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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

Gorbaciov Mikhail

• Privolnoye (Russia) 2 marzo 1931. Politico. Presidente dell’Unione Sovietica, pose fine alla Guerra Fredda • «Era apparso sulla scena, di scorcio, nell’ottobre 1980, emergendo dalle campagne di Stavropol per diventare membro supplente del Politburo del Pcus. C’era Breznev al comando, sempre più vecchio. Breznev morì due anni dopo e arrivò Andropov. Solo allora si cominciò a parlare di lui come di uno che avrebbe potuto ”fare carriera”. Profezia facile, essendo il più giovane, giovanissimo in quella gerontocrazia che sembrava non dovesse finire mai. Ma alla morte repentina di Andropov, mentre tutti aspettavano che qualche cosa accadesse, sul piedestallo del potere sovietico agonizzante (ma allora nessuno lo sapeva ancora) i vecchi misero un altro vecchio, Konstantin Cernenko. Gorbaciov aspettò ancora un anno per raggiungere il vertice del partito, dello Stato, di tutto. Chi fosse, sul serio, non lo sapeva nessuno. Noi corrispondenti, e tutta la sterminata schiera di sovietologi, scavavamo nel suo scarno passato, alla ricerca di qualche indizio. Il plenum di marzo del 1985 aveva incrementato le aspettative. Il tono di quel discorso era apparso nuovo. Ma nessuno avrebbe giocato un copeko sul giovane Mikhail Sergeevic. Intorno a lui c’era ancora uno schieramento di cariatidi. ben vero che - sempre si diceva - il vecchio Andrej Gromyko lo aveva sostenuto a spada tratta, fino al punto che si sparse la voce che avesse detto, in uno storico Politburo, che il giovanotto ”aveva sì un sorriso sulle labbra, ma che nascondeva denti d’acciaio”. Quello stesso sorriso che, pare, abbagliò una che, anche lei, aveva molto a che fare con i metalli pesanti, la ”lady di ferro” signora Thatcher. Si scoprirà poi [...] che quella frase Gromyko non l’aveva mai pronunciata. Ma la sovietologia viveva di queste piccole consolazioni. [...] la certezza che qualcosa di nuovo sarebbe davvero avvenuto con Gorbaciov fu una piccola notizia apparsa sulla Pravda qualche settimana dopo il plenum di marzo: il segretario generale aveva nominato al posto di ”aiutante personale” un certo Anatolij Cerniaev. Cos’era un ”aiutante personale” del segretario generale lo sapevano in pochi. Era colui che lo avrebbe seguito passo passo, che gli avrebbe corretto i discorsi, che avrebbe assistito a tutti i suoi colloqui, anche i più delicati, che avrebbe conosciuto in anticipo tutte le nomine, che lo avrebbe consigliato per primo, e per ultimo. Uno che sarebbe stato arrestato con lui, a Foros, nel momento della caduta finale. [...] Anatolij Cerniaev [...] era [...] un uomo colto, intelligente, che - dal suo ufficio sulla Piazza Vecchia - era riuscito a proteggere ”quadri” del partito caduti in disgrazia, come Len Karpinskij e molti altri. Uno che aveva, tra i suoi amici, intellettuali che erano passati per Praga, dove avevano lavorato nella rivista ”Problemi della Pace e del Socialismo”: una specie di isola dove una parte importante dell’intelligencija comunista sovietica (Evgenij Ambarzumov, Jurij Afanasiev, Merab Mamardashvili, Fjodor Burlatskij, lo stesso Cerniaev e molti altri) aveva preso contatto con i partiti comunisti dell’Occidente, tra cui il Pci, ricavandone ispirazione. Fu allora che mi dissi: un segretario generale che si sceglie un aiutante di questo genere è mille miglia lontano da tutti i suoi predecessori. Non si pesca nel mucchio con tanta precisione. Fu da quel momento che seguii Mikhail Gorbaciov con la massima attenzione, direi perfino con un’attenzione spasmodica. Mi fu chiaro che era cominciata una fase di straordinarie novità, anche se non erano ancora nate la parola perestrojka, e quell’altra parola che adesso fa parte di tutti i vocabolari mondiali: la glasnost. Quella che apparve un anno dopo, con Cernobil, quando Gorbaciov decise di squadernare la tragedia di fronte al mondo, rompendo una tradizione di segretezza che durava da decenni. E poi c’è