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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

HU JINTAO Yangzhou (Cina) 21 dicembre 1942. Politico. Capo del partito comunista cinese (dal novembre 2002, in successione di Jiang Zemin), presidente della Repubblica (dal marzo 2003)

HU JINTAO Yangzhou (Cina) 21 dicembre 1942. Politico. Capo del partito comunista cinese (dal novembre 2002, in successione di Jiang Zemin), presidente della Repubblica (dal marzo 2003). Famiglia di commercianti dell’Anhui, poverissima regione centrale, è salito al potere gradino dopo gradino, e la sua più grande dote sembra quella di non essere mai inciampato. Laureato alla Facoltà di idraulica al Politecnico di Pechino Qinghua, dove era commissario politico, pupillo del vecchio leader conservatore Song Ping, ha studiato alla scuola di Partito subito dopo la ”rivoluzione” di Deng Xiaoping. Nel 1982 - giovanissimo per gli standard cinesi - diviene membro supplente del Comitato centrale e per tre anni segretario della Lega della Gioventù, che allora era controllata dal riformatore Hu Yaobang, l’unico leader cinese amato dagli intellettuali, la cui morte nel 1989 fu la causa scatenante delle dimostrazioni violentemente represse il 4 giugno a Tiananmen. Nel 1985 Hu diventa segretario del comitato di partito della regione del Guizhou, una delle più povere dell’ovest, e tre anni dopo del Tibet, dove non ha lasciato un buon ricordo. Sua fu la decisione di imporre la legge marziale a Lhasa, nel 1989, dopo le manifestazioni anticinesi, sua fu la repressione graduale, ma non per questo meno determinata. Nel 1992 Deng, già stanco di un Jiang Zemin troppo timido nelle riforme e molto burocrate, lo sceglie come ”cuore” della quarta generazione di dirigenti della Cina comunista. Hu diviene il più giovane membro del comitato permanente del Politburo e della segreteria. Morto Deng, la sua volontà non viene dimenticata: nel 1998, Hu è eletto vice capo dello stato e nel 1999 vice presidente della Commissione centrale militare (’Il Messaggero” 15/11/2002). «[...] ”Who is Hu”? Chi è davvero Hu Jintao? Il riformatore che l’Occidente ha sognato o un tecnocrate plasmato dal monolitismo del regime? Il mistero lo avvolge fin da un episodio lontano della sua vita, in una Cina molto diversa: la vergogna di un pranzo riparatore mai avvenuto [...]. La sua biografia è segnata da una di quelle ferite che tanti leader comunisti nascondono tra le pieghe del proprio passato. Nel 1964 Hu Jintao aveva 22 anni e studiava ingegneria elettrica all’università Qinghua di Pechino quando si iscrisse al partito. Due anni dopo la Rivoluzione culturale orchestrata da Mao esplodeva nelle sue manifestazioni virulente. Fra le innumerevoli vittime minori, stritolate dalla campagna contro i ”borghesi”, vi fu un certo Hu Jingzhi nella cittadina di Taizhou, provincia di Jiansu. Colpevole solo di possedere un piccolo negozio di tè, fu espropriato della sua modesta impresa e costretto a diventare un impiegato dello Stato. Per aver osato criticare un estremista locale Hu Jingzhi fu poi accusato di peculato, trascinato in piazza, sottoposto a uno dei famigerati processi pubblici delle Guardie rosse, e incarcerato. Venne liberato solo dopo la fine della Rivoluzione culturale, nel 1978. Morì subito, per gli stenti patiti in prigione. Aveva solo 50 anni. Hu Jingzhi era il padre dell’attuale presidente della Cina. Hu Jintao aveva iniziato a far carriera nei primi gradini della gerarchia comunista. La notizia della morte del padre lo raggiunse nella regione del Qinghai dove era stato mandato a dirigere il partito. Si precipitò a Taizhou per