1 marzo 2002
Tags : Goran Ivanisevic
Ivanisevic Goran
• . Nato a Spalato (Croazia) il 13 settembre 1971. Tennista. Nel 2001 ha vinto il torneo di Wimbledon. I genitori sono ingegneri. Goran ha una sorella, Sredjana, guartita dal morbo di Hodgkin anche grazie alle cure pagate dal fratello. Ama il clacio, è tifoso dell’Hajduk Spalato. Il suo film preferito è Con Air, ama gli U2, i Guns and Roses, i film di Jim Carrey e Julia Roberts, la Porsche Carrera, la cucina italiana e la moda italiana. Ha dedicato la vittoria a Wimbledon alla memoria di Drazen Petrovic e segnato un gol nella partita d’addio al calcio di Zvone Boban. Sulla schiena ha un tatuaggio: uno squalo, una croce e una rosa. nazionalista ma non si è mai schierato. Si rifiutò di giocare con l’ex Presidente Tudjman: «Non gioco mai se so che devo perdere» (’Corriere della Sera” 31/10/2005). «Cavallo pazzo, il derviscio del tennis. L’uomo abitato da tre personalità e che sa a memoria il numero di telefono dell’Altissimo. Il cattolico che parla come uno hassidim. [...] La sua storia. Tre finali perse a Wimbledon, una vinta nel 2001 in una quindicina che pareva immaginata e filmata da Tim Burton. Piovosa, interminabile, gotica, mistica. Lui, che entra nel torneo con una wild card e una spalla in fiamme, si scava una trincea visionaria lunga 213 ace, e in finale si trova davanti un altro profeta segnato, Pat Rafter. ”Dio, fammi vincere questo torneo, e non avrò più bisogno di giocare a tennis”, prega prima di un epico, indimenticabile big match rimandato al lunedì. ”Dio deve avermi ascoltato - dirà dopo mesi di sofferenza per la spalla sgarruppata dal troppo servire -. Dopo quella vittoria non ho quasi più giocato. E rinegoziare l’accordo con lui non è facile, credetemi”. [...] Un giorno gli hanno chiesto di spiegare un tatuaggio, con tre figure, che si era fatto incidere sulla pelle da guerriero: ”La croce è una croce, lo squalo è un animale, la rosa è l’amore. Tutto insieme, sono io”. Come non amarlo, uno così?» (’La Stampa” 9/2/2004). «Non ero nervoso, ero me stesso. Sul campo non ho mai recitato: ho sempre fatto quello che mi sentivo di fare. Una volta, a Brighton nel 2000, dovetti ritirarmi dal match: avevo spaccato tutte le racchette a disposizione! [...] All’inizio giocavo contro me stesso più che contro l’avversario, e per vincere dovevo fare il punto due volte. Era autolesionistico. Ho buttato via decine di match così. Poi ho cominciato a pensare. [...] Mio padre. Mi ha detto: se vuoi colpire un dritto, fallo e basta. solo una pallina da tennis, non un fantasma. [...] Il talento è un dono di Dio, ma poi tu ci devi lavorare sopra. Se vedi il n. 1 e il n. 100 del mondo in allenamento, non li distingui. La differenza la fa il modo in cui, in partita, giocano i punti importanti. Ci vuole allenamento: se hai una sola chance in tre ore, devi sfruttarla [...] Ho pagato tante multe in vita mia, che l’Atp dovrebbe farmi un monumento! Ma non sono mai stato squalificato: al penalty-point mi fermavo. In fondo sono un bravo ragazzo! [...] Dicono che non ho sfruttato al meglio il mio talento. Ma sono più orgoglioso di essere stato n. 2 del mondo dietro a Sampras che n. 1 davanti a una massa di pallettari» (Gaia Piccardi, ”Corriere della Sera” 9/1/2004).