ancora qualcuno che dice di lui che fu un uomo irresoluto e incapace di decisioni drastiche. Gli ci vollero due giorni per spezzare la cortina di menzogne che lo circondava, ma lo fece. Incerto? L’incertezza di Gorbaciov era una necessità, quella di combattere su due fronti: prima contro i conservatori-burocrati e, dopo, contro i radical-democratici. Non sempre è una colpa l’essere stati sconfitti. [...] Gorbaciov era rimasto ”candido”, in certo qual senso ”ingenuo”, pur essendosi immerso interamente, tumultuosamente, nelle dure e impietose navigazioni della politica. Le sue spiegazioni dei motivi che l’avevano indotto ad agire in questo o in quell’altro modo - del resto basta leggere le sue memorie per trovarne evidente conferma - rivelano che egli fu mosso (quasi) sempre da principi fermi, anche quando sarebbe stato forse più utile alla causa abbandonare per un attimo i principi generali e agire (come avrebbe detto Niccolò Machiavelli) piuttosto affidandosi alle virtù della volpe. Così avvenne dopo il complotto finale nel bosco vicino a Brest. Gorbaciov avrebbe potuto arrestare i tre malfattori, Eltsin, Kravchuk, Shushkevic. Ciascuno di loro, al posto suo, lo avrebbe fatto. Eltsin lo avrebbe fatto, così come, con la stessa violenza, ordinò ai suoi servi di sparare sul Soviet Supremo della Russia nell’ottobre del 1993. Era il potere il suo solo orizzonte. Il Paese, la gente, erano le quinte, il fondale della sua rappresentazione personale. Gorbaciov invece quei tre non li fece arrestare. Pensò che ne sarebbe seguito un bagno di sangue. Non volle macchiarsene. Fu sconfitto, ma per questo resta nella storia con un segno diverso da tutti gli altri. [...]» (Giulietto Chiesa, ”La Stampa” 27/2/2005). «Reykjavik, 12 ottobre 1986. il tardo pomeriggio di una domenica fredda. In una villetta bianca, modestamente chiamata Casa Hofdi, prosegue da ore un ultimo incontro fuori programma tra Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan. I giornalisti sono impazienti, che sta succedendo? Poi esce il segretario di Stato, George Shultz, e annuncia che non ci sono esiti straordinari, ma che ci si è andati vicini come mai prima. Lo confermano implicitamente i due protagonisti, che abbandonano insieme Casa Hofdi e si stringono la mano con volti distesi. il segnale che il vertice subpolare, pur fallito ”tecnicamente”, ha posto, ”politicamente”, le basi di una svolta. Che verrà un anno dopo, al vertice prenatalizio di Washington, con l’accordo, finalmente pieno e concreto, per lo smantellamento degli ”euromissili” (gli SS20 sovietici, i Pershing e i Cruise americani) che avvelenavano i rapporti Est-Ovest nel cuore dell’Europa. Nella capitale americana, Gorbaciov conobbe i suoi primi bagni di folla, in un misto di curiosità e di grande speranza, prova decisiva dell’impatto che la perestrojka avrebbe avuto sulle relazioni internazionali, ancora dominate dalla ”guerra fredda”. Gorbaciov era arrivato al potere l’11 marzo 1985, e già come vice di Cernenko, l’ultimo dinosauro dell’Urss, aveva fatto capire quali sarebbero state le sue novità. Non a caso, Margaret Thatcher (l’istinto dei conservatori veri e liberali) lo aveva invitato a Londra e accolto come l’uomo nuovo dell’Est. Otto mesi dopo l’investitura, avvenuta ancora nei modi della cooptazione sovietica, si era incontrato a Ginevra una prima volta con Reagan, sfidando la sua definizione dell’Urss come ”impero del male” e il suo grandioso progetto dello scudo spaziale, che mirava a ridurre, se non ad annullare, quella capacità nucleare offensiva che era la base principale del diritto di Mosca di considerarsi una superpotenza. Molti temettero una riedizione del gelido e nefasto vertice di Vienna del 1961 tra Kennedy e Krusciov, ma il ”vecchio” Reagan e il ”giovane” Gorbaciov (vent’anni di differenza, come all’incontrario Krusciov e Kennedy) mostrarono ”la loro capacità di conversare pacatamente”, davanti a un caminetto acceso della Maison Fleur d’Eau, come raccontò il portavoce della Casa Bianca, Larry