ottenere dai compagni la riabilitazione ufficiale del padre. Hu raccolse prove a discarico del defunto: testimonianze sul suo buon carattere e sul suo patriottismo. Degli amici gli suggerirono di invitare i maggiorenti del partito locale nel miglior ristorante di Taizhou, per discutere il caso del padre davanti a una tavola imbandita. Hu Jintao pagò il banchetto in anticipo: 50 yuan, l’equivalente di 200 euro attuali e una vera fortuna per quei tempi. Il giorno fissato per il banchetto, alle due del pomeriggio Hu era ancora solo nel ristorante vuoto. Alle tre si presentò un messo dei dirigenti del partito di Taizhou. Mandavano a dire di essere impegnati in una riunione. Hu divise il pasto ormai pronto insieme ai camerieri del ristorante. Da allora non è più tornato a visitare la sua città natale. Un altro, forse, dal ricordo del padre avrebbe tratto la volontà di trasformare il sistema politico cinese, per impedire il ripetersi di tante sofferenze. E al suo esordio alla guida del paese Hu in effetti alimentò l’illusione di essere un riformatore. Nel 2003, quando scoppiò l’epidemia della Sars nella regione del Guandong, la reazione iniziale delle autorità locali fu quella di censurare le notizie; dopo qualche mese però da Pechino arrivò il contrordine, Hu e il premier Wen Jiabao licenziarono il ministro della Sanità e inaugurarono una politica di trasparenza. Poteva essere l’inizio di una fase nuova. rimasto invece un episodio abbastanza isolato. Dopo la Sars, l’unico tema su cui Pechino ha aumentato la libertà dei mass media, sono le catastrofi nelle miniere: le notizie sulle sciagure vengono date in maniera più tempestiva e completa. A condizione però di non evocare le colpe del governo centrale. Dalla memoria del padre Hu non ha ricavato un furore riformatore. Anzi, la sua carriera sembra dominata dalla preoccupazione di costruirsi un’immagine di leader ortodosso. [...] Nelle biografie di Hu e dei coetanei manca l’eroico battesimo del fuoco da cui traevano legittimità Mao Zedong e Zhou Enlai, Deng Xiaoping e Jiang Zemin. I cinesi ricordano un altro episodio indicativo della formazione dell’attuale leader. Alla fine dei turbolenti anni Ottanta Hu era capo del partito nel Tibet. Nel gennaio del 1989 morì il Panchen Lama, da molti considerato la seconda autorità spirituale del buddhismo tibetano dopo il Dalai Lama. Quella morte scatenò due mesi di disordini. Hu aveva appena assunto il comando della regione e non era preparato a capirne gli umori. La sua reazione fu durissima: legge marziale e repressione. Un pugno duro che a posteriori sembrò una ”prova generale”: pochi mesi dopo il Tibet, la legge marziale fu imposta a Pechino da Deng e Jiang, e l’esercito fu chiamato a reprimere la protesta studentesca. Il giovane luogotenente in carica nel Tibet aveva annusato per tempo l’aria che tirava tra i suoi capi. [...] Vedere a Pechino un leader così giovane - rispetto a gerontocrati come Mao e Deng - ha ispirato ottimismo. Il fatto che Hu dal 1992 fosse stato a capo della scuola di partito, dove aveva introdotto nuovi corsi sull’economia di mercato e sul ”buongoverno”, ha contribuito a circondarlo di pregiudizi favorevoli. Via via che si avvicinava l’uscita di scena del ”duro” Jiang, i democratici di Hong Kong si convinsero di poter finalmente strappare a Pechino delle elezioni libere al 100%. I leader di Taiwan speravano in una posizione più flessibile. Intellettuali e giornalisti si auguravano di poter estendere il precedente della Sars ad altri campi del dibattito pubblico. Ma il plenum del partito nel settembre 2004 - quello in cui Jiang Zemin ha abbandonato anche