Varie, 1 marzo 2002
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Jacobelli Jader
• Bologna 24 giugno 1918, Roma 20 marzo 2005. Giornalista. Entra in Rai nell’immediato dopoguerra. Da “Radio Sardegna Libera” a via del Babuino. «Fui assunto anche per motivi politici. L’independentismo dell’isola era già una preoccupazione forte per i signori di Roma». Nell’aprile del 1946 fa il suo ingresso alla Camera per seguire i lavori dei padri costituenti. Dà vita alla prima trasmissione radiofonica dal Palazzo, Oggi Montecitorio. Nel 1964 il direttore generale, Ettore Bernabei, gli affida le mitiche Tribune politiche. «A dir la verità prima di accettare ho puntato i piedi. Dissi a Bernabei: non sono adatto per la tv. E poi mi mangio le ‘s’ e le ‘z’. Sa, sono bolognese…Ma Bernabei non era uno che sentiva ragioni» (Fernando Proietti, “Corriere della Sera” 15/2/2001). «[…] forse il più grande e certo il più popolare fra tutti i “moderatori” della tv […] quell’omino, di solito ironico e pronto al sorriso, che disperatamente, ma come sorretto da un’invisibile energia pacificatrice, arrotava la “erre”, strabuzzava gli occhi, alzava le braccia, minacciava di disattivare il microfono: e tutto questo, appunto, per “moderare”, e quindi per riportare al decoro della ragione i suoi scalmanatissimi ospiti. […] Eccolo a fianco a un Moro fumoso fino alla narcosi, ma anche a Pannella imbavagliato con un cartello sul petto; eccolo, piccolino, vicino a un immenso Craxi che tamburella sul banco o ad Almirante che estrae a sorpresa un cornetto propiziatorio. Eccolo alle prese con i giornalisti, Pajetta che disarma Mangione, Mangione che aggredisce Berlinguer. E lui, Jacobelli, con le mani tra i capelli, che grida, stremato: “Io… io proprio non capisco perché lei si agita tanto!”. Ed era questo un estremo richiamo non solo alla misura, ma anche alla dignità perché nei talk-show, nel loro astuto casting e nel loro inconfessabile allestimento, oggi funziona proprio al contrario: si cercano ospiti che sappiano provocare altri ospiti, fino a farli esplodere di rabbia o di malinconica indecenza. Oppure che siano così stupidi, o incantati, o ruffiani da far risaltare l’Ospite Sacro, che di solito coincide con il politico al governo. […] credeva nella correttezza dell’informazione, e soprattutto […] aveva scelto di apparire in quel modo davanti alle telecamere perché convinto, giustamente, che la vera partita non si gioca nello studio rumoroso e illuminato di Tribuna politica, ma nel silenzio delle case dei telespettatori. E basterebbe questo a far di lui un raro e solido esempio di responsabilità giornalistica. Per il resto – che è moltissimo – occorre dire che era nato a Bologna nel 1918, aveva ben studiato filosofia con Ugo Spirito e veniva dai servizi parlamentari della radio. Nel 1964 lo spedirono in video contro la sua volontà: “Ero e sono troppo introverso – spiegò – per aver gusto a esibirmi”. Ettore Bernabei lo incoraggiò con brutale saggezza: “Non si preoccupi, ormai alla tv parlano cani e porci”. Si badi: “parlano”, aveva detto Bernabei, non essendo ancora i contenuti stati soppiantati dalle apparenze. Tribuna politica fu comunque un programma di sconvolgente novità espressiva. Come un papà premuroso Jacobelli ne sperimentò infinite varianti. Ciò che qui va detto, ovviamente a suo merito, è che non s’è mai capito bene cosa votava; e che non ebbe mai nemici. E tuttavia, come tutti i profeti, specie di sventure, fu trattato come bizzarro apocalittico, eccentrico “passatista” e onest’uomo. In realtà seppe vedere lucidamente e con vent’anni almeno di anticipo le degenerazioni di una tv che stava per mangiarsi la politica. Alla fine lo avevano messo a sorvegliare garanzie e qualità dell’informazione. Forse senza nemmeno rendersi conto che Jader Jacobelli, l’omino che decongestionava gli animi, era la voce sempre più flebile della loro stessa coscienza» (Filippo Ceccarelli, “la Repubblica” 21/5/2005). «[…] per 22 anni aveva incarnato, in un’Italia televisiva che non esiste più da tempo, il ruolo dell’arbitro imparziale nelle tribune politiche Rai. Cominciò nel 1964 e attraversò gli anni dei grandi cambiamenti politici e sociali del nostro Paese mantenendo inalterati la sua pacatezza e il controllo dei nervi. Aveva studiato filosofia, si era laureato con Ugo Spirito (spesso ironizzava dicendo: “Grazie a quegli studi non mi arrabbiavo mai durante le tribune...”) . La storia della radio lo ricorda come la “voce” che