Speaks. In termini strategici e diplomatici, l’ostacolo maggiore era appunto lo scudo spaziale prospettato da Reagan nel 1983, che Gorbaciov, realisticamente, vedeva come una sfida economica e tecnologica insostenibile dall’Urss. Col tempo, il leader sovietico, invece di prenderlo di petto, contrappose uno scambio: rinuncia dell’Urss al grosso della sua capacità offensiva, rinvio, quanto meno, del progetto spaziale americano. Le cose non andarono esattamente così, Reagan insistette sullo scudo, ma sempre più teoricamente, Gorbaciov lo capì e concesse ampie riduzioni sulle armi nucleari offensive, poi accettando di ridurre o annullare anche lo squilibrio ”convenzionale” tra Patto di Varsavia e Nato, in aggiunta a quanto fatto per gli euromissili. L’uomo nuovo del Cremlino non fece una politica di appeasement preventivo con l’Occidente, ebbe i suoi slogan propagandistici, come la ”casa comune europea”, soprattutto cercò di negoziare quanto restava del potere contrattuale dell’Urss, che egli sperava di rinnovare, in una certa misura democraticamente, salvandola dal disastro a cui l’avevano avviata i suoi predecessori storici. Quando si rese conto che neppure questo era possibile, ebbe il coraggio di non insistere. E così fu per l’Afghanistan invaso da Breznev nel 1979: ne tentò dapprima una neutralizzazione, poi decise una dolorosa ritirata unilaterale. Così fu nel 1989 in Europa, quando, per effetto delle debolezze strutturali, antidemocratiche, del vecchio sistema, cedevano uno dopo l’altro i regimi centro-orientali, e alla fine, il 9 novembre, cadde il Muro di Berlino. Per non aver opposto a tutto questo un’inutile, sanguinosa resistenza, e fors’’anche per averlo confusamente incoraggiato (come anche fuori d’Europa, con gli applausi degli studenti democratici cinesi, purtroppo forieri della repressione di Tienanmen), Gorbaciov si meritò nel 1990 il Premio Nobel per la pace. Dovette dimettersi un anno dopo, quando crollò l’Urss» (Aldo Rizzo, ”La Stampa” 27/2/2005). «[...] Kruscev in modo rozzo e in una situazione di crisi incipiente dell’organismo ammorbato, Gorbaciov in modo più sofisticato e in una situazione di crisi terminale dell’organismo, erano stati ambedue conservatori illuminati ma purtroppo incompiuti. In altre parole: ambedue comunisti convinti, vincolati alla propria formazione ideologica giovanile, quindi ambedue incapaci, in quanto riformatori e leninisti ad un tempo, di sciogliere con un taglio gordiano i nodi di tale specifica formazione fideistica. [...] paradossalmente, lo stesso Gorbaciov, animato dalle migliori intenzioni riformatrici, aveva dato al mondo la prova lampante che il sistema era irriformabile. Che non poteva migliorarsi, ma soltanto spezzarsi, cedendo sotto il peso di caotici innesti economici e mediatici che peraltro evitavano di affrontare il più grave dei problemi russi: l’inerzia e la sterilità delle campagne colcosizzate. Già Kruscev aveva tentato di ”mettere assieme il fuoco con l’acqua”, approdando a velleitarismi e compromessi inconcludenti. I medesimi conati di compromesso impossibile fra cose inconciliabili, i russi, trent’anni dopo, dovevano ritrovarli nel riformismo socialdemocratizzante e senza sbocco di Gorbaciov. Boris Eltsin, dirompente successore non più comunista, fu molto preciso nella valutazione e perfino nella periodizzazione critica delle fasi della perestrojka. Fino al 1987, gli scossoni dati al moribondo sistema avevano avuto effetti alquanto positivi; dopo il 1987, i vari placebi distillati per mantenerlo ad ogni costo in vita dovevano rivelarsi uno più inefficace dell’altro. S’incominciava a capire che delle pastoie del comunismo ci si poteva liberare soltanto fuoruscendo dal comunismo. O che lo si poteva conservare solo come sistema politico distruggendolo però, alla radice, come sistema economico: era quella la via cinese al ”capitalismo confuciano” che i comunisti russi, legati al mito infecondo dell’agricoltura collettivizzata, non videro o non vollero vedere. Neppure videro che i comunisti