Varie, 4 marzo 2002
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KADAR Ismail Argirocastro (Albania) 28 gennaio 1936. Scrittore. Si laurea in Lettere all’Università di Tirana – nel 1956 riceve il diploma di insegnante – e perfeziona poi i suoi studi all’Istituto Gorkj di Mosca
KADAR Ismail Argirocastro (Albania) 28 gennaio 1936. Scrittore. Si laurea in Lettere all’Università di Tirana – nel 1956 riceve il diploma di insegnante – e perfeziona poi i suoi studi all’Istituto Gorkj di Mosca. Fin dall’inizio della sua carriera, negli anni Sessanta, si schiera contro il regime comunista di Enver Hoxha. Nei suoi libri attacca le dottrine del realismo socialista con velate allegorie. Nel 1963 porta a termine Il generale dell’armata morta (pubblicato in Italia nel 1982 […]), romanzo sull’Albania del dopoguerra che lo consacra a livello internazionale. Dal libro viene tratto nel 1983 un film omonimo interpretato, tra gli altri, da Marcello Mastroianni e Michel Piccoli. Dopo essersi assicurato i proventi dei diritti, il partito comunista albanese dà il benestare alle riprese. Nel 1975 gli viene imposto di non pubblicare nulla per i successivi tre anni. L’inasprirsi delle tensioni con il governo albanese lo portano nel 1990 – poco prima del crollo del regime – a chiedere asilo politico in Francia. Si trasferisce a Parigi. Da allora, è considerato la voce più importante della cultura albanese. Nel 1999 fa ritorno in patria. I suoi romanzi sono tradotti in oltre quaranta lingue in tutto il mondo e da anni Kadaré è tra i principali candidati al premio Nobel. Fra le sue opere più famose in italiano: La piramide (1987), Il palazzo dei sogni (1991), Tre canti funebri per il Kosovo (1999) e Il ponte a tre archi (2002). «Vita da centauro, quella di Ismail Kadaré. Per decenni lo scrittore è stato duplice, contraddittorio come l’animale mitologico, per metà autorizzato e celebrato dal regime comunista albanese, per l’altra metà censurato e temuto. Ribelle e audace, al punto da raffigurare nel suo capolavoro, Il palazzo dei sogni, le assurdità metafisiche della dittatura. Cauto e opportunista, tanto da sottoscrivere l’autocritica ideologica davanti al comitato centrale del partito comunista albanese, e da modificare la trama di un romanzo per inserirvi un ritratto apologetico del dittatore Enver Hoxha. Finché, come coronamento del tutto, potè essere eletto deputato e trasformarsi quasi in fiore all’occhiello del regime. Ma quale dei due era, ed è, il vero Kadaré? La scelta di andarsene in esilio a Parigi fu un gesto di indipendenza intellettuale, oltre che di rifiuto morale della schiavitù, oppure un vezzo da attore consumato, un gesto calcolato a tavolino e addirittura approvato dal dittatore in persona per diffondere nel mondo l’immagine di un’Albania tollerante? […] conosciamo nei particolari la persecuzione ideologica, il controllo sciocco e occhiuto dei funzionari, le risibili motivazioni con le quali gli apparatcik del regime cercavano, più ancora che squalificare lo scrittore, di mettere al riparo se stessi dall’accusa di connivenza. Disponiamo, però, anche del testo che certifica la sua sottomissione alla censura: un auto da fè semipubblico con cui Kadaré cercò di assicurarsi (riuscendoci) un salvacondotto politico e letterario. […]» (Dario Fertilio, ”Corriere della Sera” 26/2/2005). «’Compagni, dobbiamo impedire che questo romanzo venga pubblicato”. Siamo nel 1962. I membri del Comitato centrale del Partito comunista albanese hanno davanti un manoscritto intitolato Il mostro. L’autore è un giovane di 26 anni, Ismail Kadaré, poi diventato un romanziere di fama mondiale al punto da essere candidato più volte al premio Nobel. Ma la sua vita e la sua carriera di scrittore hanno dovuto fare i conti con l’ottusità del regime comunista, che lo ha perseguitato e ha boicottato le sue opere. Di questa oppressione rimangono, come testimonianza di incredibile stupidità, un migliaio di cartelle con le critiche e le osservazioni, spesso ridicole, dei funzionari di partito. Sono documenti conservati negli Archivi di Stato albanesi. […] ”Questo libro dal titolo Il mostro – concludono unanimemente i boss del Comitato centrale – è dannoso e può creare una falsa realtà nella mente del popolo”. Il divieto di pubblicazione è tassativo. Soltanto 25 anni