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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

GUCCINI

GUCCINI Francesco Modena 14 giugno 1940. Cantante. Autore. Scrittore • «’Mi piace considerarmi un poligrafo. Mi affascina la materia narrativa, il piacere del raccontare, di sperimentare nel linguaggio, muovere le pedine sul foglio o tra le note. Mi piacevano fin da ragazzino, quando sognavo di fare il giornalista, e l’ho anche fatto per un po’, nella mitica ”Gazzetta di Modena”, subito dopo il diploma delle magistrali, che avevo preso non tanto per vocazione all’insegnamento quanto perché si finiva un anno prima, e a casa c’era bisogno che cominciassi a lavorare presto. Ricordo che mi fecero scrivere il primo articolo su una certa suor Eustacchio Maria Peloso, che festeggiava i 50 anni dei suoi voti, e io che sognavo i reportage alla Hemingway! Comunque, fra una cronaca locale l’altra, strimpellavo la chitarra che avevo comprato per cinquemila lire da un falegname di Porretta Terme. Da noi, in Emilia, si nasce e si cresce in famiglie canterine, con la passione per la musica e per l’ascolto: è una sorta di patrimonio genetico, che ti appartiene. Con gli amici avevamo messo su una specie di complesso, ”I gatti”, e ci esibivamo all’osteria delle Dame, a Bologna, e intanto portavo avanti anche l’Università: mi ero iscritto a lettere, e nel ”70 avevo dato tutti gli esami. Poi, alcuni anni fa, proprio quando mi era tornata la voglia di una laurea da incorniciare, mi dissero che avrei speso circa dieci milioni per iscrizione e documenti e tutto il resto: allora decisi che me li sarei goduti di più all’osteria. E ho rifiutato anche la laurea ad honorem: non ha senso”. Scrivere, dunque, era il suo mestiere. Insieme agli articoli per la ”Gazzetta” cominciò anche con le canzoni: la prima fu Auschwitz, cantata dall’Equipe ”84, e subito dopo Dio è morto, portata al successo dai Nomadi, e nel 1967 incise il suo primo album, Folk Beat n. 1. Così cominciava il suo lungo percorso nella musica, nelle canzoni come dialogo, esternazione, poesia [...]» (Lucia Castagna, ”Sette” n. 5/1997) • «Il numero 43 è coperto da un rampicante, ma il portone è sempre quello, inconfondibile, la stessa abitazione di via Paolo Fabbri immortalata sulla copertina di quello che rimane uno dei più rinomati e celebrati dei suoi dischi. ”Erano case operaie dell’inizio del secolo, costruite sul modello di quelle inglesi [...] in un quartiere che si chiama Cirenaica, perché un tempo le strade avevano i nomi dei paesi coloniali, Palme, Bengasi, Libia, poi sostituiti da nomi di partigiani, come appunto Paolo Fabbri. Un tempo c’erano le cooperative, dai nomi molto espliciti, non so, c’era quella che si chiamava ”Sempre avanti’, e si capiva da che parte andava, ma anche quella che si chiamava ”Cristo vince’”. […] Riceve riconoscimenti ufficiali (un po’ come Dylan) da tutte le parti […] ”Pavana, Modena e Bologna sono i miei tre luoghi, quelli che conosco meglio. E non è che abbia visto così tanto. Io Roma l’ho vista per la prima volta nel 1970, ospite nel programma radiofonico Per voi giovani. […] Non riesco ad annoiarmi, trovo sempre qualcosa da fare, magari leggo per ore [...] Quando sono venuto a vivere a Bologna era molto diversa, meno traffico, la televisione si guardava molto poco, si poteva girare tranquillamente, non per far della retorica, ma era più umana, ora, venendo da un piccolo paese mi sembra il caos, anche se questo quartiere è ancora relativamente quieto […] Mia moglie Raffaella insegna alle medie e questi ragazzi non sanno proprio più scrivere, usano le parole come quando mandano i messaggi coi telefonini, al posto di ”perché’ scrivono ”Xke’ anche nei compiti in classe, c’è un decadimento, forse sono troppo impegnati in attività sportive e sociali, ma leggere non legge davvero più nessuno […] I miei concerti sono ancora molto affollati, e soprattutto di ragazzi, quindi la poesia interessa ancora… se poi ci sono meno belle canzoni credo dipenda anche dalle case discografiche. Di sicuro ci sono dei nuovi cantautori in gamba, anche se è difficile porsi come una voce nuova, dopo tutto quello che è stato detto e fatto in questi anni. Però ci sono, ma le case puntano su questi gruppi giovanili che fanno canzoncine che hanno pieno diritto di esistere, ma sono molto leggere, senza attenzione alle parole, agli argomenti […] Più o meno ho fatto quello che ho voluto, e al di là di eventuali meriti, sono stato fortunato. Quando andavo all’università pensavo a una carriera accademica. Fortunatamente ho cambiato strada... avevo fatto tutti gli esami, mancava solo la tesi, mi bocciarono solo in latino, sui paradigmi, e io ricordavo solo i più facili. Uno disse all’assistente: ”lo sa che questo ragazzo ha scritto quella canzone bellissima che si chiama Dio è morto?’ (era stata appena incisa dai Nomadi). L’assistente disse, ”Sì, bene, ma i paradigmi li chiedo a tutti’. E mi bocciarono. Allora le canzoni mi limitavo a scriverle. Prima le prendevano quelli dell’Equipe 84, poi i Nomadi presero Noi non ci saremo. Quando proposi Dio è morto quelli dell’Equipe non ebbero coraggio, poi quando scrissi Un altro giorno è andato dissero che ero finito. Invece i Nomadi accettarono Dio è morto, e grazie a loro ebbi un contratto come autore, poi Dodo Veroli, che produceva i Nomadi, mi chiese di provare a cantarle in prima persona e così feci il primo disco, era il 1967”» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 13/6/2002) • «[...] nell’inverno del ”64 sono venute fuori dall’amore che nasce un uomo, Noi non ci saremo e Auschwitz: ho ancora il testo su un foglietto a quadretti, stavo preparando non so quale esame. Auschwitz mi fu ispirata da un paio di libri, uno fotografico, Il flagello dell svastica, l’altro era E tu passerai per il camino. Allora ero sempre con la chitarra in mano stavo a casa con i miei, finito di mangiare mi mettevo in camera mia e venivano gli accordi. Ma anche La locomotiva viene da un altro libro, Trent’anni di officina di Romolo Bianconi, memorie di ex operai. Ne parlai con il mio vicino di casa, che inventò poi Il pensionato della canzone e lui mi spiegò che il protagonista era un anarchico, perché Bianconi non lo diceva. A quell’epoca si andava molto nelle osterie a cantare e si cantavano molto le canzoni degli anarchici, alla Petro Gori. E nella Locomotiva c’è la retorica dell’anarchismo di allora, la scrissi in mezz’ora, mi ricordo che prendevo appunti sul bordo del foglietto per non dimenticarmela. Suggerirei ai ragazzi che vogliono scrivere di esercitarsi con le rime: tutti gli adolescenti possono scrivere seimila poesie ma non ce n’è una valida [...] l’Avvelenata [...] All’epoca contestavano i cantautori. Io ebbi solo un breve episodio a Verona, in un teatrino, e mi arrabbiai. Un po’ fu questo, un po’ fu la critica malevola di Bertoncelli all’album Stanze di vita quotidiana: argomentò che io non avevo più niente da dire, ma sfornavo dischi per contratto. Pensi un po’. Ricordo che scrissi una strofa in treno mentre tornavo a Pavana [...]» (Marinella Venegoni, ”La Stampa” 30/11/1996).