raccontò le cronache dell’Assemblea costituente. Inventò un suo stile inconfondibile fatto di assoluta imperturbabilità, di grande chiarezza espositiva, di capacità sintetica. Non interveniva mai sui contenuti ma sui modi. Ecco un suo personale ricordo: “Allora dovevamo stare attentissimi, non si poteva sgarrare. Eppure c’era sempre l’imprevisto. Il giornalista Mangione che rinfacciava a Pajetta la barbarie del codice penale sovietico, Luigi Pintor che dava del ladro a Emilio Colombo. E Nino Nutrizio, della “Notte”, che una volta in trasmissione sventolò sotto il naso a Togliatti due sacchetti di riso e di pasta e gli chiese: ‘Onorevole, lei pensa che si possano cuocere insieme? No? E allora perché il Pci dovrebbe stare al governo con i partiti democratici?’”. In quei casi Jacobelli dava il meglio di sé riportando la calma in studio e riuscendo a interrompere persino Marco Pannella, oratore fluviale in tv. Sempre con Pannella pilotò la mitica puntata della Tribuna nel maggio 1978 con Pannella muto e imbavagliato contro la commissione parlamentare di Vigilanza. Jader se ne restò altrettanto muto e impenetrabile: l’unica differenza era la mancanza del bavaglio sulla sua bocca. Ricorda Emanuele Macaluso: “Era un uomo che anzitutto amava profondamente la politica, quella vera, perché ne aveva una profonda conoscenza. Era poi un professionista di estrema correttezza e compostezza. Anch’io partecipai a tante sue Tribune: si poteva star tranquilli sul fatto che non ci sarebbe mai stato alcun secondo fine nell’organizzazione del programma. Anche con noi del Pci era inappuntabile, persino negli anni più difficili. Era insomma lui stesso un’istituzione nel’istituzione Rai”. Conferma Sandro Curzi: “Era un rappresentante di un’Italia perbene e all’antica nel senso più pulito e semplice dell’espressione. Era un cattolico, aveva le sue idee e le sue posizioni. Ma le sussurrava non per opportunismo ma per doveroso rispetto degli altri. Credeva al servizio pubblico e ci ha creduto fino all’ultimo. […]”. Finita la stagione delle “sue” Tribune, Jacobelli aveva continuato a lavorare assiduamente intorno alla filosofia e per la sua Rai. Nel 1986 diventò consulente della commissione di Vigilanza sulla Rai. Poi, nel 1996, era stato chiamato a presiedere l’Unità di garanzia elettorale della Rai istituita per far rispettare la par condicio. E poi guidava la Consulta della qualità, organismo di monitoraggio sui programmi del servizio pubblico. In un suo saggio nel 1995 su Il mulino aveva condannato gli exit poll: “Possono creare nel Paese preoccupanti tensioni, entusiasmi e delusioni infondate col risultato di rendere spesso ridicolo chi accetta di commentarli”. E con la par condicio: “Invece di disciplinare i comportamenti elettorali della tv l’ha legata impedendole di fare la propria parte. Colpa della tv stessa che non si è saputa dare, giocando d’anticipo, un’autodisciplina più funzionale e ha consentito che i suoi più noti conduttori, preoccupati di fare il pieno di audience, proclamassero su tutte le reti di non accettare alcuna regola” […]» (Paolo Conti, “Corriere della Sera” 21/3/2005). «[…] si sentiva un filosofo prestato alla tv. […] Per questo non aveva mai smesso di occuparsi di tv, una volta abbandonata la prima linea: prima come consulente della Commissione di vigilanza, poi come responsabile dell’Unità di garanzia elettorale della Rai, infine, come coordinatore della Consulta qualità. La tv di qualità era la sua chimera, il sogno filosofale: era convinto che un’audience “attiva” dovesse reclamarla a gran voce. Nell’immediato dopoguerra è entrato in Rai come direttore del Radiocorriere. Il 25 giugno 1946, primo giorno di seduta dell’assemblea costituente, ha iniziato a condurre alla radio la rubrica quotidiana Oggi a Montecitorio, poi trasformatasi in Oggi al Parlamento, che ha curato fino al 1964. In quell’anno è stato chiamato dall’allora direttore della Rai Ettore Bernabei a dirigere le Tribune elettorali televisive. Superate le iniziali titubanze (“Ero introverso ma Bernabei mi incoraggiò a suo modo: ‘Non si preoccupi. Ormai alla televisione parlano cani e porci!’”), ha mantenuto brillantemente l’incarico fino al 1986, trovandosi talvolta a gestire situazioni delicate (famosa la trasmissione del 18 maggio 1978, in cui Marco Pannella si presentò imbavagliato e rimase così per tutti i dieci minuti del programma). Si è ripetutamente battuto per l’imparzialità della trasmissione, introducendo