Varie, 1 marzo 2002
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Hockney David
• Bradford (Gran Bretagna) 9 luglio 1937. Pittore. «Uno dei maggiori artisti viventi» (Paolo Vagheggi), «capofila della pop art ”british” traslocata sulle strade della California» (Giuseppina Manin). « convinto della supremazia dell’arte figurativa. Dice che ”la lotta era sbagliata” ma che ”in fin dei conti qualsiasi cosa su una superficie piatta è un’astrazione”. E aggiunge: ”La pittura e il disegno sono delle forme d’arte antiche che risalgono a più di mille anni fa. Non possono scomparire facilmente e certamente, non possono neppure essere rimpiazzate dalla fotografia. La fotografia ha forti limitazioni e non può sostituire la pittura. [... ] Il problema è come definire l’arte. Caravaggio, ad esempio, era criticato perché i suoi santi non avevano l’aspetto di santi, ma di persone comuni. Questa critica potrebbe riferirsi benissimo alla fotografia. Munch ha fatto un ottimo commento sulla fotografia dicendo che non può sostituire la pittura perché non può raffigurare l’inferno e il paradiso. Secondo me la fotografia ha avuto origine dalla pittura che per prima ha fatto uso delle lenti e ora sta tornando alla pittura. [...]» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 22/12/2003) • «’Non ho la minima idea di quale sia la differenza tra la mia pittura e quella pop. So che non provo nessun interesse verso la pop, assolutamente nessuno. Né per quella inglese né per quella americana”. Così David Hockney, da molti considerato per i suoi quadri con le piscine e le sue fotografie ”cubiste”, quasi un’icona dell’immaginario pop, si diverte a sorprendere i suoi interlocutori. [...] una lunga carriera tra Gran Bretagna e America che l’ha visto affermarsi prima come pittore, poi come fotografo e ora anche come scenografo [...] Nato nel 1937 a Bradford in Inghilterra, David frequenta il Royal College di Londra. ”Capii subito - racconta - che c’erano due gruppi di studenti: un gruppo tradizionalista che produceva nature morte, composizioni figurative e ritratti; poi c’erano quelli che io consideravo più avventurosi, più vivaci, più brillanti, che erano interessati all’arte contemporanea. Producevano grandi dipinti espressionisti astratti”. Dell’espressionismo astratto, così cupo e sofferente, tutto sgocciolamenti e sciabolate sulla tela, non c’è però traccia nel suo immaginario. I suoi quadri degli anni Sessanta, in cui compaiono pois e cuori, lettere e numeri, figure stilizzate vengono subito etichettati come opere pop. Anche perché sono gli esponenti del movimento inglese che Hockney frequenta in quegli anni. Ma a lui, come conferma ancor oggi, la definizione di artista pop non è mai andata giù. In America Hockney si trasferisce nel 1963. A Los Angeles realizza il suo personale ”sognando la California”. ”Dopo una settimana dal mio arrivo in questa strana, grande città dove non conoscevo nessuno avevo già preso la patente, comprato una macchina, guidato fino a Las Vegas e vinto dei soldi, affittato uno studio, cominciato a dipingere...tutto in una settimana. Pensai che era tutto proprio come me lo ero immaginato”. E a Los Angeles, ecco uno dei leit motiv della sua pittura: la villa con la piscina. In una delle sue opere più note A bigger splash (che ha dato il titolo al film realizzato sulla sua opera da Jack Hazan [...]) la piscina è deserta. L’unico abitante del quadro si è appena tuffato e ciò che resta dell’azione è soltanto lo spruzzo dell’acqua di cui pare di sentire il rumore. E poi ci sono i ritratti degli amici: indimenticabile resta quello di Christopher Isherwood, il grande scrittore inglese, autore di Addio a Berlino. Un altro tema dominante sono le figure sotto la doccia. In questi spazi sospesi può succedere tutto. Hockney ferma l’attimo. Il resto dipende dalla nostra immaginazione. ”Mi interessa molto - dice - la pittura orientale, perchè non ha ombre [...]”