Varie, 1 marzo 2002
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Hornby Nick
• Maldenhead (Gran Bretagna) 17 aprile 1957. Scrittore • «[...] è un mito dei giovanotti (qualcuno anche attempato) di sinistra, le sue passioni per il calcio e la musica rock gli hanno ispirato libri che hanno fatto epoca (da Febbre a 90° ad Alta fedeltà) [...] inserirei senza dubbio Hornby nella lista dei ”sopravvalutati, o semplicemente segaioli’. La sinistra deve essere davvero in crisi se i suoi boys hanno eletto come modello di scrittore questo estensore di classifiche. Ragazzi, andate a leggere Alan Sillitoe, quello sì che era un arrabbiato» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 36/2001). «Se Nick Hornby fosse il personaggio di un romanzo, descriverlo non sarebbe facile, perché non è mai facile definire il low profile. [...] Diciamo che Hornby è uno di quei normotipi democratici occidentali adulti, non necessariamente di sinistra ma di solito sì, che rifiutano le mode per totale disinteresse (direi per refrattarietà congenita) e vestono con orgogliosa noncuranza [...] non bello, non alto, non magro, ha però il tipico, contagioso appeal degli intelligenti-socievoli, specie assai più rara, tra gli intellettuali, degli intelligenti-amareggiati-scostanti, molto più di tendenza. Quando lo si vede, mentre gira per i bar, sembra più un suo fan che la piccola icona letteraria che è ormai diventato. Non sarebbe così necessario dire che Hornby è ”una persona normale” (molti scrittori lo sono), oppure che ”è rimasto il ragazzo semplice di una volta”, come di solito dicono di se stessi, nelle interviste loffie, i divi del pop, se la sua persona non corrispondesse così da vicino alla sua fama letteraria. I lettori, ormai milioni in tutto il mondo, sentono nei suoi confronti una speciale familiarità, una sorta di amicizia di penna, perché la sua scrittura è perfettamente rappresentativa di un umore parecchio diffuso in Europa, quello del disincanto mai cinico, dell’ironia non disperata, che appartiene alla generazione larga (molto larga) composta dagli adulti ex rivoluzionari ma non post-politici. Quelli, insomma, che la caduta delle illusioni non ha ancora condotto all’incanaglimento menefreghista, o peggio alla militanza neo-reazionaria. [...] Si dovrebbe dire, con espressione resa indigeribile dall’ondata restauratrice religiosa, che Hornby è uno scrittore ”per la vita”, a patto che la vita possa essere scritta in tutta la sua sgangherata precarietà sentimentale, de-sacralizzata e prosaicizzata: allora sì, in fondo a questa laicissima riduzione di ogni storia ai suoi patetici inciampi, alla sua inadeguatezza, si può arrivare a qualcosa che assomigli alla pietà. Oppure, anche, i personaggi di Hornby fanno venire in mente una famosa frase di Kurt Vonnegut, il quale confessò di non essere mai stato in grado di creare personaggi ”veramente cattivi”, da quel vecchio hippy affettuoso che era [...]. Eppure nessuno dei lettori di Hornby, nemmeno i poco entusiasti, riuscirebbe a liquidarlo come ”buonista”. Perché Hornby, nella descrizione delle persone e della società, è preciso e feroce, mai indulgente. Solo che lo sbocco del disastro esistenziale e sociologico descritto con tanta allegra, contagiosa precisione, non è mai la perdita di senso, è sempre il rilancio, per qualche via imprevista (in genere, affettiva), della vita come scommessa, gioco, dannata fatica, sforzo di relazione tra le persone. Il suo è un disincanto solidale, un sarcasmo soccorrevole. Se vogliamo, lo stile di Hornby e la sua poetica potrebbero essere definiti anti-dandismo, rifiuto dell’estetismo gretto e del narcisismo sfrontato [...] Non per caso Hornby occupa, nella società letteraria europea (per quello che significa questa pomposa collocazione, molto poco hornbiana), un