Varie, 1 marzo 2002
GRAMELLINI
GRAMELLINI Massimo Torino 2 ottobre 1960. Giornalista. Della ”Stampa”. Ex direttore di ”Specchio” • «Qualcuno lo considera l’erede di Michele Serra. La rubrica di Massimo Gramellini, ventidue righe, ogni giorno sulla prima pagina della ”Stampa”, è di quelle che possono uccidere. Guai a quel politico che entra nel suo mirino. Non importa essere di destra o di sinistra. Gramellini non sta da nessuna parte. Ma si diverte di più con la sinistra. Certa destra, dice, fa satira da sola. Basta guardarla per ridere. La sinistra no, si prende troppo sul serio, è permalosa. Veltroni per esempio... [...] ”Ero bravissimo in italiano. E solo in italiano. La maestra si chiamava Olga, come le donne della steppa. Era ipercomunista, Ci spiegava che gli americani erano cattivi perché uccidevano in Vietnam. Ma mio padre era filo-americano e mi diceva il contrario. Sono cresciuto in un clima bipartisan: maestra sovietica e papà yankee [...] Il liceo? A Torino, al San Giuseppe, scuola di preti, compagni ricchi. Di colpo mi sono trovato come Calimero, il pulcino tutto nero [...] Mio padre diceva che le scuole pubbliche erano piene di comunisti e di spinelli. C’era un prete professore che ci iniziava alla politica. Diceva: ”Ricordatevi: se siete di destra dovete votare un democristiano di destra, se siete di sinistra, un democristiano di sinistra purché sia Dc, contro l’aborto, contro il divorzio [...] Facemmo uan finta votazione. Era il ”78. Scrivemmo sulla lavagna i risultati. ”Pr: nove voti’. Il professore disse: ”Non ho nulla contro i repubblicani: anche se sono laici e massoni’. Uno disse: ”Professore, Pr vuol dire radicali’. Lui gridò: ”Pannella noooo!’. Ebbe un mezzo collasso. [...] Per me la parola libertà è sempre stata piena di fascino. [...] A 18 anni il mio mito non era Che Guevara, ma Montanelli. Avevo in casa un suo vecchio libro, Lettere a Longanesi, raccolta di tutti gli articoli scritti negli anni Cinquanta. [...] Io leggevo uno di questi articoli, poi chiudevo il libro e provavo a riscriverlo. Con esiti disastrosi [...] Mito assoluto Dustin Hoffman. Avrò visto 40 volte Il laureato. C’è quella frase che lui dice alla ragazza togliendosi gli occhiali neri: ”Io non sono così, anzi così mi faccio schifo’. Anche a me piacerebbe dire una frase del genere prima o poi [...] Primo giornale? Il ”Corriere dello Sport’. Il mio primo caposervizio, Enzo D’Orsi, appena mi vide disse: ”Non ti pagheremo niente, non hai nessuna possibilità di essere assunto e comunque sappi che fare il giornalista è un lavoro di merda. Accetti?’ [...] Al ”Corriere dello Sport’ ho conosciuto Curzio Maltese. Li è nata la nostra amicizia. Io scrivevo anche per il ”Giorno’. Il capo dello sport era Franco Grigoletti, un ex cestista alto due metri, stalinista pazzesco, personaggio meraviglioso. [...] Fu lui che mi offrì il primo contratto regolare [...] Mi sono divertito tantissimo. Ho fatto esperienza e ho perso quasi tutti i capelli. Mi facevano fare il turno di notte anche per sette giorni di seguito. Poi andai alla ”Stampa’. Nella redazione romana. All’inizio ancora sport, poi attualità, politica, televisione. Era l’epoca del mielismo. Io ero l’esperto del dice-dice. [...] Il trucco era crearsi un giro di dichiaratori fissi. [...] Mi piace Serra, qualunque cosa scriva. Alcuni suoi pezzi li ricopio, a mano, per studiare il suo metodo, i suoi ritmi. [...] Serra ha una scrittura talmente straordinaria ed essenziale che è irresistibile anche quando fa i pezzi da santone. Succede anche a me che mi considerino quello che fa ridere. Ero ad Atlanta quando scoppiò la bomba alle Olimpiadi e Gad Lerner al telefono mi disse: ”Mi raccomando, non fare un pezzo da ridere’”. [...]» (Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette” n. 19/2001) • «Autore satirico. Ha inventato un nuovo genere giornalistico che miscela l’acuta capacità descrittiva con la ferocia della notazione psicologica. Memorabile il suo reportage dall’America con Walter Veltroni e Chicco Testa alle prese con una chiattona giapponese arrapata. […] Pare non si sia accorto del cambio di direzione del suo giornale, la ”Stampa”. Non gli hanno detto che Marcello Sorgi è il nuovo re di via Marenco […] E ogni volta che Carlo Rossella lo cerca crede sia per fargli fare un articolo indeterminativo sul disagio culturale di Carlo Freccero. Vanta, come la Settimana Enigmistica, innumerevoli tentativi di imitazione. Il più pervicace pare sia Curcio Maltese. Non quello che è uscito di galera. Un altro» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 17/10/1998) • Sul ”Giorno”: «Ogni tanto persino un giornale riesce a diventare oggetto di culto. «Il Giorno” di Enrico Mattei lo è stato. Giusto mezzo secolo fa. Ho avuto la fortuna di afferrare la coda di quel sogno. Per due stagioni, quelle del mio apprendistato, ho frequentato da torinese in trasferta le sue stanze, perdendovi il sonno e i capelli, ma imparando i rudimenti di un mestiere. Scorreva la parola fine sugli Anni Ottanta della Milano da bere. ”Il Giorno” era già una nave in burrasca e assumeva i ragazzi perché i grandi vecchi lo avevano abbandonato. Rimanevano i loro articoli. La notte mi intrufolavo in archivio a scorrere lo schedario ”A-Aspesi, B-Brera, C-Clerici...” e ogni lettera era qualche mito vivente del giornalismo che si materializzava davanti agli occhi. Rileggevo le splendide inchieste del giovane Giorgio Bocca, che il direttore Italo Pietra gli faceva riscrivere più e più volte (ottima abitudine andata perduta). E l’edizione speciale sull’attentato di piazza Fontana, quando ”Il Giorno” aveva spedito per strada tutti i giornalisti, compresi gli sportivi e l’esperto di gastronomia, e ognuno era rientrato alla base con una testimonianza unica: ne era venuto fuori un giornale irripetibile, orchestra polifonica di punti di vista. Riempita la pancia di emozioni, tornavo in redazione a imparare la difficile arte dei segni (titoli, occhielli, didascalie) che ”Il Giorno” degli esordi aveva dominato come nessun altro e ancora sopravviveva nel ”Dna” dei vecchi capi, inflessibili nel respingere senza neppure leggerli quei titoli che non fossero stati ”cucinati” dall’autore per almeno mezz’ora. Altro retaggio di un’epoca antica in cui la vita scorreva più seria, perciò più allegra, e mica solo sui giornali» (Massimo Gramellini, ”La Stampa” 20/4/2006).