76 è direttore stabile dei Wiener Symphoniker, mentre dal 1978 al 1985 guida l’Orchestra Filarmonica di Los Angeles. Oltre all’orchestra del Maggio, in Italia ha diretto l’Orchestra di Santa Cecilia e la Filarmonica della Scala, mentre in Europa ha lavorato con i Filarmonici di Berlino, la Royal Concertgebouw di Amsterdam, l’Orchéstre de Paris, i Filarmonici di Vienna e la London Philharmonia. Negli ultimi anni di lavoro, Giulini aveva via via assottigliato il suo repertorio, ridotto ormai a pochissimi nomi: Beethoven, Mozart, Bruckner, Brahms, Mahler, Fauré, qualche volta Bach. Fra le ultime tappe, il concerto in Vaticano, alla presenza del Papa, nel ’91. Una carriera durata 50 anni, festeggiati nel 1994 in tutta Europa. Poi cominciò ad accusare malori e a disdire alcuni concerti, sino a quando decise di abbandonare il podio nel 1998 e di dedicarsi esclusivamente all’insegnamento» (Dino Villatico, “la Repubblica” 16/6/2005). «Lo ripeteva sempre e ne era convinto: sono anzitutto un servo. Servo di quei geni che hanno creato la musica che ora stiamo facendo assieme, con un atto d’amore, voi in orchestra e io con voi dal podio. Che mistero: “Il direttore è l’unico musicista a non imbracciare uno strumento, eppure...”. Eppure, questa sua misura, fatta di inflessibile, naturale eleganza e di una rara percezione della totalità dell’opera nella continuità del suo divenire, trasformava la dichiarata sottomissione in protagonismo. Nell’evidenza di un carisma gentile e forte, indimenticabile. [...] Tra fare male e non fare, il rigore d’artista non ammetteva tentennamenti. Sapeva sottrarsi, rifiutare: questa sua attitudine rimane necessaria. La mondanità gli appariva ridicola, penosa. A Roma, al Conservatorio di Santa Cecilia, studia viola e composizione; suona diretto anche da Otto Klemperer e Bruno Walter, poi approfondisce la direzione d’orchestra con Bernardino Molinari; viene salvato dalla deportazione in Germania da un ufficiale tedesco che amava la musica. Dopo la guerra, è direttore principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano della Rai e nel 1948, a Bergamo, affronta Traviata: Toscanini lo apprezza e tre anni dopo debutta alla Scala con La vida breve di Manuel De Falla, diventando assistente di Victor de Sabata. [...] Giulini non era esattamente un convinto sostenitore della qualità del Novecento musicale: amava mettere dei paletti temporali piuttosto precisi, e non sempre volentieri si spingeva oltre le colonne d’Ercole di Brahms. Questo non gli ha impedito di battezzare, tra altri titoli, il Concerto dell’Albatro di Giorgio Federico Ghedini, l’Ottavo Concerto di Goffredo Petrassi, il Poema di Boris Blacher. Era feroce contro i gratuiti eccessi di libertà di alcuni registi, ma negli Anni Cinquanta è lui sul podio del Covent Garden di Londra per il Don Carlos di Luchino Visconti, prima di lavorare assieme a Franco Zeffirelli per Falstaff, condividendo dunque le prime esperienze italiane di “teatro lirico di regia”, capaci di pervenire a un equilibrio mirabile tra musica, canto, congrua efficacia dell’azione scenica. Nelle sue direzioni di Mozart questa misura diventa grazia. Il talento di Giulini viene compreso subito, in un’epoca che - più della nostra - sapeva concedere fiducia ai giovani, ne aveva bisogno, era meno prigioniera del fascino-ricatto dei talenti consolidati, ascoltati e riascoltati. Debutta al Maggio Musicale, dirige l’Orchestra Rai di Roma, la Philharmonia di Londra, inizia la lunga avventura statunitense, a Chicago e Los Angeles, interrotta da una breve parentesi viennese. Assidua la presenza con la Filarmonica della Scala. Ama insegnare, prima all’Accademia Chigiana di Siena, poi accettando l’invito di Piero Farulli - come lui violista - alla Scuola di Musica di Fiesole, dove la cattedra di direzione d’orchestra porta, e per sempre, il suo nome. Manda ad allievi e orchestrali le partiture con le sue annotazioni, è precisissimo negli orari, attento, severamente gentile se un attacco non lo convince, se un fraseggio gli appare tirato via; si rivolge ai ragazzi dando del “loro”: ‘Possono per cortesia riprendere da battuta...”