il concetto di “mediatore di secondo grado” (“Significa non veicolare le nostre personali interpretazioni dei fatti o la sola interpretazione di una parte, ma tutte le più significative interpretazioni che dei fatti danno partiti, gruppi, sindacati”). Si deve a una persona corretta come Jacobelli l’introduzione del famoso “criterio paritetico” o “par condicio”, che doveva rendere tutti i partiti uguali agli occhi degli italiani. Anche se era difficile essere uguali, per partiti che erano disuguali, per una Dc che allora aveva in mano Viale Mazzini. Da studioso di vaglia ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali Croce Gentile: dal sodalizio al dramma (1989), Cento no alla TV ( 1996)» (Aldo Grasso, “Corriere della Sera” 21/3/2005). «[…] Jader che nome è? “Così i latini chiamavano Zara”. Il padre era vissuto un paio d’anni nella città di grandi richiami patriottici. Era il 1918. Qual nome strano, arrotato con lievissimo accento felsineo, era “il suo unico tocco stravagante”, notava Giorgio Vecchietti, suo collega di proto-tv. E non sbagliava. Jader aveva sicuramente innate doti “terziste”, quelle autentiche e non d’occasione, che riteneva doverose per ogni operatore del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma costruiva passo passo, con paziente lucidità, la sua “moderazione attiva”. Di garbo umano e di correttezza professionale ne aveva a iosa. Tuttavia è riduttivo […] concentrarsi su questi due aspetti, pur importanti. È parzialmente giusto sostenere che ai tempi di Jader la politica in televisione non era spettacolo. […] non era spettacolarizzata come adesso, anche con pessimo gusto, nel tentativo di accrescere un’audience che non l’apprezza abbastanza. Chi ha vissuto in quegli anni, però, sa quanta attesa, quanta attenzione, quanti strascichi avevano le Tribune dei leader. Altro che “terzo ramo del Parlamento”... Riuscivano a fare notizia perfino le conferenze stampa del monarchico Alfredo Covelli. Non a caso, ciclicamente, escono articoli che rimpiangono quelle trasmissioni prive di fronzoli, ricche di contenuti, al cento per cento acqua e sapone. In stagione avanzata, in una riunione del piccolo pool di moderatori, si ipotizzò un cauto uso del rimmel e, scherzando, l’invasione di un pettegolezzo ogni tanto. Ma lo scandalo-scandalo erano la mancanza di retroscena velenosi e l’assoluta par condicio. Ma ogni puntata, soprattutto in zona elettorale, aveva sale e pepe: i leader preparavano con puntiglio gli appuntamenti e i giornalisti non improvvisavano comizietti di comodo. Uomo di penna e non d’immagine, chiuso solo nel “privato” e per niente timido, Jader era nato giornalista ai microfoni di “Radio Sardegna libera” nel 1943, mettendo in secondo piano i suoi studi (prima del servizio militare in fanteria era stato assistente di Ugo Spirito, a Roma, nella cattedra di filosofia teoretica). Un lavoro che riprese in Rai con rubriche quotidiane prima dalla Costituente e poi dai due rami del Parlamento. I suoi resoconti erano esemplari: in dieci minuti, forse meno, c’erano la trama complessiva delle sedute, i dettagli interessanti, l’aneddoto divertente. Scriveva e riscriveva: all’apertura della Costituente, insoddisfatto, fece il pezzo tre volte. Ci volle qualche settimana perché i politici, dopo così lunghi silenzi, si abituassero alle sue sintesi. Tra gli “incidenti’, il più gustoso, capitò all’indomani nel famoso intervento di Benedetto Croce. Jacobelli citò per intero il Veni creator Spiritus col quale il filosofo aveva terminato il suo discorso. Un socialista, Tommaso Tonello, sentì alla radio solo i versetti e, incrociando il giornalista in Transatlantico, l’accusò di clericalismo. Al nome di don Benedetto, arrivarono pronte scuse. Anzi, il deputato promise che sarebbe andato a confessarsi. A chi rimproverava a Jacobelli un’eccessiva condiscendenza verso i riti del Palazzo, va ricordato che è stato tra i primi a denunciare il politichese e quanto nasconde l’involuto linguaggio di leader e peones: “un’oscurità che non si sa se precede il tramonto o l’alba”. Non era tenero neppure coi giornalisti, tant’è che ha intitolato la sua prefazione al saggio collettaneo sull’Information Day del 1995 Quarta debolezza, a causa della perdita di prestigio, identità e credibilità. I numerosi forum organizzati a Saint-Vincent, dai quali sono scaturiti preziosi tascabili Laterza, sono un atto d’amore per il “mestiere” in evoluzione. […]» (Dino Basile, “Avvenire” 22/3/2005).