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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

Biografia di Enzo Jannacci

JANNACCI Enzo Milano 3 giugno 1936-29 marzo 2013. Cantante. Autore. Attore • «Mettiamola così: Jannacci non ha mai rifatto il verso a nessuno e nessuno ha mai imitato Jannacci. E già questo lo isola. Può cantare canzoni di altri (da Fo a Chico Buarque, da Conte a Fortini) e altri possono cantare canzoni sue (da Tenco a Milva, da Mina a Lauzi), ma resta un isolato. Ha avuto un maestro riconosciuto (Dario Fo), ha frequentato una scuola (quella raggruppata al Derby) senza maestri o allievi, una scuola di amici e di complici (Beppe Viola, Cochi e Renato, Boldi, Andreasi, Teocoli, Toffolo). [...] Padre di origini pugliesi (’un napoli, si diceva all’Ortica”) ma nato a San Fermo della Battaglia (Como), una madre monzese, figlia di lavandaia, ”ma forse figlia illegittima di un pezzo grosso, addirittura un conte”. Milanesi ”ariosi”: così i milanesi da generazioni definiscono gli arrivati da fuori. Gli ariosi e curiosi Jannacci e Gaber s’incontrano da giovani (i Due Corsari) e si ritrovano da anziani con Aspettando Godot. Ma hanno carriere ben diverse: Gaber esordisce al festival di Sanremo nel 1961, Jannacci nel 1989. Fine anni 50, primi anni 60, l’Italia del boom economico, una canzone che sta cambiando, che cambia. [...] ha girato il mondo, ha preso due lauree ed è rimasto tra porta Vittoria e l’Ortica, in quel Far West che cominciava al capolinea del 24, in piazzale Susa, e proseguiva coi Sabbioni, fino all’Idroscalo. Era il territorio dell’amore en plein air. Se intenzionato a fare sul serio, lui aveva una coperta arrotolata, tenuta con grande noncuranza sotto un braccio. ”Quella cosa in Lombardia”, appunto. Testo di Franco Fortini. Il Naviglio non è la Senna e Milano non è mai stata Parigi. Pure, in quegli anni, un’aria alla St. Germain des Prés si respirava nei locali (Aretusa, Santa Tecla, Taverna Mexico) e nel quartiere di Brera, Bianciardi e Arpino, Dova e Crippa, il cabaret (Fo-Durano-Parenti, Bonucci-Valeri-Caprioli, i Gufi, Franco Nebbia). La sensazione è che tutti interagissero con tutti, in questo minestrone di diversità. Anche musicalmente. Jannacci (7 anni di Conservatorio) è chiamato il pianista pazzo. Lui e Gaber hanno la passione del jazz, ”ma col jazz si guadagnava poco e allora tanto valeva fare canzonette” (Gaber). Jannacci racconta di una trasferta a Norimberga come pianista di Celentano. ”Il clou doveva essere Elvis Presley, militare lì vicino, ma non gli hanno dato la libera uscita e abbiamo dovuto cavarcela noi. Adriano non se l’è filato nessuno. Meno male che Tenco ha tenuto su la baracca col suo sax”. Ma proprio il chirurgo doveva fare? E perché? ”Per stare vicino alla gente”. a questo punto che comincia a parlare di suo padre. ”Modestamente, è arrivato in tempo per le due prime guerre mondiali, più la Resistenza”. Di suo padre aviatore, che gli ha insegnato il rispetto per gli altri, il valore della solidarietà. ”Sono cresciuto a colpi di Nenni e Di Vittorio”. Del padre che lo portò a vedere i corpi appesi in piazzale Loreto, ”perché voleva che capissi certe cose”. Enzo aveva dieci anni, nel quartiere la sua banda andava dietro ai partigiani che sparavano ai repubblichini e tirava su i bossoli. Un suo amico raccolse una bomba inesplosa, la mise in cucina accanto alla stufa e saltò in aria con l’appartamento. L’amore per il padre e il ricordo dei suoi racconti hanno ispirato non poche canzoni di soldati, reduci, guerre. Sensa de ti, Sei minuti all’alba, E l’era tardi, Soldato Nencini, Domenica 24 marzo, Chissà se è vero. Appunti ai margini: solo Jannacci poteva chiamare un ”soldato terrone” con un cognome toscano. [...] ha detto (stranamente) unaltra cosa utile, una chiave per entrare nel suo mondo: ”Ho sempre fatto canzoni politiche”. Sociopolitiche [...] Quelli che..., Il bonzo, Ho visto un re, ma anche a Se me lo dicevi prima, La fotografia, Lettera da lontano. Ma cos’era, se non una scelta precisa negli anni del boom, mettere in parole e musica la storia degli ultimi e dei penultimi, portandola a livelli lontanissimi dal bozzettismo meneghino? I barboni, quelli con le scarpe da tennis per necessità e non per moda, le puttane e i loro ruccheté, quelli senza una lira o cui mancano mille lire, gli emarginati, gli