Varie, 1 marzo 2002
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HOFFMAN Dustin Los Angeles (Stati Uniti) 8 agosto 1937. Attore • «Non sono molti, nella storia del cinema statunitense, i film che hanno segnato un’epoca come Il laureato (1967)
HOFFMAN Dustin Los Angeles (Stati Uniti) 8 agosto 1937. Attore • «Non sono molti, nella storia del cinema statunitense, i film che hanno segnato un’epoca come Il laureato (1967). Quando riceve l’incarico di adattare per lo schermo l’omonimo romanzo di Charles Webb, Mike Nichols - reduce dal successo di Chi ha paura di Virginia Woolf? - fa provini ad una decina e più di baldi giovani: poi si rammenta d’un attore che aveva veduto recitare a teatro in Journey of the Fifth Horse e al quale aveva fatto un provino per The Apple Tree (preferendo, poi, affidare il ruolo ad Alan Alda). Comincia qui la fortuna di Dustin Hoffman. [...] Piccolo (non arriva ad un metro e 70), nervoso, caratterizzato da una inconfondibile voce nasale, Hoffman non ha certo i tratti dell’all American hero che appartengono alla tradizione divistica nazionale: egli annuncia piuttosto - per dirla con Emiliani - la comparsa di ”un singolarissimo modello antidivistico che è comunque uno degli ultimi esemplari dello star system e che incredibilmente riesce a convivere con altri prototipi coetanei o quasi come Jack Nicholson, Robert Redford, Gene Hackman”. Chiamato a trent’anni a rivestire i panni del baccalaureato Benjamin Bratten (che dovrebbe avere un paio di lustri in meno), Hoffman dà una prima, convincente prova della sua impressionante duttilità: egli conferisce al suo antieroe una vitalità mercuriale, contrappuntata costantemente da un senso di smarrimento, che a sorpresa fa capolino dal suo sguardo pure nell’ultima inquadratura, dove Ben ed Elaine sono infine riusciti a fuggire dal luogo delle nozze salendo su un autobus. Nel tempo, egli andrà affinando questa capacità di ”plasmare i suoi personaggi, anche da un punto di vista anatomico, operando su di loro un lavoro di smontaggio e ri-costruzione della figura”: sino a passare, in assoluta souplesse, dallo sciancato ladruncolo dell’Un uomo da marciapiede (1969) di John Schlesinger all’ultracentenario protagonista del Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, dal timido professore a lenta combustione del Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah all’entertainer trasgressivo di Lenny (1974) di Bob Fosse, dal reporter sulle tracce del Watergate di Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan Pakula allo studente ebreo nel mirino nazista del Maratoneta (1976) di Schlesinger. I due Oscar della sua vita li vince nella parte di premuroso papà divorziato (ben) recitata nel pur melenso Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton e nelle vesti dell’idiot savant virtuosisticamente schizzato in Rain Man (1988) di Barry Levinson. Nell’ultimo quindicennio, Hoffman s’è dedicato al teatro, ad esempio rendendo superbamente lo Shylock dello shakespeariano Il mercante di Venezia sui palcoscenici di Londra e Broadway: magari per consolarsi, pure, della routine alla quale il cinema l’ha nel frattempo costretto, con sdrucite pellicole di genere che poco aggiungono al suo splendido itinerario artistico» (Francesco Troiano, ”La Stampa” 29/2/2004). «Tra i grandi attori (di genere maschile) della generazione emersa tra la fine anni 60 e l’inizio dei 70, quella che ha ”interpretato” il nuovo pubblico dei campus in rivolta e del Vietnam, quella che ha preparato e accompagnato la nascita di una New Hollywood - con lui Nicholson e Redford, subito dopo Pacino e De Niro - è quello nel cui percorso c’è meno continuità, resistenza, crescita. Nessuno come Al Pacino è migliorato invecchiando, Robert Redford ha diversificato il suo impegno trovando un nuovo protagonismo come scopritore di talenti, Nicholson e De Niro - pur gigioneggiando a tutto spiano, nel compiacimento dell’autocitazione - hanno