cinesi, nel momento in cui sconvolgevano le campagne maoizzate col vomere della ”perestrojka” capitalista, andavano cautissimi con la ”glasnost” e quasi la ignoravano. La mummia di Mao restava inviolata nella Piazza Tienanmen, mentre Deng Xiaoping mandava in frantumi il folle universo economico ed egualitario del maoismo. Gorbaciov invece, in una sorta di storico atto di contrizione e di riparazione, volle tentare la grande sfida: umanizzare il comunismo sovietico che a suo tempo aveva sfregiato il ”volto umano” del comunismo di Praga. Pensò di salvare un comunismo sclerotizzato forzando e aprendo, con un connubio di perestrojka e di glasnost, le due valvole più chiuse del sistema: l’economia comandata e la censura ideologica. Ma la vecchia profilassi leninista, disattesa dai cecoslovacchi e più tardi riscoperta dai cinesi, non raccomandava l’ostracismo preventivo a ogni commistione dell’una con l’altra? La libertà economica, la famosa Nep, poteva andar bene purché depurata della libertà di pensiero e di parola. Fin dal 1921 (X congresso del partito) Lenin insisteva: sì alla Nep misurata e magari provvisoria; ma Nep più democrazia assolutamente no. Presto si vide a Mosca che il comunismo senile non si poteva ringiovanire o ammodernare con le formule e miscele ardite di Gorbaciov. L’esplosione rischiava di farsi implosione. Il boccheggiante regime russo, il quale aveva perduto perfino la sua vitalità repressiva, il quale non aveva più fiato in corpo, non poteva che soccombere tra la falce di una perestrojka imperfetta e il martello di una glasnost sempre più selvaggia. [...] Il suo ruolo d’involontario demolitore egli lo ha giocato fino all’ultimo con notevole coraggio anche personale e familiare. Forse non sapremo mai quello che accadde veramente, nelle ultime ore dell’Urss, fra lui e i veterostalinisti che organizzarono contro di lui l’anemico putsch del 19 agosto 1991. Ma sappiamo, poiché lo abbiamo visto in televisione, che egli prese atto con calma stoica e civile dell’ineluttabile decesso del comunismo sovietico passando le consegne al vincente Eltsin. Poi l’Occidente ha continuato a credere che il grande sconquasso, la caduta del muro a Berlino, la restituzione della libertà ai Paesi satelliti, eccetera, avessero avuto in Gorbaciov la causa e il motore principale. Il che era e resta vero fino ad un certo punto. La causa più profonda della fine del comunismo russo era nel comunismo stesso, giunto nel 1985, quando Gorbaciov diventa segretario, alla carenza d’ossigeno e alla fase della disintegrazione che era fisiologica e che si sarebbe compiuta comunque: anche se al posto del conservatore illuminato vi fosse stato un conservatore oscurantista. Tocqueville diceva che i riformisti, senza volere, accelerano l’agonia dei cattivi governi, sottintendendo che i reazionari possono tutt’al più prolungarla. La differenza va a netto vantaggio di Gorbaciov. Egli, seppure nolente più che volente, ha agito come uno strumento dell’astuta fatalità o giustizia della storia. In quanto tale ogni spirito liberale lo ricorderà sempre con rispetto» (Enzo Bettiza, ”La Stampa” 27/2/2005). «’Lo conosco bene - disse Andrej Gromiko -: è giovane, ma ha i denti d’acciaio”. Quel plenum del Comitato Centrale non riusciva a decidersi tra la tentazione a mummificare ogni leadership in gerontocrazia (quasi per un bisogno istintivo di ingessare fisicamente l’ortodossia a garanzia dell’immobilità, per evitare ogni cambiamento) e la vertigine di un precipizio che apriva verticalmente la ”classe eterna” al vertice dell’Urss per puntare su un uomo di vent’anni più giovane del Segretario Generale Cernenko, appena morto dopo dodici mesi di completa paralisi. Gromyko garantì per lui, rassicurò i conservatori, e l’11 marzo 1985 Mikhail Sergeevic Gorbaciov arrivò alla guida del partito comunista dell’Urss e della superpotenza sovietica, minacciosa e stremata padrona di metà del mondo. Il comunismo sovietico aveva un bisogno disperato di cambiamento per sopravvivere, ma non disponeva