dopo, nel 1987, con Enver Hoxha già morto, il romanzo ottiene il via libera. Kadaré aveva già sperimentato la difficoltà per una voce libera di esprimersi sotto un regime totalitario. Era studente all’Istituto Gorkij di Mosca e aveva scritto il suo primo romanzo, La città senza luci. Lo diede da leggere a un amico, che glielo restituì terrorizzato. Riuscì a pubblicarne un capitolo sul ”Giornale della gioventù”, che venne subito sequestrato. Il libro non è mai uscito. Non gli andò meglio con una raccolta di poesie. Il poeta russo David Samoilov, un dissidente che cercava di non irritare troppo il regime, gli disse: ”Se vuoi pubblicarle devo scrivere una prefazione in cui affermo che sei condannabile perché esposto all’influenza decadente dell’Occidente”. I capi comunisti albanesi si riuniscono di nuovo nel 1963 per valutare il romanzo che diede a Kadaré fama internazionale, Il generale dell’armata morta. Il verdetto non è incoraggiante: ”Libro triste, non serve a educare il popolo. I personaggi non sono eroi della rivoluzione e addirittura c’è un prete che viene descritto come un uomo simpatico. Questo è intollerabile. Un prete non può essere simpatico e non può aiutare la gente perché il sacrificio e l’altruismo non appartengono agli uomini di chiesa”. Il manoscritto viene restituito all’autore con l’ingiunzione di ”cambiare il personaggio del prete”. Kadaré apporta qualche modifica e stavolta il romanzo riceve il visto si stampi. I suoi libri sono quasi tutti delle finzioni, delle metafore, per raccontare la solitudine e l’infelicità dell’uomo sotto la dittatura. Per questo i funzionari del partito aguzzano il loro scarso ingegno e raccomandano: ”Dobbiamo stare molto attenti alle trappole di Kadaré. Tutti siamo responsabili del controllo riga per riga. Una buona cosa è far leggere i suoi libri a scrittori sani e in linea con la rivoluzione del proletariato. Dobbiamo farlo però di nascosto senza farlo sapere a lui”. Così, messa sotto la lente di una critica surreale, non la passa liscia nemmeno una favola per bambini come La principessa Argirò. Il direttore del museo di Argirocastro, al quale è stata data da leggere, ne rimane esterrefatto. ”Non può assolutamente andare nelle mani dei bambini. Si parla di un’eroina albanese nella lotta contro gli Ottomani, ma è descritta male e soprattutto si dipinge la faccia. Questo non è un segno buono per l’educazione dei bambini. un grande sbaglio permettere a quest’uomo di continuare a scrivere, è ancora giovane e purtroppo sa usare la penna”. La penna la usa benissimo anche quando scrive la Cronaca sulla pietra. Siamo nel ”68. Il solito zelante funzionario incaricato di esprimere un parere se ne esce con una definizione di netta condanna: ”Libro surrealista”. E aggiunge: ”Io sono un vero rivoluzionario, convinto della strada intrapresa dal partito comunista e, in tutta coscienza, devo dire che questo autore non mostra nessun legame col realismo socialista, è un nemico del popolo”. L’idea del nemico del popolo si installa ancora più nella mente dei capi comunisti quando si trovano davanti al manoscritto intitolato L’inverno della grande solitudine, una metafora sull’Albania che si sta isolando dal resto del mondo. Il segretario della sezione comunista di Tirana lo trova ”caratterizzato da idee decadenti e da una vergognosa perversione sessuale”. L’autore avrebbe ben potuto pensare che ”le nostre menti attente avrebbero scoperto il suo odio per la nostra ideologia e la sua sfacciata simpatia per l’Occidente”. Secondo il dirigente comunista ”il popolo non sarebbe contento di leggere un libro del genere, non contiene infatti nessuna azione del popolo, è completamente privo di spirito di ottimismo e non valorizza le conquiste della rivoluzione proletaria, può solo fare male alla mente dei giovani”. Il protagonista dell’Inverno della grande solitudine è Besuik, l’interprete del capo. C’è chi lo identifica con l’interprete di Hoxha e, con estrema perfidia, il libro viene dato in lettura proprio a lui, Raci Mahdi, l’interprete ufficiale del grande condottiero. Il commento di Mahdi rivela un uomo terrorizzato dall’idea di sbagliare: cerca disperatamente di prendere le distanze, di dimostrare che lui non è come Besuik. ”Chi è quest’uomo smidollato, senza carattere? No, no, non è uomo della nostra