l’ultimo incarico di supervisione delle forze armate - ha gelato molte aspettative. Hu ha mandato messaggi di ortodossia assoluta: ”La democrazia occidentale non è fatta per la Cina”. E ancora: ”I fatti hanno provato che il socialismo con caratteristiche cinesi è la strada corretta per assicurare il benessere ai cittadini”. Poiché nessuno ormai prende alla lettera il termine ”socialismo” - i leader cinesi non rimettono in discussione la loro adesione all’economia capitalistica - la parola è sinonimo di dittatura del partito unico. Su quel fronte Hu non sembra disposto a cedere. Sotto di lui la repressione del dissenso, la censura, gli arresti e le persecuzioni di giornalisti scomodi, hanno avuto perfino una recrudescenza. Fra ottobre e dicembre del 2004, per esempio, il governo di Pechino ha fatto chiudere dalla polizia 12.575 Internet-bar. Ufficialmente per ”garantire alla gioventù un ambiente morale più sicuro”. [...] Lo studioso Zhong Nanyuan, collaboratore del comitato centrale del partito comunista, ha definito Hu, Wen e la loro generazione come ”dei tecnocrati addestrati nelle scienze esatte, poco interessati al confronto delle idee politiche, pronti a adottare qualunque sistema di valori purché serva a consolidare il potere del partito e a rendere il suo governo più efficiente”.
Alla nuova middle class urbana Hu offre un patto sociale fondato sulla stabilità come garanzia dello sviluppo: nei 15 anni dopo Tienanmen il partito ha fatto regnare l’ordine, e la ricchezza non è mai cresciuta così tanto. Una novità nel linguaggio di Hu però è la denuncia delle crescenti diseguaglianze sociali - fra ricchi e poveri, città e campagne, zone costiere orientali e Far West sottosviluppato. Vi si può vedere un omaggio alla corrente sinistra ancora forte dentro il partito, che a suo tempo si oppose all’ingresso nel Wto e che contesta la globalizzazione come il trionfo dell’americanizzazione e dello sfruttamento capitalistico. L’ideologia della ”generazione Hu” al potere è un mix di socialdemocrazia, nazionalismo, neo-autoritarismo, insieme con la riscoperta del confucianesimo e della religione buddhista come strumenti di coesione, puntelli all’ordine e al rispetto dell’autorità. Altro tema favorito di Hu è la lotta alla corruzione. ”La sopravvivenza del partito - è giunto a dire il segretario generale - è legata a uno sforzo di buongoverno, cioè alla lotta contro la corruzione nei suoi ranghi”. Ma senza elezioni libere, senza possibilità di alternanza, in un sistema di autoreferenzialità del partito unico, la lotta alla corruzione resta uno slogan. [...]» (Federico Rampini, ”la Repubblica” 8/3/2005). «Quando nacque, la guerra con i giapponesi infuriava e gli esiti erano ancora molto incerti. La sua casa a Taizhou, allora un sobborgo della città di Yangzhou, nella provincia del Jiangsu, era in un’area occupata dai giapponesi, ma il padre di Hu Jintao non stava male. Era un mercante di tè e viaggiava per tutta la Cina. Aveva ereditato la professione dal padre, che era emigrato dalla provincia povera dello Anhui e aveva pian piano fatto carriera, come operaio, poi come commesso e infine come proprietario di un negozio di tè. Il padre di Jintao, Hu Zengjue, però era poco a casa, e per di più, poco prima della presa del potere dei comunisti nel 1949, perse ogni cosa. Fu una piccola fortuna, perché la povertà improvvisa salvò la famiglia dalle persecuzioni che si abbatterono nei mesi e gli anni successivi contro coloro che erano di estrazione benestante. Ma questa fu solo una piccola consolazione, perché nel 1951, quando Jintao aveva solo otto anni, morì la madre e, con il padre spesso