di alcun progetto per cambiare se stesso. L’unico tentativo di riforma fu abbozzato, forse appena intuito, da Jurj Andropov, il Segretario Generale che nel 1982 succedette per due anni alla lunga ”stagnazione” di Leonid Breznev. Capo del KGB dal 1967, Andropov conosceva meglio di tutti i piedi d’argilla su cui ormai si reggeva il gigante sovietico e nello stesso tempo aveva in mano i dossier di tutti i giovani dirigenti più promettenti del partito. Prima di ammalarsi di un male che il silenzio del potere sovietico rendeva impronunciabile, Andropov chiamò a Mosca questi giovani bolscevichi e ancora dalla stanza della sua clinica creò un network del tutto irrituale, mettendo in contatto tra loro Gorbaciov, Ligaciov e uomini che sarebbero poi rimasti affondati nell’apparato di periferia. Tra loro, protetti dal Segretario Generale, cresceva sottovoce l’eresia più ortodossa: il comunismo doveva cambiare, per restare se stesso. Non esiste una teoria politica, un pensiero, a guidare una stagione che pure metterà fuori gioco la cremlinologia cambiando involontariamente la storia d’Europa e liberando la geografia dell’Urss, fino a travolgere la stessa ”natura” sovietica, immobile e intatta per settant’anni, costruita com’era col ferro e col fuoco per durare per sempre. Gorbaciov è tutto prassi, sospinto da uno stato di necessità che lo porta a cambiare, senza sapere dove il cambiamento lo porterà. Non ha un ceto di riferimento, né una leva sociale a disposizione, né una cultura di ricambio. Si muove interamente dentro l’orizzonte del comunismo - perestrojka non è altro che ”ristrutturazione” - tentando un’opera di manutenzione straordinaria, senza sapere dov’è la sponda verso la quale si dirige a zig zag, mentre dietro di lui la vecchia sponda brucia. La sponda, evidentemente, sarebbe diventata visibile solo pronunciando la parola definitiva della fuoruscita dal comunismo: democrazia. Ma tutto il gorbaciovismo sta al di qua di quell’approdo, che non riesce a concepire, tutta l’idea-forza del leader è imprigionata nel fascino a sovranità limitata di due concetti intermedi, di due parole a metà: perestrojka invece di democrazia, glasnost (trasparenza) invece di verità. Il comunismo sovietico ferma qui il suo alfabeto leninista, non riesce nemmeno nella fase di massima torsione ad andare oltre se stesso. Eppure in quei sei anni il mondo ha creduto possibile l’impossibile, perché tutte le spinte scomposte che Gorbaciov ha messo in campo avevano superato la soglia russa dell’incredibile. Per una fase, anche i russi hanno pensato che fosse lecito tornare a sperare, per la prima volta dopo il ”disgelo” di Nikita Krusciov. Quando la glasnost ha liberato all’improvviso il film Pentimento di Abuladze, sullo stalinismo, e tutti correvano a vederlo nelle sale. Quando l’Armata Rossa si è ritirata dall’Afghanistan e il telegiornale delle nove ha mostrato il generale Gromov che passava per ultimo il ponte sull’Amu-darja. Quando è cominciata la trattativa sugli euromissili. Quando a dicembre un treno da Gorkij è arrivato alla Jaroslavskij Vaksal alle sette meno un quarto di mattina ed è sceso Andrei Sacharov, uscendo per sempre dal confino. Quando il maestro Ljubimov è tornato sul palco del teatro Taganka a far muovere nel buio sovietico Woland e Margherita. Quando si è cominciato a parlare di un vero Parlamento, non un Soviet, di candidati liberi alle elezioni accanto ai nomi del partito, quando la televisione ha trasmesso per la prima volta la messa di Natale, duemila anni dopo la conversione della Rus’ al cristianesimo. Per un momento, ci hanno creduto anche i ”shestidisiatniki”, come li chiamano a Mosca, cioè gli uomini degli Anni Sessanta, che si erano illusi con Krusciov e avevano giurato di non illudersi mai più. Quegli intellettuali tornati alla politica senza il partito potevano diventare il ceto di appoggio della perestrojka. Ma presto, il gorbaciovismo si apre in due. All’estero, acquista credito con Thatcher prima, con Kohl, con Reagan che arriverà a Mosca