. Non vola una mosca, tutti comprendono il dono che la generosità del maestro sta elargendo e lui si diverte per quella platicità, quella disponibilità che i giovani musicisti possiedono talvolta più dei loro colleghi maturi. Alto, magro, elegante nelle giacche ben tagliate, nel cappotto di cashmere, prima della lezione domenicale ascolta alla radio le partite di calcio: si accendeva di passione per la Vecchia Signora. [...]» (Sandro Cappelletto, “La Stampa” 16/6/2005). «È stato l’ultimo degli interpreti storici che, per il modo di pensare la musica e la professione del direttore d’orchestra, al riparo da ogni tentazione divistica, affondavano ancora le radici nella scuola direttoriale dell’800. Il suo debutto sul podio avvenne a Bergamo, nel 1948, con La Traviata, un’opera cui avrebbe legato il suo nome in una mitica esecuzione scaligera, segnata dalla presenza di Maria Callas, regista Luchino Visconti, nel maggio 1955. Del suo lavoro nel teatro d’opera rimangono alcune registrazioni imprescindibili: suoi sono il miglior Don Giovanni nella storia del disco, vivacissimo, frizzante nel suo andamento “all’italiana” e insieme doloroso, e un memorabile Don Carlos, d’una presa lirica e drammatica tanto forte quanto antispettacolare. Gusto, riservatezza, meditazione erano le qualità più personali di Giulini. Ostile alla musica contemporanea, non aveva un repertorio vastissimo, perché ogni partitura veniva interrogata, studiata a lungo nelle sue motivazioni profonde. “Difficile non è dirigere, difficile è capire”. E per capire ci vuole tempo, calma, studio continuo. Quando lo si voleva definire con una formula si diceva che Giulini era un “sacerdote” della musica. Lui stesso amava diffondere attorno a sé un’aura di spiritualismo, che in concerto o in teatro diventava spiritualità profonda, ossia intima comprensione dell’umano e del drammatico. Soprattutto, davanti alle sue esecuzioni, si aveva l’impressione di un vero e proprio “dover essere”: nulla avrebbe potuto essere diverso da come risuonava in quel momento in una mescolanza, molto caratteristica, di semplicità e di esaltazione solenne. Quest’impressione aveva fatto la Nona Sinfonia di Bruckner diretta alla Rai alcuni anni fa; e i torinesi ricorderanno una lancinante Incompiuta, una Nona di Beethoven sbalzata con altimetria impressionante di volumi sonori. Beethoven e, ancor più, il Brahms delle Sinfonie e del Requiem Tedesco toccavano le sue corde più intime: una tensione nostalgica verso l’inafferrabile, una severità unita alla delicatezza e a una energia profondamente interiorizzata. Ma non meno grande era il Giulini direttore d’opera [...] La musica risultava fluida e naturale sotto la bacchetta di questo direttore che interpretava ancora i classici in presa diretta: come se Mozart e Verdi, Beethoven e Brahms, Schubert e Bruckner gli avessero consegnato direttamente i loro messaggi» (Paolo Gallarati, “La Stampa” 16/6/2005). «[...] Lo definivano il Direttore Gentiluomo. Non invidia portata ai colleghi, non ricorso a mezzi sleali per farsi largo nella calca carrieristica. Solo esemplare modestia, scrupolosa preparazione, rifinito possesso dell’intero repertorio. Non