continuato a creare personaggi incisivi. Hoffman, che più di tutti ha segnato un’epoca - con il Benjamin del Laureato e con il piccolo perdente di Un uomo da marciapiede, con Lenny e con il Carl Bernstein di Tutti gli uomini del presidente - ha chiuso la parabola della sua migliore creatività nell’arco dei primi vent’anni. Dopo le grandi conferme di Il maratoneta, Kramer contro Kramer e Tootsie (sempre di più un cinema certamente non ”off”, che l’attore non ha mai fatto, ma di altissima classe), fino al simbolico passaggio di consegne di Rain Man. Quando, siamo alla fine degli anni 80, investe la nuova star Tom Cruise. Ciò che è accaduto dopo, che pure è tanto, non rimane impresso nella nostra memoria» (p. d’A, ”la Repubblica” 16/4/2003). «Io vengo dalla cosiddetta età dell’oro del cinema, anche se all’epoca non sapevamo affatto che lo fosse. Anzi allora quelli della Hollywood degli anni ”40 e ”50 ci prendevano in giro e accusavano la mia generazione di rovinare il cinema americano, di distruggere lo ”studio system” che aveva reso Hollywood famosa: ci imputavano di fare film ”disgustosi” come Un uomo da marciapiede e Easy rider. La roba che vedo al cinema oggi mi fa capire che lavorare bene non conta nulla. Oggi gli Studios, quando lanciano un film, vogliono guadagnare il massimo nel primo weekend di uscita: significa che devono fare promozione per un certo pubblico di ragazzini e spendere 50 milioni di dollari solo per promuovere e lanciare un film. Il gioco è cambiato rispetto ai miei tempi, così mi sono tirato indietro. […] Adoro Johnny Depp, sono pochi gli attori di oggi che come lui cercano di fuggire dal ruolo di star e non permettono a nessuno di derubarli dell’anima. Per gli attori giovani in questo mondo è dura: oggi per anni cercano di fare un film e appena ottengono un po’ di fama rischiano la distruzione perché i loro agenti gli propongono solo film d’azione, con budget dai 60 milioni di dollari in su: è una follia. Io sono stato fortunato. […] La famiglia è sempre stata una parte fondamentale della mia vita, porto a scuola i figli, vado a letto presto, in genere sono già a letto quando i ragazzini mi vengono a dare il bacio della buonanotte. Quando non sono via per lavoro ceniamo insieme ogni sera, non siamo mai stati separati più di tre settimane. I miei figli mi accusano di non avere amici ma è perché non ho tempo, voglio stare a casa con loro. Non è sempre stato così. Il successo mi ha baciato a 30 anni e il testosterone di quell’epoca mi ha travolto. Una sera, quando lavoravo con Sam Peckinpah a Cane di paglia, abbiamo discusso del film fino alle due del mattino; non mi sono presentato a cena con mia moglie e i miei figli, e quando si è lamentata le ho detto: ”Il mio lavoro è la mia amante!”. Si arriva al punto in cui non ci si sente più in obbligo nei confronti dei figli quando partecipano alla recita scolastica o quando fanno i compiti. Sarà l’andropausa, ma una mattina ci si sveglia e si capisce che la moglie e i figli sono più importanti di qualunque altra cosa. La famiglia, non l’arte, è la vita» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 15/9/2002). «Quando fai il cameriere, come ho fatto io per 15 anni, dentro resti sempre un cameriere […] Tootsie è il film a cui sono più legato, ha allargato il mio orizzonte sulle donne […] Fellini mi propose La città delle donne. Io dissi: ”Te lo faccio gratis, ma senza il doppiaggio”. Mi rispose che non era il suo metodo di lavoro. La cosa finì lì. Mi è dispiaciuto molto» (Valerio Cappelli, ”Corriere della Sera” 3/2/2002). «Sono cambiato. Oggi non guardo tanto alla sceneggiatura, se è offensiva secondo il mio metro di giudizio o se ci sono problemi nel terzo atto, come in tutti i copioni, o se il secondo atto non funziona, tipico del secondo atto. Le critiche arriveranno comunque, se ti piace, se non ti piace, se funziona o se non funziona […] Sinceramente non credo che oggi come oggi il mio nome abbia