per camminare a piedi sull’Arbat, con Papa Wojtyla. In patria, è imprigionato nei rapporti di forza dentro il Politbjuro dove uomini come Egor Ligaciov, a nome di tutto l’apparato bolscevico, cominciano a porre a Gorbaciov il dilemma capitale, in cui si perderà: sei il primo riformatore dell’Urss, come vuole l’Occidente, o sei l’ultimo Segretario Generale, come vuole il partito? Gorbaciov risponde con la sola formula in cui crede, con lo stato di necessità di cui è portatore, e che tiene insieme la sua eresia e la sua fedeltà: la riforma, il cambiamento, è l’unico orizzonte possibile per il comunismo di fine secolo. Questa è la frontiera politico-culturale oltre la quale l’uomo della perestrojka non riesce a spingersi, perché rappresenta la curva estrema della sua formazione e anche della deformazione possibile del sistema, ricevuto da Gorbaciov in custodia dal Comitato Centrale perché ne fosse il difensore supremo. Un limite, ma un limite appassionato, che porta Gorbaciov a testimoniare questa sua formula in ogni parte del mondo. Non solo nei parlamenti occidentali che lo applaudono perché vedono in lui la mutazione del ”nemico ereditario” sovietico: ma anche davanti a platee ostili come l’Avana o Berlino, che lo circondano di gelo e di rifiuto. La sua difficoltà gli rallenta il passo, l’opposizione del partito imprigiona le riforme, l’incertezza culturale annebbia il percorso, la contraddizione per cui il capo del Pcus deve diventare il distruttore della sua onnipotenza diventa paralisi. Gli intellettuali resuscitati alla politica dalla perestrojka l’abbandonano per parole più radicali, le assemblee con i primi candidati liberi diventano un processo agli uomini di partito (’quanti metri quadrati conta il tuo appartamento? Dov’eri negli anni di Breznev? Dove compri le medicine?”) la riforma economica inceppa il vecchio meccanismo di approvvigionamento minimo senza sostituirne uno nuovo. Ma intanto le maglie di ferro del sovietismo stremato si stanno allargando. Dal Caucaso arrivano le prime rivolte e le minacce di morte per Gorbaciov, fino alla profezia scritta dall’ayatollah Khomeini direttamente al Segretario Generale: ” chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie”. Dal Baltico, arriva l’anticipazione della fine dell’Impero, quando un milione di persone scende nelle strade di Vilnius dietro una croce, chiama fuori dal Conservatorio il professor Landsbergis incurante della statua di Lenin che punta il dito verso la porta, e gli chiede di guidarlo fuori dalla prigione sovietica dell’Urss. Quando il conflitto con Eltsin si compie e un uomo maledetto dal partito per la prima volta nella storia si ribella all’anatema, sfida il Pcus e si fa eleggere presidente della Russia, Gorbaciov rimane Mikhail Senzaterra. Dalla corazza sovietica è uscita la Russia, autonoma, ribelle, dunque davvero eterna, capace di ridurre l’Unione a una sovrastruttura. Il golpe di agosto, nel ’91, è una reazione tardiva e automatica del partito allo svuotamento del potere e alla perdita di controllo sul Paese, dopo sei anni di perestrojka. Se guardiamo al quadrilatero di ferro della giunta golpista (Janaev capo dell’apparato del Pcus, Krjuchkov capo del Kgb, Yazov capo dell’Armata Rossa, Pugo capo delle truppe dell’Interno) vediamo che il perimetro è quello del golpe comunista classico, tanto da avverare l’antica profezia russa: ”Lo zar o è sanguinario o è insanguinato”. Così anche il comunismo, che può essere spezzato ma non accetta di essere riformato. Ma a differenza di Krusciov, Gorbaciov aveva destabilizzato il sistema per sei anni, e aveva stabilizzato alcune linee spontanee di fuoruscita dal sistema. Così, paradossalmente, è anche merito suo - un merito involontario - se il comunismo è morto in Europa e se la perestrojka non è finita in un’altra gelata di stagnazione. I golpisti credevano di bloccare la perestrojka, mentre mettevano in scena l’autofagia del bolscevismo, settant’anni dopo» (Ezio Mauro, ”la Repubblica” 25/2/2005). «[...] ebbe molti