singolare ruolo di recensore rispettoso e di talent-scout a tempo pieno. tra i pochi scrittori non invidiosi e non competitivi, che non solo parlano con trasporto e piacere di altri scrittori, ma si danno da fare per aiutarli a pubblicare e a farsi strada, come è accaduto [...] con il giovane americano Cristopher Coake [...] Chi lo conosce bene sostiene che lo scrittore inglese (tre figli da due matrimoni) sia fortemente indirizzato, nelle opere come nella vita, da un forte sentimento di paternità, vedi il celebre About a boy, vedi la sollecitudine per gli scrittori in erba. del tutto imprudente sostenere che questo status di padre convinto, e cioè di definitivamente adulto, abbia funzionato da antidoto contro il narcisismo sterile, e contro il nichilismo compiaciuto. Resta da constatare che una scrittura fortemente incline al satirico e al comico, come quella di Hornby, può facilmente autoconcludersi, limitarsi a giocare con la perdita di senso, con la vacuità di quel vago solidarismo che ancora tiene in piedi lo spirito democratico europeo. E invece, in Hornby, questo non avviene, è come se l’autore accompagnasse nelle loro cadute i personaggi e gli ambienti sociali, ne condividesse il cammino anche nella cattiva sorte, non li lasciasse mai soli, ritrovasse in loro la propria inadeguatezza - come dovrebbero fare i padri, almeno i padri veri, con i figli. In questo Hornby, per essere uno scrittore ”generazionale”, e in nome di una generazione proverbialmente incline a rimanere imberbe, è sorprendentemente adulto. Rifiuta di gingillarsi con lo spirito critico e con lo sguardo caustico, dei quali pure dispone abbondantemente, come se gli urgesse garantire comunque alle sue storie, alla storia di tutti, un seguito. Il suo speciale successo, che è ”caldo” per quantità ma anche per qualità, è probabilmente il frutto di questa dote, oggi molto anticonformista, di usare la crisi d’epoca senza compiacersene, di vivere il disincanto senza farne ragione di proterva superiorità rispetto agli ingenui e agli sconfitti. In fin dei conti, di saper soffrire con misura e pazienza, e saperlo scrivere senza menarla tanto, ridendoci sopra, vivendoci dentro, mai tenendosi alla larga. Democraticamente» (Michele Serra, ”L’espresso” 28/7/2005). « stato scritto che è uno scrittore ”carino” finalmente approdato alla malizia e alla durezza. un giudizio da non lettori di Hornby, che sia pure nell’involucro lieve e molto ”parlato” della sua prosa è da sempre un narratore severo e perfino feroce. I suoi adolescenti prima, i suoi giovani poi, i suoi adulti oggi, incarnano sostanziali solitudini e intrecciano tra loro rapporti conflittuali e dolorosi, messi a nudo da uno sguardo comico che non è mai volgarmente canzonatorio. Come soltanto i migliori umoristi sanno fare, non può che alludere continuamente al tragico» (Michele Serra, ”la Repubblica” 6/9/2001). «Ironico quanto basta. Disincantato, ma mai cinico. Feroce nel massacrare i luoghi comune del politically correct, ma pronto a scrivere un libro - diventato subito best seller - su Come diventare buoni. [...] i libri più belli che ha letto nella sua vita? ”Comincerei con due libri di Charles Dickens, che hanno significato molto per me: Grandi speranze e David Copperfield. Poi metterei i racconti di Jerome Davis Salinger. Infine Gilead di Marilynne Robinson, che mi ha fatto ripensare all’importanza della religione [...]”» (Pierangelo Giovanetti, ”Avvenire” 8/9/2005). «Non scrivo letteratura, ma pop [...] Per paura di cali d’attenzione preferisco un singolo di tre minuti ad una sinfonia e, allo stesso modo, sono molto preoccupato di annoiare il mio lettore, voglio che entri ed esca dalla pagina in modo veloce [...]» (’Il Messaggero” 8/9/2005). Vedi anche: Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 38/2001;