possedeva prepotente inclinazione naturale per la direzione d’orchestra. Vi pervenne chetamente, dai ranghi strumentali stessi, sull’esempio dei giganti agli ordini dei quali aveva suonato, e senza la pretesa d’imitarli. Nella sua ampia e onorevole carriera diresse per decenni tutte le più grandi orchestre mondiali, toccò i più importanti teatri lirici, a cominciare dalla Scala. Le compagini rispettavano l’uomo gentile e corretto, il colto musicista. Calcò il podio teatrale senza amare Opera e cantanti e per istinto rifuggendo dal senso dei tempi drammatici. La sua tecnica di concertazione era ridotta al minimo, quella direttoriale sostanza di cose sperate: fede che le sue semplicissime intenzioni fossero per esser comprese. Se lo guardavi di fronte, vedevi le sue labbra sillabare la melodia nostalgicamente inseguita. Il pubblico gli attribuì natura oracolare. Ciò dovette spiacergli» (Paolo Isotta, “Corriere della Sera” 16/6/2005). «Alla Scala mi chiamarono il Sovrintendente Ghiringhelli e il Maestro De Sabata nel 1952. Dirigere fu un’emozione incredibile, la Scala era un esempio nel mondo con un’orchestra straordinaria. Arrivavo da Roma dove avevo vinto il Concorso per l’ultima viola all’Augusteo, poi a Santa Cecilia. Ho suonato con i massimi musicisti, da Stravinskij, che era un pessimo direttore d’orchestra, a Richard Strauss, bravissimo. Solo con Toscanini non riuscii. Alla riapertura della Scala, dopo le bombe, chiesi alla figlia Wally di conoscerlo. Era un personaggio strano, ma ha fatto tanto bene alla musica nel mondo. [...] Ho avuto la fortuna di lasciare sempre in teatro gli applausi, mai portarli a casa. Amo la musica, le ho dedicato la mia esistenza, mai la mia vita personale: ero felice in casa con mia moglie ora scomparsa, adesso con i miei tre figli e i nipotini. Ho suonato con i grandi, diretto solo ciò che amavo e partecipato con la testa e l’anima, ho lavorato con scenografi come Visconti e Zeffirelli. Mi sono sempre sentito un mediatore del genio. Prenda Mozart: è un mistero come riuscì in una vita così breve a scrivere tanto. Noi direttori abbiamo una grave difficoltà: non possediamo uno strumento, ma solo il gesto. De Sabata aveva un gesto danzante, Guarnieri non si muoveva. Furtwaengler, all’attacco della Quinta di Beethoven, faceva un grande gesto in aria, poi rimaneva lì: i Pheharmoniker di Berlino confessavano: ’Non lo guardiamo’. Un giorno mentre dirigevo sono svenuto, da allora ho capito che per me era finita, mi sono staccato da tutto: non ascolto più musica, non vado a concerti o alla Scala da anni. Leggo solo di continuo partiture, le penso, insegno ai giovani direttori d’Orchestra a Fiesole. Sicchè lo spostamento della Scala non mi tocca, spero solo che dirigano bene [...] Ho visto Muti in tv, ho girato canale. Ricordo con nostalgia Arturo Benedetti Michelangeli, carattere difficile, ma che tocco, che suono. Come non potrò mai dimenticare la voce della Callas e della Tebaldi. Dirigere alla Scala allora significava entrare nel mondo della musica, aveva il fascino della grande tradizione, era il centro del mondo. Con l’Orchestra di Israele feci il giro del mondo, ma l’emozione della Scala non la provai altrove, forse un po’ a Vienna allo Stadtsoper» (f.min., “La Stampa” 18/1/2002). «Uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, uomo schivo, fiero, disinteressato alle luci della ribalta, che alla musica ha riservato una dedizione incondizionata. [...] Quali sono i ricordi più belli della sua lunga carriera? “Sono legati agli anni prima della guerra, quando suonavo come viola di fila nell’orchestra dell’Augusteo. È stato lì che ho avuto la fortuna di entrare