Varie, 1 marzo 2002
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Hingis Martina
• Kosice (Slovacchia) 30 settembre 1980. Ex tennista. Svizzera. Si ritirò ad inizio 2003 (appena ventiduenne) dopo aver vinto cinque titoli del grande slam: 3 Australian Open (1997, 1998, 1999), un Wimbledon (1997), un Open degli Stati Uniti (1997). Sette volte sconfitta in finale: tre agli Australian Open (2000, 2001, 2002), due al Roland Garros (1997, 1999), una agli Us Open (1997) • «Il 31 marzo del 1997 era diventata la n. 1 del mondo, la prima ad arrivare tanto in alto a sedici anni, sei mesi, un giorno. In quello stesso anno aveva mancato il Grande Slam, riuscito sin qui soltanto a Connolly, Court, e Graf, a causa di un cavallo. Appassionata com’è di ippica, il suo Montana l’aveva sbalzata di sella alla vigilia del Roland Garros. Operata ai legamenti, priva di allenamento, morta di fatica per un lunghissimo doppio disputato alla vigilia della finale, era riuscita a farsi battere dalla croata Iva Majoli, una brava ragazza che ancor oggi non si è ripresa dall’emozione, ed è ritornata più o meno felicemente tra le seconde file. Per continuare un attimo con gli archivi, va ricordato che nel ”98 una caduta e una distorsione alla caviglia sinistra le fecero perdere il primo posto che aveva tenuto per 80 settimane, e che riguadagnò nel ”99 e nel 2000. Fu nel 2001 che, dopo un inizio molto brillante, fu costretta dapprima a cinque settimane di riposo, infine a un intervento chirurgico alla caviglia, e a tre mesi di assenza. Risultato, una scivolata al numero 4, costretta ad assistere all’affermazione non solo delle Williams, ma di Davenport e al ritorno di Capriati. Apparentemente risanata, avrebbe vinto nel 2002 Sydney, mancato quattro match point nella finale dell’Australian Open contro Capriati, rivinto a Tokyo, per poi subire un paio di sconfitte dure da Serena, e fermarsi quasi tutta l’estate, per una frattura da stress a un piede. […] Noi, addetti ai lavori, stiamo a domandarci quali possano essere le autentiche cause dei dolori della giovane Martina. La caviglia, più volte operata, davvero malconcia. L’apparizione delle Williams, capaci di un gioco tipo wrestling, contro il quale la vecchia arte del tennis, l’intelligenza, il tocco, le geometrie, sono insufficienti. Oppure, la sorprendente presa di coscienza di non essere invincibile, come aveva sempre creduto. Sua mamma, Melanie Molitor, aveva infatti partorito Martina come un fenomeno da laboratorio, alla dottor Caligaris. Per offrire alla piccola possibilità allora inaccessibili ad Est aveva addirittura sedotto e impalmato un bravo svizzerotto di passaggio, Herr Hingis. Nella primavera del 1992, il vecchio scriba aveva per la prima volta ammirata Martina, su un campo secondario del Roland Garros, mentre, con cieca disinvoltura, dominava, nel singolare junior, un’avversaria diciassettenne, alta il doppio. Non poteva non riuscire, era destinata, e sottolineo destinata, ad affermarsi. Non vorrei ora ripetere la storia dell’amara parabola di altri bambini prodigio. Una capace di vincere cinque titoli dello Slam, più i quattro match point del 2002, non si può definire bambina prodigio. che lo sport di oggi, con inizi infantili, progettazioni fin dalla culla, impedisce spesso una ancorché giovane maturità. Le donne dell’età sua, di Martina, venivano altritempi definite ragazze da marito. La vita, e il suo mistero, stavano davanti a loro, ancora inesplorate. La Hingis ha già avuto tutto. Successo, denaro, amori. Mi domando se avrà mai avuto il tempo di rendersi conto di quello che le stava accadendo. E le auguro di cuore che la risposta non sia un no» (Gianni Clerici, ”la Repubblica” 17/10/2002). «In realtà, s’era già ritirata il 30 gennaio del 1999. Quel giorno la regina, computerino d’anticipo e acumetattico-tecnico, vinceva l’ultimo dei cinque titoli dello Slam piegando di testa, prima ancora che di tennis, la muscolosa amazzone di Francia, Amelie Mauresmo. Ma era l’ultima volta che il fioretto batteva la spada. Da allora la slovacca, naturalizzata svizzera, ha trovato sempre più problemi, lei, vaso di coccio (alta 1.70 per 59 chili), costretta a viaggiare con troppi vasi di ferro: dalla Davenport alla Capriati, dalle sorellone Williams alle valchirie dell’Est europeo. Ha insistito, orgogliosa e testarda, perdendo ogni giorno credibilità e sicurezza, e segnalandosi solo per