Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  marzo 01 Venerdì calendario

HOBSBAWM Eric J. Alessandria d’Egitto (Egitto) 9 giugno 1917. Storico • «Il maggior storico britannico, autore della gigantesca storia della rivoluzione industriale

HOBSBAWM Eric J. Alessandria d’Egitto (Egitto) 9 giugno 1917. Storico • «Il maggior storico britannico, autore della gigantesca storia della rivoluzione industriale. […] Il suo fascino sta nella sua scrittura. Sarà un grande storico, figurarsi, ma è di sicuro un ottimo narratore […] Cresciuto a Vienna e “convertito al comunismo” nella Berlino del 1932, prima dell’emigrazione in Inghilterra» (Alessio Altichieri, “Corriere della Sera” 15/9/2002) • «Tutti sanno che non ha mai ripudiato la sua fede politica comunista. Ma pochi conoscono l’intensità dei legami anche personali che gli rendono cara l’America, paese che l’ha accolto nelle sue università e nel dibattito culturale quando in Urss i suoi lavori non venivano pubblicati perché non ortodossi» (Antonio Polito, “la Repubblica” 18/9/2001) • «Genitori ebrei. Suo padre, Leopold Percy Hobsbaum (il cognome fu alterato per un errore anagrafico) era inglese, figlio di un ebanista polacco, e sua madre, Nelly Grün, era viennese, figlia di un gioielliere. Quando Eric compì quattordici anni, erano entrambi deceduti e lui e la sorellina furono affidati a uno zio. Un anno dopo a Berlino, la città più antisemita d´Europa, Hobsbawm scoprì il comunismo; Hitler era alle porte. Di quel periodo racconta: “In Germania non c’erano alternative. Il liberalismo era vinto. Mi rendevo conto che se fossi stato tedesco e non ebreo, avrei potuto diventare nazista, un nazionalista tedesco. Capivo come essi fossero ossessionati dall’idea di salvare la nazione. In quel periodo non si pensava a un futuro possibile senza delle profonde trasformazioni nel mondo”. La famiglia non era praticante ed Eric si tenne lontano dal sionismo, pur non dimenticando mai l’avviso della madre, di non comportarsi mai come se si vergognasse di essere ebreo. Le sue radici mitteleuropee, il suo crescere peripatetico lo formarono all’anti-intellettuale schietto che è diventato. […] Il suo sguardo, che sopravvive oltre il “secolo breve” del quale è stato attento osservatore e che costituisce il tema del suo libro più celebre, rimane fedele all’impegno preso quando diventò membro del Partito comunista inglese. Era studente a Cambridge, di lì erano appena passati Burgess e Maclean, Philby e Blunt. A quell’epoca risale la dicotomia che ha caratterizzato il suo lavoro, essendo politicamente affiliato al periodo del Fronte popolare e all’alleanza fra lavoro e capitale, ma rimanendo emotivamente legato al bolscevismo della sua conversione adolescenziale. La sua parabola è senza rimpianti. Egli spiega come e perché sia rimasto sempre fedele al Partito, anche nei periodi più difficili, convinto che questa fosse la scelta migliore. La sua autobiografia è, nelle sue parole, una nota al margine della storia del XX secolo da lui scritta, che aiuta a spiegare i fatti oltre le esperienze dello storico. Un esempio è il jazz, passione di una vita per lui, che è stato per dieci anni anche critico musicale per il “New Statesman” con lo pseudonimo di Francis Newton. O i viaggi, in Italia, Spagna, Francia, e anche quelli in America, paese nel quale non riesce a rispecchiarsi. Comunista impenitente, guarda al passato con stupore più che con nostalgia: “Stupore che non solo io, ma l’umanità intera sia sopravvissuta agli ultimi cento anni”» (Pico Floridi, “la Repubblica” 18/10/2002) • «Non ha cambiato idea: resta sempre, forse con un pizzico di provocazione, l’irriducibile storico marxista, il “comunista” non pentito, lo storico che si permette affermazioni piuttosto crude come quella che il governo israeliano starebbe facendo, nei territori palestinesi, una “pulizia etnica”. Ma Eric Hobsbawn [...] resta il grande maestro di molte generazione di storici anglosassoni, soprattutto negli studi sociali. Il fatto che gli sia stato conferito il premio Balzan, prestigioso e non certo “ideologico”, potrà forse creare qualche discussione accademica: ma nell’ammirazione per lo studioso inglese, come si è sentito in dovere di sottolineare Vittorio Mathieu, che è nella giuria (di cui è presidente Sergio Romano), non deve far velo la patina ideologica. Che ci sia, comunque, è indubbio. E che Hobsbawm la rivendichi ormai non stupisce. “Sono stato un membro leale del partito comunista per due decadi prima del 1956, e perciò silenzioso su un certo numero di cose a proposito delle quali non è ragionevole esserlo”, ha spiegato, aggiungendo di non essersi mai ritenuto stalinista. [...] Il suo silenzio venne bollato da Amis come “disgraceful”, vergognoso. Lo storico non replicò se non con un’alzata di spalle. [...] Insiste sul fatto che “per ovvi motivi la storia, e in special modo la storia europea dal 1900, è un campo influenzato in maniera particolarmente pesante da emozioni e partiti presi, a livello nazionale, politico, religioso, ideologico e così via. Pochissimi sono gli storici di tale periodo - e sicuramente non io - che affermerebbero di non aver condotto le loro ricerche sul ventesimo secolo sine ira et studio, e se lo affermassero non gli crederemmo”. [...] Il vecchio tarlo della sempre rinviata traduzione in francese del suo libro più noto, Il secolo breve, il più letto, citato e contestato, soprattutto per la sua tesi secondo cui l’Unione Sovietica ha avuto un ruolo molto positivo almeno nello stimolare le riforme sociali in Occidente, costringendo il sistema capitalistico sulla difensiva, nel quadro di un progresso dell’umanità piuttosto cospicuo, nato dal fatto che tutti avremmo imparato durante la guerra fredda a vivere “nell’attesa dell’Apocalisse”. [...] Quello della democrazie, e dei “particolari tipi” di essa, è un tema molto affrontato da Hobsbawm, quando enuncia per esempio i suoi “paradossi della libertà”. In Gente che lavora rilegge l’amato Marx riconoscendo che respinse in modo specifico la “lingua” dei diritti dell’uomo, cui era “non solo indifferente, ma fermamente contrario”. Questo ha implicato conseguenze “di ampia portata” per i cittadini degli stati comunisti, anche se non si può dedurre da ciò - secondo Hobsbawm - che ci sia una “incompatibilità permanente dei regimi marxisti con i diritti legali e costituzionali del cittadino”. È vero però che se questi diritti si sono ampliati, fino alla dichiarazione universale dell’Onu, ciò si deve “soprattutto all’intervento storico del movimento dei lavoratori”. È un paradosso, come se ne esce? La prospettiva dello storico è sempre quella del Secolo breve, che mette però a fuoco una contraddizione vera e drammatica» (Mario Baudino, “La Stampa” 8/11/2003).