in contatto coi più grandi direttori del tempo: Klemperer, Furtwangler, De Sabata, Strauss, Walter. Un periodo eccezionale. Dico sempre che aver studiato con bravi maestri, aver suonato in orchestra e in quartetto sono stati la mia vera ricchezza [...] in ogni occasione ho cercato di dare tutto me stesso. Prima dei concerti, in camerino, mi assaliva una paura grandissima, ma poi, sul podio, quando cominciava la musica, la tensione si stemperava. Ho avuto una grande fortuna: quella di avere in dono un gesto capace di trasmettere le emozioni che provavo. È una cosa che non si può imparare, lo dico ancora a quei giovani direttori che ogni tanto mi vengono a trovare e mi mostrano le loro partiture” [...] debutto con l’Orchestra di Santa Cecilia nel ’44 per celebrare la Liberazione di Roma. Nel ’51 De Sabata lo volle alla Scala come assistente e nel ’54 divenne suo erede. Da lì l’inizio della carriera internazionale, sul podio di tante orchestre: Chicago Symphony, Berliner Symphoniker, Royal Concertgebouw, Los Angeles Philharmonic, Maggio fiorentino. Inoltre l’opera, con trionfali rappresentazioni alla Scala e in altri teatri, fino all’abbandono della lirica nel 1982» (Paola Zonca, “la Repubblica” 6/5/2004). Come è nata l’attrazione per la musica? «Un giorno in una piazza di Bolzano, dove vivevo con la mia famiglia, mio padre commerciava in legname, fui colpito da un uomo che suonava uno strano oggetto. Era un violino. Lo chiesi in regalo per Natale (violino donato, insieme con una bacchetta, da Giulini all’Orchestra Verdi, presto esposto all’Auditorium di Milano , n.d.r) . Cominciai a suonarlo per gioco e poi passai seriamente alla viola. Finché arrivai a Roma e vinsi, ventenne, il concorso per entrare come viola nell’orchestra dell’Augusteo. Una fortuna che non dimenticherò mai [...] all’ultimo esame di composizione. Si poteva fare una prova con l’orchestra e io ne sentivo forte il desiderio. Fu il mio primo concerto e scoprii quanto mistero c’è nella direzione. Tutto quello che è seguito, mi è stato offerto. Nessuno può dire che ho mai chiesto qualcosa a qualcuno. E con le orchestre, ho sempre portato i miei "materiali", con le mie arcate, le mie dinamiche. E sì che non era facile andare a Vienna o a Berlino a eseguire una sinfonia di Brahms chiedendo ai celebri musicisti di usare i miei "materiali"! Ma con tutti, dai Wiener ai Berliner, ho avuto un contatto felice [...] Per me, la musica parte da Haydn e finisce con Hindemith. Non sono mai riuscito a familiarizzare con l’antica e la moderna. Poco Mahler, niente Berg e mai un’opera completa di Wagner perché ero incapace di entrare nel suo mondo. È difficile spiegare il mistero di questi puntini neri sulla carta che devono diventare parte della tua vita. Ho eseguito solamente la musica che sentivo, mentre mangiavo, dormivo, camminavo. Mai partiture per me incomprensibili [...] Con Verdi e Mozart invece veniva subito quel flusso trascinante... Non ho mai voluto conoscere il lato privato dei compositori amati. Si possono avere delusioni, come per Mozart. Umanamente non era una grande persona [...] La mia famiglia e io non siamo mai stati fascisti. Sono andato al fronte, ma non ho ammazzato nessuno [...] Amo gli impressionisti perché sanno trasmettere i sentimenti. Non capisco la pittura astratta [...] I sentimenti sono stati la base della mia esistenza. Sono profondamente credente, vado sempre a messa alla Chiesa del Carmine. Ora sono pronto a ricominciare una nuova vita che non posso immaginare, un grande mistero. Ho il dono della fede, ho avuto quello dell’amore. Lascerò una famiglia felice» (Laura Dubini, “Corriere della Sera” 6/5/2004).