Varie, 1 marzo 2002
GUERRA
GUERRA Tonino Sant’Arcangelo di Romagna (Forlì) 16 marzo 1920. Poeta. Sceneggiatore • «Il signore del cinema italiano. Lo sceneggiatore di cento e più film, il demiurgo di registi del calibro di Fellini, Antonioni, Petri, Anghelopoulos, Tarkovskij e dei fratelli Taviani, ma è da sempre anche un narratore e un poeta squisito, un disegnatore raffinato, un originale ispiratore per artigiani talentosi e creativi. Nonché l’inventore di strepitosi luoghi dell’anima. [...] Interprete ideale di quell’inno poetico alla romagnolità che è stato il felliniano Amarcord, vincitore dell’Oscar nel ”74[...] Vive in una casa arrampicata fra i giardini di Pennabilli, paesotto del Montefeltro, nella Val Marecchia, in terra già marchigiana. Un luogo della memoria per eccellenza dove lui inventa, progetta idee e le realizza, con la vitalità di un giovanotto. Racconta Tonino: ”Da bambino venivo qui con i miei genitori. Mamma e papà erano quasi analfabeti. Facevano gli ortolani e tutte le mattine alle quattro partivano da Santarcangelo, prima a cavallo e poi su un vecchio camioncino, per vendere frutta e verdura. D’estate, mi portavano con loro, per farmi respirare l’aria salubre della valle. All’epoca la paura-madre di ogni famiglia era la tubercolosi e l’aria buona veniva considerata un’ottima cura preventiva [...] Ogni tanto, vado a stare per qualche mese in Russia, a Mosca o a Pietroburgo. Mia moglie, Eleonora, è russa e, dopo l’abituale silenzio di questa terra, mi piace quella specie di sperdimento che mi prende in mezzo ai milioni di persone e alle centinaia di teatri di quelle metropoli [...] Per vent’anni sono stato a Santarcangelo, poi venni deportato in Germania. Dopo la guerra, quando sono tornato, mi resi conto che tutto era cambiato dalle sedie. Sì, proprio dalle sedie: la gente buttava via quelle di legno per quelle di ferro. Poco dopo arrivò la televisione e fu un disastro. Non ci si ritrovava più nella piazza del paese per scambiarsi occhiate e opinioni. La tv aveva chiuso le famiglie nelle case ed era tutto finito. Allora andai a Roma e ci sono rimasto trent’anni. Sono stato lo sceneggiatore di centoventi film, con moltissimi registi. All’inizio è stata dura e per i primi tempi ho fatto quasi la fame. In seguito è arrivato il successo, anche se rimanevo sempre lo sceneggiatore di qualcuno. Non avevo tempo per riflettere. Così, per tutti quegli anni, non ho più scritto un verso, né pubblicato un libro. Alla fine ho capito che dovevo considerare chiuso quel rapporto e mi sono allontanato da Roma e dal mio lavoro. Un’operazione pericolosa, voleva dire ricominciare da capo la vita [...] Ho ottenuto indipendenza creativa e la garanzia della presenza personale sui miei lavori: opere artistiche, pittura, fontane, ceramiche. Dopo la guerra avevo già pubblicato un paio di libri, poi più nulla. Ma, quando ho lasciato Roma, sono tornato a far crescere tutti i miei rami di partenza. Da ragazzino, per esempio, già disegnavo e avevo sempre avuto la passione della ceramica, che è riaffiorata potente. E ho ripreso a scrivere. Tutto in me è tornato e i miei libri sono stati tradotti in tanti paesi del mondo. Il che vuol dire che tengono compagnia. Io non invento trame per romanzi; vorrei che la scrittura fosse come il limone per la limonata; vorrei che i miei libri, stringendo le parole, facessero colare gocce di vita [...] Ho cominciato quando ero detenuto in Germania, nel campo di concentramento di Troisdorf. Tutte le sere i miei compagni di prigionia, romagnoli anche loro, mi chiedevano di poter ascoltare qualche racconto. Ma io non avevo neanche una matita, così cercavo di tirar fuori delle poesie, a voce, basandomi sull’endecasillabo, che si imprime meglio nella memoria ed è più musicale. Ricordo un giorno di Natale che non arrivò la broda perché si era ribaltato il camion che la trasportava. A sorpresa i romagnoli mi chiesero di preparare le tagliatelle, con le parole. Non mi ricordavo di mia madre che le faceva, ma mi sono messo lo stesso al lavoro e ho descritto il cerchio della farina. E poi l’acqua, il sale, il bicarbonato, tutto l’occorrente. Ho mescolato tutto, ho spianato la sfoglia, l’ho tagliata. Insomma ho fatto le tagliatelle di parole e ho cominciato a servirle. Finì che uno di loro volle il bis [...] Io sostengo da sempre che si mangia con gli occhi, oltre che con la bocca. E, con il mio lavoro, intervengo spesso per creare luoghi di accoglienza, un’altra cosa rispetto ai luoghi dell’anima che sono suggerimenti poetici e preziosi [...] Il mare è soltanto a una decina di chilometri da Santarcangelo, eppure da ragazzo l’ho visto poche volte. Quando ero bambino capitava che ci scaricassero dai cavalli direttamente sulla sabbia, come fossimo bestie. Ma allora, a ripagarci, c’era un senso di infinito che poi si è perso e io ricordo quanto fosse importante per gli occhi quell’immensità. Più grandicello ci sono tornato in bicicletta; c’erano gli orti e noi ragazzi camminavamo scalzi sull’insalata fino ad arrivare alle dune di sabbia infuocata”» (Silvana Mazzocchi, ”la Repubblica” 9/8/2003).