meriti. Capì che il sistema sovietico era afflitto da una paralizzante gerontocrazia (l’età media, al vertice del partito e del governo, era di circa 70 anni) e che occorreva svecchiarlo con una ventata di idee nuove. Capì che la macchina economica si era inceppata e che occorreva rimetterla in moto. E capì che la modernizzazione dell’Urss sarebbe stata possibile soltanto se il Paese avesse migliorato i suoi rapporti con gli Stati Uniti e con le democrazie europee. Ma commise almeno due errori che divennero i tarli del regime e ne provocarono alla fine il collasso. Il primo, paradossalmente, fu la perestrojka. Gorbaciov era comunista e credeva nella proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Era disposto a tollerare l’attività artigianale e la piccola azienda familiare, ma l’idea che un’impresa di media grandezza potesse finire nelle mani di un privato era, per lui, anatema. Pensava che il rinnovamento dell’apparato produttivo sovietico sarebbe stato realizzato grazie a un soprassalto di entusiamo, fede e volontarismo ideologico. Credeva nel mito dei consigli (i Soviet): una istituzione che ebbe, agli albori della rivoluzione, una vita brevissima e venne rapidamente esautorata dall’onnipotente macchina del partito. Il secondo errore, altrettanto paradossalmente, fu la glasnost che noi abbiamo sommariamente tradotto con ”trasparenza” e che dovrebbe definirsi ”pubblica assunzione di responsabilità”. Gorbaciov sapeva che il regime era diventato un Leviatano opaco e ottuso in cui nessuno pagava per i propri errori. Quando proclamò la necessità della glasnost, non pensava alla libertà di stampa, ma, più semplicemente, a un sistema in cui ogni pubblico funzionario o esponente del partito sarebbe stato personalmente responsabile delle sue iniziative e del buon funzionamento del settore che gli era stato affidato. I risultati furono disastrosi. La perestrojka screditò i vecchi mestieranti dell’economia statale e peggiorò ulteriormente il suo funzionamento. L’azienda socialista, gestita dai soviet, e l’azienda familiare rimasero sulla carta o produssero risultati mediocri. Ma la politica riformatrice di Gorbaciov suscitò aspettative e, come accade quando le promesse non vengono mantenute, creò risentimento. In alcune Repubbliche periferiche cominciò a manifestarsi una forte richiesta di autonomia. Se volete la perestrojka, dicevano i baltici a Mosca, noi, a casa nostra, siamo capaci di farla meglio di voi. a questo punto che la glasnost cominciò a produrre effetti devastanti. Gli apparatciki non cambiarono le loro abitudini, ma alcuni giornali interpretarono la trasparenza raccomandata da Gorbaciov come libertà di stampa. Prima timidamente, poi sempre più coraggiosamente, alcune testate cominciarono a proporre, suggerire, criticare. E, siccome le pecche del sistema erano infinite, la glasnost contribuì a rendere sempre più evidente il fallimento della riforma di Gorbaciov. Una parte del partito si accorse che la situazione stava sfuggendo al suo controllo e cercò d’innestare la marcia indietro. Il risultato fu una frattura al vertice del potere che esplose con il putsch fallito dell’agosto 1991. Cinque mesi dopo Gorbaciov dovette annunciare pubblicamente la fine dell’Unione Sovietica. [...]» (Sergio Romano, ”Corriere della Sera” 24/1/2005). «[...] Sbaglia chi dice soltanto che la perestrojka è fallita. Non è onesto e non è vero. In fondo, quella politica ha cambiato il mondo, che sarebbe migliore se avessimo avuto più tempo. La perestrojka è stata una grande occasione. Un´occasione colta solo in parte e per il resto bruciata [...] Errori ce ne sono stati tanti. Oggi mi rendo conto che riuscire era possibile ma molte cose dovevano essere fatte in modo diverso. Soprattutto, dovevamo fare più in fretta. Con un ritardo imperdonabile misi mano alla riforma del partito comunista. Che poi fu la forza attorno a cui si concentrarono gli oppositori, quelli che alla fine organizzarono il golpe e bloccarono tutto in dirittura d’arrivo, all’ultimo momento, quando