. [...] Hockney non ha prevenzioni verso le tecnologie: ”Rielaboro sovente le immagini al computer, in ogni tempo i pittori hanno usato strumenti meccanici. Il futuro della pittura è nella fotografia e nel computer” afferma. E sperimentando tecniche e materiali lui è riuscito a rinnovare proprio i temi più tradizionali della pittura dal ritratto al paesaggio alla natura morta. La prima scenografia e i primi costumi per il teatro li realizza nel 1966 per l’Ubu Roi di Alfred Jarry. Dopo ne ha eseguiti moltissimi per i maggiori teatri dell’Opera del mondo. ”Ma di opere italiane ne ho messa in scena solo una, Turandot di Puccini”. E la musica ha importanza nella sua produzione pittorica? ”Non ho mai realizzato un quadro ascoltando musica. La musica è una cosa, la pittura un’altra. Se dipingo per il teatro invece la musica è l’ispirazione necessaria. Io amo molto il teatro, ma ho sperimentato anche che è un grande compromesso: c’è la parte musicale, ma anche il regista, il direttore d’orchestra, il libretto, gli interpreti. Tutte cose che devono accordarsi. Per questo io adoro lavorare a teatro, ma quando ho finito sono ben contento di tornarmene nel mio atelier, alla libertà della mia pittura. Ora sono tornato in Inghilterra e in questo momento lavoro nello Yorkshire”. Gira anche film come Un giorno sul gran canale con l’imperatore della Cina, dedicato ad un’opera dipinta dal pittore orientale Wang Hui, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo [...] ”Ho amato molto il teatro anche se adesso che non sento più molto bene non posso più creare scenografie e costumi come un tempo. Perché dipingere per l’opera significa seguire la musica. Ho sempre fatto di tutto per non tradire mai la verità dei suoni”» (Lea Mattarella, ”La Stampa” 26/5/2004) • «[...] Oggi siamo abituati a considerare David Hockney [...] un grandissimo, al di là di ogni obiezione, un artista da tutti riconosciuto e omaggiato. Ma la sua carriera è stata tutt’altro che facile. Un critico importante come Douglas Cooper lo riteneva disinvoltamente un minore assolutamente sopravvalutato, spesso il Times lo accusava di essere un frivolo mondano superficiale e nulla più: erano gli anni duri dell’avanguardia, del resto, in cui già disegnare un naso ben fatto corrispondeva a tradire l’eroismo duro e imperante della trasgressione [...] Hockney, che teneva ben salda la matita del suo prodigioso virtuosismo tecnico (o artigianale, come si disprezzava allora) era per definizione un traditore, un fuori gioco da demonizzare. Basterebbe paragonare la sua paglietta da clown, da Chevallier, al feltro sciamanico di Beuys, per capire la sua diversità. Oppure quelle esagerate lenti gigantesche, da doppio Le Courbusier, lui che predicava ”bisogna imparare a guardare”. O la divertita capigliatura: paglierina, rispetto a quella gelida, inespressiva di Andy Warhol. Figurarsi dunque un giovane, spiritoso e dandy, che aveva il coraggio provocatorio di firmare una serie di opere dal titolo allusivo di Dimostrazioni di versatilità, specchio della propria disponibilità a un mutevole matrimonio di stili, a seconda del soggetto. Oppure Erezione, o il Ragazzo più bello del mondo, confessione insieme di spavalda diversità, di apprezzamento del Bello da tutti demonizzato e di una pittura, che voleva essere personale, intima, descrittiva come una pagina di diario. vero, firmava anche un’opera come Scontento crescente, in cui riversava e condensava nauseato tutti gli stilemi della scolastica avanguardistica, che pure aveva tentato di farsi piacere (e molto era rimasto influenzato dal rivale Bacon, che invece straziava le anatomie, affondava le figure in un gorgo senza ritorno). Ma proprio quel quadro-sintesi era un modo di prender congendo da delle striscianti, oppressive imposizioni che aveva deciso di allontanare da sé, appunto scontento. Disegnò così, nel ”59, uno scheletro, perfettissimo e rarefatto, che era