molto a che fare con i finanziamenti. Oggi chi ha i soldi guarda in un computer, vede le ultime foto, calcola il rendimento, e determina il valore di botteghino di un attore, non in base alla carriera che ha alle spalle, ma all’ultima performance. Ci sono pochi attori, come Julia Roberts o Tom Cruise, che vengono definiti apripista, nel senso che il primo weekend garantiscono il pieno nelle sale. Non credo di avere molto a che spartire con tutto questo. […] Non ho vissuto in molti posti diversi. Sono cresciuto a Los Angeles e tutti pensavano che fossi di New York. Mi sono trasferito a New York per studiare recitazione quando avevo 21 anni, nel 1958. In pratica conosco New York e Los Angeles e basta. Non ho ancora girato il mondo. Meglio che mi sbrighi. Quello che amo di New York è la spontaneità. Esci e non hai bisogno di avere una meta, perché in qualche modo sei in una casa […] Non avevo intenzione di fare l´attore. Volevo diventare pianista. Ma poi al college non andavo bene e qualcuno mi disse che seguendo il corso di recitazione avrei evitato che mi bocciassero. Ecco come ho iniziato a recitare. Quello che vedevo sullo schermo all’epoca era solo Brando, Brando e ancora Brando. Brando ha cambiato la recitazione portandola a un livello mai visto prima. Credo che sia stato il primo attore a trasudare femminilità al pari di mascolinità. Una certa dolcezza. Era straordinario. Infranse il mito del maschio secondo i canoni. Chi altri l’avrebbe fatto a quei tempi, inizio anni ”50, quando gli attori dovevano nascondere la loro omosessualità?”» (Robin Lynch, ”la Repubblica” 16/4/2003). «Sono passati 46 anni da quando con Gene Hackman andavamo insieme a lezione di recitazione, ma come allora siamo in cerca d´autenticità, mentre non abbiamo perso quella tremenda insicurezza che è rimasta costante in tutti questi anni. [...] Fatto sta che, sotto sotto, sia io che Gene ancora ci sentiamo due impostori. O meglio, temiamo di essere degli incapaci. il destino degli attori ”di successo’? [...] Io lavoravo come cameriere e lui faceva il facchino. Gene aveva una forza bestiale: portava frigoriferi sulle spalle su e giù per sei piani senza ascensore. La sera, nel minuscolo appartamento che condividevamo con lui e sua moglie, mettevamo una tavola sulla vasca da bagno, che era in cucina, e io ci dormivo sopra. Un giorno Gene mi presentò a Robert Duvall, altro sfigato, e trovò il modo per farmi sloggiare di casa. [...] Se Dio mi avesse parlato come fa con Jim Carrey in Una settimana da dio e mi avesse detto, ”ti faccio lavorare come attore nelle cantine off-off Broadway, niente di che ma almeno lavori”, ecco: io ci avrei messo la firma all´istante. Noi tre, Gene, Bob e io eravamo i più brutti della scuola, nessuno avrebbe mai scommesso su di noi. Quello che è successo è stato un miracolo. Siamo venuti fuori alla distanza, intorno ai 30 anni. La gavetta è stata dura, ma in compenso siamo stati costretti a fare tanto teatro, cosa che certamente aiuta. [...] Ero molto insoddisfatto dei ruoli che mi offrivano, dopo Sesso & potere non riuscivo a trovare niente che mi prendesse veramente, fino a quando mia moglie Lisa mi ha detto, invece di stare tanto a lamentarti, perché non cominci a fare film che t´interessano con gente con cui ti diverti, anche se ti danno pochi soldi? In fondo te lo puoi permettere! Così ho fatto Voglia di ricominciare con Susan Sarandon e Confidence prima dell´arrivo di La giuria, cui non potevo resistere perché mi avrebbe permesso di lavorare con Gene. Intanto mi sono preparato al debutto nella regia con Lesioni personali, basato su un libro di Scott Turow. Un´altra storia che ha a che fare con il sistema corrotto della giustizia in questo paese [...] Dico sempre che chiunque può dirigere un film: basta che si circondi di gente che sa fare il proprio mestiere, dal costumista al direttore della fotografia» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 14/10/2003).