via, Jintao, primogenito, si trovò a dover fare il capofamiglia, senza abbandonare gli studi dove mostrava intelligenza e memoria non comune. [...] Raccontano che Jintao è originario di Jixi, nell’Anhui, in realtà paese natale solo del nonno. Ma l’ufficio politico, che approva in ultima istanza le pubblicazioni ufficiali, temeva di dire la verità. Infatti, Yangzhou, città natale di Jintao, è anche patria di Jiang Zemin, massimo leader del Paese. Sarebbe risultato strano che due presidenti di fila fossero nati nella stessa città. Era una cosa in odore di consorteria, mafia, visto che il concetto di ”paesano”, laoxiang, ha in Cina una forza grande quanto nell’Italia meridionale degli Anni 50. In realtà, le vite di Hu Jintao e del suo predecessore e mentore Jiang Zemin per quasi 50 anni non si sono mai veramente incrociate. Jintao a 18 anni supera i difficilissimi esami per entrare nella migliore facoltà di ingegneria della Cina, quella dell’università Qinghua a Pechino. Qui diventa capo classe, titolo di merito di studio ma anche politico, e da lì comincia la sua carriera nel partito, o meglio nella gioventù del partito, che rimane a tutt’oggi una delle sue basi di potere. L’università per lui sembra essere quasi tutto. Oltre a trovare una carriera e una professione trova anche moglie, una sua compagna di classe che da quasi subito condivide con il ventenne Jintao innumerevoli trasferimenti in ogni angolo del Paese. un ingegnere, un tecnico, è necessario al funzionamento elementare dell’economia cinese, e grazie a questo suo profilo riesce a non essere travolto dall’immensa onda della rivoluzione culturale che macina e stritola milioni di persone negli Anni 60 e 70. Emerge da questo periodo buio però con tanta esperienza e un rapporto che per lui sarà cruciale. Hu Yaobang, segretario del partito agli inizi degli Anni 80 e allora erede designato secondo il massimo leader Deng Xiaoping, lo stima e ad appena 42 anni gli affida la guida di una provincia arretrata e difficile, il Guizhou. il più giovane segretario di partito del Paese, stella nascente del firmamento politico, così Jintao si getta indefesso nel lavoro, sotto il costante incoraggiamento di Yaobang. Nella provincia Jintao sperimenta una liberalizzazione della stampa, ci informano [...] Ma a dicembre del 1986, quando Jintao compie 44 anni lo informano che il suo mentore è stato destituito. La sua colpa è di essere troppo liberale, cosa che lo ha spinto ad essere troppo tollerante con le manifestazioni studentesche che nell’autunno avevano invaso le strade di Shanghai. Per Jintao è una crisi esistenziale prima ancora che politica. Sembra quasi che perda per una seconda volta la madre. Deve trovare l’equilibrio tra la fedeltà all’amico e quella al partito. Un tradimento verso l’uno o l’altro sarebbe in ogni caso la fine della carriera. Senza contare il dramma psicologico, diviso tra amore personale e senso di appartenenza a un gruppo. Per di più l’anno dopo Jintao viene messo di nuovo alla prova dal nuovo segretario del partito Zhao Ziyang: è mandato in Tibet, la regione più difficile della Cina. Qui all’inizio del 1988 scoppia una rivolta anticinese e poi muore il Panchen Lama, seconda autorità spirituale del Tibet, e, a differenza del Dalai Lama, fedele a Pechino. Hu Jintao naviga tra questi scogli reprimendo la rivolta, tentando qualche apertura al Dalai per la scelta del successore del Panchen e combattendo con i suoi problemi di salute, poiché l’aria rarefatta del tetto del mondo lo perseguita con attacchi di mal di testa. Nella primavera del 1989 Hu Yaobang muore e questo accende la miccia delle dimostrazioni