anche il suo modo di ripartire da zero. indubbio: aveva intorno a sé degli amici che si chiamavano Allen Jones, Peter Blake, R. B. Kitaj, ribelli come lui alla koinè avanguardistica, e come lui impegnati in una nuova sintesi narrativa del quadro (riabilitando per esempio l’uso di titoli allusivi, in contrasto con l’epoca dell’action painting, che prediligeva i più asettici Tela n. 3 oppure Senza titolo). Era immerso in un clima di riesame, in cui le immagini riconoscibili tornavano timidamente a farsi apprezzare, ma sarebbe un errore considerarlo, come spesso è stato fatto, un artista pop. Non vuole protestare contro le cose -prodotto, lui: la sua pittura non ha un’intenzione sociale, di rifiuto e sarcasmo. Hockney non dipinge che le cose che ama, gli amici (come lo scrittore Isherwood o gli dèi umanissimi e culturisti del suo Olimpo trapiantato sopra una piscina californiana), i tulipani bianchi, le vetrate invalicabili, gli amati libri, su Vermeer o Degas, di cui non è difficile distinguere la copertina-feticcio. Forse è più vicino a certe soluzioni dell’iperrealismo, anche se la sua pittura non vuole essere mimetica, asettica. Semmai è una pittura di pittura, ridipinge il mondo come se fosse un’infinita fotografia senza scatti, dilavata di ogni esattezza: è il mondo come l’ha sentito la sua affettività [...] Hockney ha coniato una definizione che risulta illuminante: ”La tecnologia ci va restituendo l’assetto intimo dell’arte, che la prospettiva classica ci ha fatto perdere”. Per questo [...] ha potenziato il suo lavoro di fotografo, un fotografo singolare e antioggettivo, che monta insieme in un collage miradi di fotografie in sequenza, per riottenere sulla tela l’illusione di una visione globale, complessiva, ”umana”. Esemplificata dalle enormi voragini ottiche dei suoi abissali Grand Canyon [...] Hockney, che ha sempre denunciato la sua devozione per Picasso (in un’incisione esemplare si è presentato nudo e vulnerabile al suo cospetto, oppure umilissimo, la cartella dei disegni sotto braccio, in adorante attesa del responso del busto trionfante del Dio spagnolo) ebbene di Picasso ha un’idea molto originale e rivoluzionaria, che in fondo condivide soltanto con Gertrude Stein. Picasso non è, come ha voluto la tradizione critica, il grande pioniere della via maestra delle avanguardie: la via formalista e astratta, antifigurativa. Picasso è un ultrarealista che deforma la realtà perchè così vede il mondo, vicino agli occhi, vicino al naso, potremmo dire, del suo sguardo impegnato in un’ennemia battaglia erotica coi suoi modelli [...] la teatralità del mondo di Hockney, che fa muovere i suoi angeli vitaminizzati come felpati ectoplasmi in un acquario privo del sonoro. come la versione androgina e maschile dei giardini incantati del simbolista Maurice Denis, delle piazze ateniesi di Delvaux, abitate da kouroi allevati nelle palestre di Palm Beach. E il suo mondo è tutto assiepato di sipari mascherati: vetrate, tendaggi, cavalletti, fiotti scroscianti di docce. Come ha osservato Marc Fumaroli: ”i suoi personaggi si lavano per diventare delle immagini”. Delle icone moderne, potremmo convenire. Icone ironiche, amichevoli. E non è un caso che ispirandosi all’antico, Hockney abbia scelto la penna corrosiva e moralista di Hogarth, soprattutto per la sua prima, memorabile, scenografia teatrale, La carriera di un libertino, musica di Stravinskij. Perché in fondo Hockney pasticcia la tradizione, come Stravinskij ha fatto con la musica di Pergolesi o del Settecento italiano. A teatro, Hockney ricostruisce una realtà fittizia, quasi uscisse da una tavola di enciclopedia, piatta e normativa, quasi un elenco. Eppure, diligente allievo di Picasso, quando affronta emotivamente altre opere più coinvolgenti, quali il Flauto Magico o Turandot, è un maestro nell’immergerci dentro questo clima di fiaba, adulta e persecutoria [...]» (Marco Vallora, ”Specchio” 20/11/1999).