stava per partire la decentralizzazione. Ma avremmo anche dovuto riformare l’Urss molto più velocemente. Prima che i nodi delle autonomie venissero al pettine. Molte volte ci avevo pensato. Era chiara la necessità di un nuovo Trattato d’Unione che riformasse l’assetto federale. E ci eravamo quasi arrivati in quell’agosto del 1991. Ma era già troppo tardi [...] C’erano mille problemi che ci parvero marginali, ma che in realtà avevano valore strategico perché da quelli dipendeva il sostegno della gente. Anche in quel caso me ne resi conto troppo tardi. Parlo ad esempio del mercato, dell’economia spicciola che tocca ogni giorno ogni famiglia. Avevamo aumentato stipendi e pensioni. Una pioggia di denaro su un paese dove mancavano le merci in modo cronico, da anni. E proprio in quel momento, guarda caso - ma non poteva essere un caso - il prezzo del petrolio ebbe un crollo, scese fino a 12 dollari. Gli americani misero in circolazione l’esubero del loro petrolio, e il prezzo precipitò. Le nostre entrate diminuirono di due terzi. E pensare che Breznev si era ingrassato col petrolio, e Eltsin era stato seduto tutto il tempo sull’oleodotto e anche Putin ne trae non pochi vantaggi. Io, invece, no. Ma avrei potuto farcela lo stesso, se avessi capito in tempo. Avremmo potuto sottrarre denaro alla difesa per comprare beni di consumo. Oppure bloccare la riforma delle pensioni. Umanamente, non me la sentii di togliere quei quattro soldi ai pensionati che li avevano appena avuti. Politicamente, avrei dovuto. Invece non fu fatto. In gran parte per colpa mia. La gente pensò che non fossi in grado di gestire la crisi, perse fiducia in me. E fu allora che cominciarono ad apparire i nostri eroi. Con i comizi, le promesse? [...] Non mi piace la parola ”nemici”. Io dico oppositori, avversari. Ce n’erano tanti anche attorno a me. Da un lato i radicali, Eltsin e compagnia bella, che volevano tutto e subito, ma puntavano solo al potere. Dall’altro, una parte del partito, che non voleva cambiamenti per conservare intatto il potere. Né gli uni né gli altri furono in grado di impedire la perestrojka, che ha comunque portato il suo carico di novità e libertà. Ma sono riusciti a fermarla [...]. Forse il mio peccato è stato una certa ingenuità, l’utopismo. Mettevo sempre la democrazia al primo posto. Pensavo che il paese stava faticosamente facendo i primi passi in questo campo e doveva imparare che ogni conflitto può essere risolto con mezzi politici. Tornare ai vecchi metodi, alle epurazioni, era per me come accettare la sconfitta, cancellare quel che avevo fatto, tornare indietro. Per questo non allontanai Boris Eltsin. E fu un errore, giacché si rivelò poi un omuncolo, vendicativo, incapace di guardare lontano, un avventuriero. Ma anche lui è stato usato. Evidentemente, in Occidente si preferiva uno come lui [...] La perestrojka non era stata pensata solo per l’Urss. Nelle intenzioni, era una grande occasione di cambiare il mondo. Riformare l’Urss ma anche il resto del pianeta. Uscire dalla Guerra fredda, dalla filosofia del Muro, della Cortina di ferro, per approdare in un era di cooperazione. Cambiare un paese oberato di problemi difficilissimi e senza democrazia, era la prova che anche il mondo poteva farlo. Ma questo richiedeva uno sforzo collettivo. Che non c’è stato. I nostri amici americani si ricordano della cooperazione solo quando non sanno più che cosa fare. Dai tempi di Washington e di Jefferson la loro politica non è mai cambiata: l’America decide da sola, fa quel che ritiene opportuno per i suoi interessi, senza assumersi impegni verso nessuno. Neanche Roosevelt ha fatto eccezione e certo non Clinton che parlò addirittura di Secolo americano. L’unico che ebbe l’intuizione di un mondo inteso come un corpo solo fu John Kennedy. Ricordo bene il suo discorso del 1963 sulla pace che non può essere un ”pax americana”. Con lui io sono in sintonia. La perestrojka era scomoda per gli Stati Uniti, per la loro politica dei due pesi e due misure che non accetta neppur