spiantati, i sognatori, gli imbranati, gli umili, i prigionieri d’un carcere o d’un sogno, i poveri, i reduci dalla guerra o dalla vita, i nomadi, quelli che gli fanno male i piedi, quelli che non sanno dove andare e ci vanno lo stesso. La gente. Vincenzina e la fabbrica. Sempre la gente, la sua gente. Quelli senza voce, che bisbigliavano, uggiolavano, gridavano e a volte cantavano con la sua voce. Quelli che non erano degni d’attenzione né da vivi né da morti (’lassa stà/ che l’è roba de barbon”). C’è un filone, sugli ultimi e gli emarginati, che va da Georges Brassens a Fabrizio De André, più classici e profondamente anarchici. Su questa strada Jannacci, che si definisce ”un comunista non pentito” si muove in un modo tutto suo, che va dall’intimismo (e sono le cose migliori, come Ti te se no) al populismo, passando per il comico, il grottesco, il surreale. Ai concerti recenti ho visto persone commosse da canzoni che avevano più di quarant’anni. Per questo è sbagliato identificare Jannacci come cantore di una Milano che non esiste più. Certo, ai vecchi locali di culto si sono sostituite le discoteche, la malavita è meno simpatica e più spietata, la borghesia illuminata che applaudiva il primo Jannacci chissà dov’è finita, al posto del fiasco di vino c’è la droga pesante. E ”la televisiun/la te indormenta ”me un cujùn/ la televisiun/la rimpirliss la pupulasiùn” (questo veramente lui lo cantava già nel ”75). Adesso non la accende quasi più, se non per vedere il Milan. ”Il resto è volgarità, tette e culi, esibizione d’ignoranza e di potere, l’informazione è morta”. Ma per molti ci vogliono ancora due tram per andare in piazza del Duomo, e sognare il cielo pieno di biglietti da mille è più difficile, non solo per via dell’euro, e i soldi per comprare le scarpe al figlio non ci sono. Ma per i co. co. co, per i ragazzi dei call center, per i disoccupati che però si chiamano lavoratori in esubero, ”l’avvenire è un buco nero in fondo al tram” è ancora di stretta attualità, anche se è un verso di Io e te (1978). Una canzone che a me piace molto è M’han ciamaa, uscita nel ”64. Evoca la Milano di Scerbanenco, i mattini grigi, il dolore che arriva addosso all’improvviso. Oggi l’uccisione di una puttana non fa notizia, se ne ammazzano a decine e di tutti i colori. Ma ieri Jannacci s’ispirava al delitto per una canzone, come pure fece, rendendo lirico l’accaduto, De André (La canzone di Marinella). Jannacci [...] contravveleno di ispida tenerezza, doveroso controcanto all’aridità e all’avidità che stiamo attraversando [...] piace immaginarlo di guardia: come uno dei suoi soldati o come un medico al turno di notte, a difesa di quel po’ di umanità, di solidarietà, di attenzione agli altri che ancora ci rimangono» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 21/6/2005). «Al Derby ero arrivato proprio all’inizio dei Sessanta, per due motivi, per fame e per Dario Fo. Che c’entra Fo? Io fino a quel momento non ero nessuno. Sì, avevo fatto qualcosina con Giorgio Gaber, ma ero l’ultimo arrivato e c’erano in giro cantautori come Bindi, e poi Sergio Endrigo, gli altri... Un giorno ero a Roma, a registrare alla Ricordi, e Dario lì a sentirmi. ”Vieni a casa mia”, mi dice poi. Una volta lì mi fece ascoltare La luna è una lampadina, Il foruncolo, canzoni che poi misi nel Milanin Milanon. E lì iniziò una bella collaborazione che dura ancora oggi. Lui mi considera suo figlioccio […] Insomma fu Dario che mi spinse sulla strada che poi tutti conoscono. Mi ha insegnato tutto. Io ero pazzo, è vero, come dice Gaber, ma mica scemo. Sapevo imparare. Scrivemmo insieme canzoni come Ho visto un re, L’Armando, Il primo furto non si scorda mai, che poi erano storie disperate in musica, cabaret appunto, già attraversato da una vena satirica che è stata poi una delle caratteristiche della comicità milanese di quegli anni […] Studiavo medicina e dovevo mantenermi agli studi. Suonavo il pianoforte, facevo concertini nelle fabbriche o in piccoli locali. Al Derby all’epoca c’era Enrico Intra che invitava un mucchio di bei musicisti, ma a notte fonda lasciava posto anche ai giovani. Il Derby era così, si stava insieme, celebrità e sconosciuti. lì che ho sentito El portava i scarp del tennis suonata dal Modern Jazz Quartett […] Tanti di quei giovani ne ho portati io. Cochi e Renato li avevo visti al Club 64 di