di Tienanmen. Deng è colpito dalla scomparsa del suo pupillo e, dopo le manifestazioni, è anche afflitto da sensi di colpa per averlo destituito. Anche queste ragioni personali spingono nel 1992 a scegliere Hu Jintao, il pupillo del pupillo, come successore dell’allora presidente Jiang Zemin. Per Jintao iniziano dieci anni durissimi, di prova continua, sempre in seconda fila, sempre attento a non sbagliare, attento a costruire un rapporto prima inesistente con Jiang, che magari avrebbe voluto scegliersi da solo il suo successore e non vederselo imporre da Deng. La rivelazione in questa sua biografia del luogo di nascita diventa così il segno di un accordo trovato, di una benedizione ottenuta: Jintao è figlio di Jiang forse più che di Deng, è nato vicino alla casa di Jiang, legame importantissimo in Cina. Ma Ling e Li Min hanno girato mezza Cina, hanno parlato con i maestri di scuola di Hu Jintao, con i suoi compagni di studi, i colleghi di lavoro. Hu è un uomo modesto, senza vizi, appassionato ed esperto di tè, come il padre e il nonno. A differenza da Mao o Deng non conosce che cosa sia la guerra e la rivoluzione in qualche modo l’ha vista dall’altra parte, in Tibet o a Tienanmen, quando era una sfida per il potere costituito, ma le sue battaglie, i suoi tormenti tra i ranghi del partito non sembrano essere stati meno duri. Né le ambizioni per il suo Paese paiono meno sincere, vuole economia, sviluppo, ma anche libertà. Come fare a coniugare la liberalizzazione senza andare al caos? Come avere più democrazia senza una rivoluzione che risospingerebbe indietro il Paese? Questi i dubbi che ormai da più di 60 anni sembrano assillare Hu Jintao» (Francesco Sisci, ”La Stampa” 7/7/2003). « uno che sa usare la mano pesante contro quelli che i cinesi chiamano ”fanatici religiosi”. I galloni se li è conquistati da proconsole per il Tibet tra 1989 e 1992. Poi Deng Xiaoping [...] lo richiamò a coordinare il lavoro dell’Ufficio politico del Pcc a Pechino, e lo indicò a Jiang come successore. Si era fatto notare per come aveva represso le proteste dei monaci legati al Dalai Lama. Aveva da poco assunto l’incarico, dopo essere stato il più giovane segretario della storia della Cina comunista nel vicino e poverissimo Guizhou, quando si trovò a fronteggiare una manifestazione di monaci a Lhasa per l’uccisione di due loro correligionari. Diede ordine di disperderli sparando. Folle inferocite reagirono facendo barricate, disselciando le strade, saccheggiando negozi cinesi. Hu proclamo la legge marziale e ordinò di sparare. L’Esercito di liberazione sparò per tre giorni, si stima che vi siano stati tra 100 e 700 morti tra i dimostranti. Seguirono arresti in massa ed esecuzioni. C’è chi lo considera l’antesignano del ”metodo Tienanmen” [...] Nessuno sa bene in Occidente come ”collocarlo”, se tra i riformisti, i conservatori o se a metà, a mediare tra i due. Ha visitato 86 paesi. Resta un mistero. Nella stampa si sprecano i giochi di parole tipo ”Whos’ Hu?”. C’è chi lo vede come l’ultimo dei leninisti e chi lo considera uno dei più promettenti liberal. Qualcuno gli dà del ”camaleonte” per come ha saputo giocare nel complicato gioco della scalata al potere in Cina. Nella biografia ufficiale recita una sua citazione: ”Un buon leader deve incoraggiare la democrazia ma anche saper agire in modo risoluto nei momenti critici” [...] Negli anni 80 era con i riformisti. Tra i quadri più legati a Hu Yaobang [...] Chi l’ha incontrato è rimasto colpito dalla ”memoria fotografica”, dalla capacità di citare a memoria statistiche e dati. Ma anche da una ”freddezza incolore”» (’Il Foglio” 1/11/2001).