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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

Jarrett Keith

• Allentown (Stati Uniti) 8 maggio 1945. Pianista jazz • «Il pianista dei pianisti […] Ha cominciato a suonare il pianoforte a tre anni […] ”Credo di ricordarmi. Mi vedo seduto al piano, un vecchio malandato piano a cilindro, cercando di imitare le melodie dalla radio. cominciato così. Era strano per me trovare le note prima che qualcuno me lo insegnasse […] Già a sei o sette anni, improvvisavo sui temi che avevo composto. stato molto naturale trovare una forma di musica che fosse più importante. stato così che il jazz è diventato parte della mia vita, ma i primi musicisti che ho ascoltato non erano veri maestri del jazz. Sono cresciuto in una cittadina della Pennsylvania come Allentown, dove i negozi non avevano tanti dischi di jazz. Gli unici pianisti che potevo trovare, erano André Previn, Erroll Garner, Dave Brubeck, Oscar Peterson. Ma un giorno, forse per errore, tirarono fuori un disco che non avevo ordinato: il doppio album bianco di Ahmad Jamal Portfolio. Forse fu la prima volta che ascoltai un trio così innovativo. […] stata comunque una scelta graduale quella di passare al jazz. Prima suonavo musica commerciale, come il dixieland con un quartetto. Eravamo terribili, io avevo 14-15 anni […] L’unico che mi ha insegnato qualcosa è stato Miles. Da lui ho imparato che ci sono diversi modi di dirigere una band. Me li ha fatti scoprire. Ma quando ero con Miles, entrambi sapevamo che sarebbe durato poco. Così è stato. Miles è stato il miglior ascoltatore di una band con la quale abbia lavorato. A volte poteva voler dire che fosse il musicista migliore. Anche quando suonava la stessa frase due volte, ti convinceva che la stavi ascoltando per la prima volta. Credo sia stato l’unico leader che ho lasciato sapendo molte più cose di quando sono entrato nel gruppo. Non tanto sulla musica, ma su come essere leader» (Laura Putti, ”la Repubblica” 1/5/2003). «Da quando ha sconfitto il male oscuro, la sindrome di fatica cronica, il più geniale dei pianisti jazz centellina le apparizioni in pubblico. Solo una o due volte all’anno riemerge dall’isolamento nella campagna del New Jersey, per osare un pugno di concerti in giro per il mondo con i magnifici Gary Peacock e Jack DeJohnette. […] ” meglio non suonare troppo, non stare continuamente in mezzo alla gente. Il pubblico non è sempre il barometro ideale per capire se la musica è buona o no. I musicisti devono capirlo da soli. Fare troppi tour non giova alla qualità della musica, perché non hai tempo di pensare, far crescere qualcosa di nuovo dentro di te. la lezione che ho imparato dopo tanti anni di concerti. Una volta ne ho fatti 53 di solo-piano. Vuol dire che quell’anno sono stato impegnato per 78 ore a creare musica nuova. Troppo tempo […] Non mi piaceva il mio approccio solista in passato, così ho ricominciato da zero. Non volevo rimanere imprigionato in un meccanismo. Ci sono tanti pianisti famosi che non hanno ancora capito che il piano è una vera puttana. […] Ho bisogno di mettere a fuoco soprattutto il suono, e tutti i posti spariscono in un certo senso. A volte l’atmosfera è speciale, ma a sorpresa il suono può morire, può accadere qualcosa di imprevedibile. A Londra […] abbiamo cominciato le prove con qualche standard, ma non andava bene in quello spazio. Questo ha cambiato il tipo di musica, quel luogo ci ha aperto le nuove prospettive che stiamo sviluppando ora. Mi ricordo di un concerto all’aperto a Genova. Non ero riuscito a dormire, ero molto stanco e non volevo suonare perché mi sentivo frustrato. Il luogo sembrava triste, spoglio e poco ospitale, ma il suono era semplicemente perfetto. Cominciammo a sorridere, mi ricordo che nel backstage trovammo delle pesche così buone e, d’un tratto, quel buffo posto si trasformò completamente […] Non so, scrivere è stato come lasciare la depressione fuori. Volevo mettere a fuoco cose che altri non avevano toccato nei libri e nelle interviste. stata come una lunga improvvisazione di solo-piano sulla carta. un libro che non sopporta l´editing. Come in un concerto-solo, se fai qualche taglio, non trovi più le connessioni tra le diverse parti. come quando sto provando, se mi fermo a bere un bicchiere d’acqua, perdo tutti i riferimenti. O come quando mi blocco perché qualcuno del pubblico fa rumore e devo ricominciare tutto daccapo. Mi ci è voluto quasi un anno. Ho trascurato molte cose, non è una vera autobiografia, ma quando ho finito, l’ho capito subito. come quando suoni, non sai quando arriva la fine, ti fermi e basta. Devi rispettare l´ispirazione […] L’unico mio grande rimpianto è di non aver mai registrato come batterista. Adesso ho smesso da tanto e non lo potrei più fare”» (Giacomo Pellicciotti, ”la Repubblica” 27/6/2002). Da vent’anni suona in trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette: «Non si sono mai arresi alla routine, anzi, dopo la malattia di Jarrett, si esaltano in una sfida continua, centellinando concerti e dischi-live memorabili. Ma se i tre fuoriclasse dialogano sul palco senza reticenze né segreti, è molto difficile farli parlare della loro musica. Ci voleva un´occasione speciale come questa, per riunirli in un´unica, impegnativa intervista. Vent´anni insieme è un bel record, specie nel jazz in cui prevale la teoria che, cambiando partner, anche la musica è stimolata a cambiare. [...] ”Si può avere l´idea di suonare con altri musicisti e lo si fa. Ma, ovviamente, non si può sapere prima se sarà bello o no. E questo non va bene. Se trovi musicisti molto aperti e flessibili, più di ogni altro con cui hai mai suonato, perché devi cambiarli? Solo per essere più vario? Credo che i musicisti dovrebbero essere capaci di continuare a crescere insieme. Crescere in tutte le direzioni contemporaneamente, e la band dovrebbe essere più grande di quanto lo sia mai stata prima. Se cambi i musicisti, non avrai mai la possibilità di mettere a frutto un´esperienza simile. E penso che Gary e Jack direbbero la stessa cosa. Non potevamo sapere che sarebbe successo e che avremmo suonato sempre meglio andando avanti, dopo vent´anni. Come avremmo potuto scoprirlo, se non fossimo rimasti insieme? Oggi è sempre più arduo conoscere le persone. Per avere tutta la fiducia che abbiamo maturato noi tre, ci vuole un lungo rapporto e solo dopo puoi dire di non essere mai preoccupato quando suoni la tua musica. Non trovo altre parole per spiegarlo, ma credo che la seconda teoria sia giusta e che la prima sia solo un´invenzione dei media» (Giacomo Pellicciotti, ”la Repubblica” 11/7/2003).