Tinin Mantegazza, altro cabaret milanese anche se più politico, più intellettuale. Cochi cantava canzoni popolari e Renato faceva da spalla. Li portai con me. Da Torino chiamai anche Felice Andreasi e poi Lino Toffolo, che era il più bravo. Facevamo commedie satiriche, cose tipo Giovanni il telegrafista: duravano un’oretta ma poi si faceva notte andando sul palco a turno, in coppia o da soli. E lì che ho smesso di dormire la notte. Per un periodo venne anche Paolo Villaggio che poi andò a Roma. Più tardi reclutai Massimo Boldi. Faceva il batterista con un suo gruppo, la Pattuglia Azzurra, e veniva al Derby a suonare. Ma era uno che se anche lo mettevi in un angolo faceva ridere. Così lo convinsi a fare cabaret”. L’ultima cosa che fecero insieme fu La Tappezzeria nel 1978 testo di Beppe Viola e Jannacci, con Gianni Porcaro, Abatantuono, Giorgio Faletti, Mauro Di Francesco, Guido Nicheli. A quel punto il Derby era già un punto d’arrivo. Negli anni Settanta ci arrivavano, sconosciuti, i Gatti del Vicolo Miracoli, e Abatantuono. Più avanti negli anni Ottanta saltò fuori una rivelazione, Paolo Rossi con Lucia Vasini, si facevano avanti coppie come Antonio Catania e Claudio Bisio, Aldo e Giovanni e un giovanotto incontenibile che tutti definivamo mostruoso: Francesco Salvi.E poi? ”Poi è cambiato. Col 29 per cento di Iva le case discografiche per star dentro ai guadagni si sono buttate su cose commerciali. E quanto al cabaret si è depauperata la cultura. E i comici si sono rassegnati”» (Anna Bandettini, ”la Repubblica” 14/6/2002). «Io ho avuto la fortuna di studiare e poi di fare una canzonetta che ha funzionato. Ma quando ci siamo sposati, per esempio, mica ce la passavamo bene. La sera delle nozze mia moglie è rimasta a casa, e io sono andato al Derby a lavorare. Il rinfresco ce l’ha offerto qualche giorno dopo il Bongiovanni, il padrone del locale: assieme a Cochi e Renato, freschi sposi anche loro (con due donne, eh). Voglio dire che è il mondo che è cambiato, ma noi siamo sempre quelli, siamo le emozioni e i sentimenti che proviamo, gli atteggiamenti mentali, non quello che ci gira intorno. E poi, per continuare i ricordi, il viaggio di nozze l’abbiamo fatto parecchi mesi dopo, siamo andati in Libano, Giordania, Palestina... […] Ma sì, avevo 15 anni e sentivo parlare dei ragazzi che tiravano i sassi ai carri armati: e adesso? Uguale. sempre lo stesso film. Siamo tutti pazzi. Mi diceva Gino Strada che con 400 milioni di dollari si elimina la fame nel mondo per quindici anni: e che gli americani ne hanno stanziati 600 milioni per la guerra... Mi sembra tutto assurdo. Bisogna avere il coraggio di dire che si è dalla parte della pace, della libertà, di chi ha più bisogno. Se viviamo in un paese che si dice democratico, possiamo scegliere da che parte stare. Non fatemi vedere quelli che vengono a chiedere i nomi di chi espone la bandiera della pace: non so che reazione potrei avere”» (Mariella Tanzarella, ”la Repubblica” 15/2/2003). «Quello che da venticinque anni divide il mondo in ”Quelli che” e lui è sempre con quelli giusti; quello che va a Sanremo con Paolo Rossi, però loro non sono i Ricchi e Poveri, loro anche se arrivassero ultimi e la canzone non se la ricorda nessuno hanno illuminato il festival d’intelligenza; quello che con Giorgio Gaber la fa lunga ”Aspettando Godot”, che già uno si rompe perché questo non arriva mai, se poi deve stare ad attenderlo in loro compagnia…; quello che in Sudafrica si è perfezionato con Christian Barnard e ha preso la specializzazione alla Columbia University, e saranno centomila in Italia negli ultimi trent’anni ma nessuno la mena tanto; quello che quando sale sul palcoscenico del Laureato con Piero Chiambretti farfuglia quattro battute, non fa ridere nessuno però si prende una valanga d’applausi perché racconta una barzelletta idiota su Berlusconi; quello che da trent’anni El purtava i scarp del tennis a Milanìn Milanòn, le porta anche Nino D’Angelo a Napoli ma se non fosse per Fofi gli riderebbero ancora dietro; quello che naturalmente è cantautore, ma ogni tanto, per favore, un po’ di ”Mosica, Mosica”, direbbe Totò; quello che sono lui, Dario Fo, Franca Rame, Paolo Rossi, Michele Serra e quand’è che si convinceranno che anche il Papa ogni tanto qualche dubbio ce l’ha?» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 17/10/1998).