la regolarità a livello medio-alto, non più per i successi. Ha fallito ancora l’assalto al tabù Roland Garros (l’unico Slam che manca alla sua collezione doc), agli Us Open e poi addirittura per tre anni di fila agli Australian Open, su quello stesso cemento gommoso (rebound ace) che s’era fatto impiantare sul campo di casa. Perdere una finale già vinta, con l’avversaria in pugno, sul 6-4 4-0 e poi con 4 match point, non era da Hingis: al di là della Capriati e del sole di Melbourne. L’ultimo sfregio al suo immenso ego, già umiliato e segnato in modo irreversibile nella famosa finale di Parigi ”99. Quando, troppo sicura di sé, perse incredibilmente il controllo e finì – in lacrime – in balìa della vecchia volpe Staffi Graf, del pubblico e delle sue emozioni. Una pagina tristissima, almeno come la follia del ”97 quando non solo fece la sciocchezza di correre a cavallo prima di Parigi – e quindi di cadere, farsi male e subire un’artroscopia a un ginocchio – , ma poi volle giocare anche il doppio e finì per regalare il titolo a Iva Majoli. Negandosi quel Grande Slam che l’avrebbe resa immortale, e che ora resta come l’incompiuta di una carriera incompiuta. Perdere a certi livelli non è possibile, come sottolinea lei stessa: ”Quando sei stata numero uno per 4 anni non puoi accontentarti di meno”. Perdere contro i muscoli e non contro la tecnica. Perdere sempre le partite importanti nei tornei importanti. Perdere l’etichetta di prima della classe, e quel sorrisetto sardonico con cui irrideva le avversarie. No, Martina Hingis, così chiamata dall’asfissiante mamma Melanie Molitor – allenatrice-mentore-amica-tutto – per ricalcare le imprese della grande Navratilova, non poteva accettarlo. Neanche per il grande amore per il tennis e per la ribalta. anche vero che la sua minuta carrozzeria ha cominciato a scricchiolare già dalla fine del ”98, come la sua sicurezza. Che non potendo metter su altri muscoli conosceva per la prima volta un violento senso di frustrazione. Che le due operazioni ai legamenti delle caviglie, a destra nell’ottobre 2001, a sinistra nel maggio 2022, avrebbero minato chiunque. Sostiene Martina: ”I miei piedi non mi permettono più di allenarmi come e quanto vorrei. Sono stata abbastanza al top per sapere esattamente cosa devo fare e so oggi di esserne incapace. Ho dovuto interrompere gli allenamenti perché la mia salute non mi consente di far di più. Non gioco tutti i giorni, quando lo faccio resisto due ore, poi sento dolore ai piedi”. Ma pochi le credono veramente: chi pensa a una scusa, chi a una tattica nella causa miliardaria con l’ex sponsor Sergio Tacchini. Le cose sarebbero andate diversamente se la sua carriera non fosse stata tanto stressante, tecnicamente, mentalmente e fisicamente, sin dai 12 anni, quando scalzò Jennifer Capriati dal trono di più giovane regina del Roland Garros under 18. Se il suo gioco le avesse garantito quei punti facili dal servizio e dai colpi- base. E se la corsa sfrenata verso i record non si fosse interrotta troppo bruscamente, dopo 4-5 anni alla grandissima. Perché quella di Martina Hingis sembra quasi la storia di una ginnasta, non di una tennista. E forse sarà anche l’ultima storia di una bambina prodigio in questo sport, dopo i clamorosi successi di Venus e Serena Williams che hanno saltato tutta la fase juniores. Perché, quand’è diventata donna, la Hingis ha smesso di vincere fra le donne: lei è diventata grande d’età ma non di stazza, mentre le altre sono cresciute sempre più in palestra per un tennis da un colpo e via: una gran mazzata di servizio, una bella botta di dritto o di rovescio, e poi ancora a tutto braccio alla prima palla corta, attaccabile. Proprio come avviene fra gli uomini, con relativa esaltazione dei fisicacci e delle meteore, e relativo tramonto delle personalità e degli artisti. Martina non aveva più scampo. Le altre l’avevano fotografata, le entravano sistematicamente nella seconda di servizio (troppo deboluccia) e spesso anche nella prima, le toglievano il tempo, le soffocavano la creatività nelle famose ripartenze: quando trasformava con irridente facilità un’azione difensiva in una offensiva, con quegli schiaffetti alla palla che non vedremo più. Addio, tennis crudele: Martina Hingis si butta negli studi. E non vince neanche l’ultima partita: c’è chi s’è ritirato più giovane di lei» (Vincenzo Martucci, ”La Gazzetta dello Sport” 8/2/2003).