rivoluzione, non rappresenta l’uomo nuovo che vogliamo costruire, è un surrogato, una larva di uomo. Mi fa schifo leggere ciò che fa e mi offende molto la sua personalità. Io sono del tutto diverso e rifiuto ogni particolare di questo essere inferiore”. Quel libro non piace nemmeno a Nedjmiye, la moglie di Hoxha. Trova assurdo che ”il generale porti un grande cappello, un dissidente nel Politburo non ha senso, non ci può essere un eroe borghese, e non si capisce perché il vecchio militare muore di cancro come i personaggi di Solgenitsin”. Intanto Il generale dell’armata morta è stato tradotto all’estero e sta avendo grande successo. Al ministero dell’Interno non ne sono contenti affatto. In una riunione valutano che ”quel libro è un chiaro esempio di opera borghese e adesso danneggia la nostra rivoluzione in Occidente”. Uno dei partecipanti alla riunione giudica Kadaré ”un uomo che ha definitivamente abbandonato la strada giusta e si è messo al servizio del capitalismo, ha detto addio ai sani principi del proletariato e non ha più nessun legame con la sana letteratura del popolo”. La riunione si chiude con una velata critica perfino a Hoxha, ”il comandante sta commettendo un grosso errore a lasciar tradurre i libri di Kadaré all’estero”. Hoxha nutre odio per Kadaré ma evita di calcare la mano. ”Siamo nati tutti e due ad Argirocastro – spiega lo scrittore – . Eravamo vicini, le nostre case si trovavano su Via dei Pazzi. Chi osava ricordare a Hoxha che era nato in quella via rischiava la prigione. Era un uomo crudele, folle, un megalomane illuso di dare un ruolo internazionale all’Albania. Una volta mi convocò. Si mise a fare uno sproloquio sulla letteratura. Mi disse: ”Voi scrivete sempre cose tristi. Perché non vi occupate delle cooperative agricole, delle fabbriche, dell’eroismo dei partigiani? Scrivete un libro sull’eroico partito albanese che sfida l’Unione Sovietica’”. Invece scrive una poesia intitolata A mezzogiorno si riunisce il Politburo. E il Politburo si riunisce davvero per analizzarla verso per verso. Dopo ore di discussioni alle quali partecipa anche lo scrittore Driteroi Agoli, la poesia viene bocciata perché intrisa di ”pessimismo e con riferimenti a complottisti e golpisti, non contiene nessun barlume di speranza per il futuro dell’Albania”. Deve sparire qualsiasi traccia di quei versi. Viene dato incarico alla polizia di andare a sequestrare la copia a casa di Kadaré. Non finisce lì. Anche il Comitato centrale sente il dovere di dire la sua su quella composizione. La valuta ”frutto di una deformazione ideologica, contraria alla nostra rivoluzione, con accuse al sistema socialista che produce il culto dell’individuo e burocrazia, sono cose che abbiamo già sentito dalla bocca del revisionista e traditore Togliatti”. C’è un particolare in quella poesia che indigna i capi comunisti. I membri del Politburo sono immaginati con le mani sanguinanti. La riunione del Comitato centrale si focalizza su quell’immagine e assume un atteggiamento sempre più ostile verso lo scrittore. Apre una critica retrospettiva su tutta la sua opera ”Non è la prima volta che commette errori, bisogna ricordarsi di quel prete nel romanzo Il generale dell’armata morta, e di tutte le offese alla rivoluzione del proletariato”. Stavolta Kadaré viene convocato davanti al Comitato centrale. Lo avvertono che non potrà pubblicare nemmeno una riga nei successivi tre anni. E in ogni caso dovrà dimostrare di essersi ravveduto. Gli impongono di fare autocritica. Non ha scelta. ”Ammetto – si legge nelle 25 cartelle da lui firmate – di aver scritto cose contrarie al bene del popolo. Ammetto di essermi comportato come un nemico del comunismo. Ho sbagliato e ho commesso attentato contro la dittatura del proletariato. Ho scritto cose controrivoluzionarie che danneggiano la strada del nostro sviluppo. Ammetto di essere un nemico del popolo. Riconosco di aver sbagliato quando ho scritto Il mostro, ammetto di aver sbagliato quando ho scritto Il generale dell’armata morta. Ammetto di aver danneggiato la rivoluzione pubblicando i miei libri in Occidente, cosa che dimostra solo la mia arroganza e orgoglio di me stesso”. […] ora queste parole Kadaré le definisce ”scemenze che ho scritto senza problemi, finché si accontentavano di sentirmi dire che ero nemico del popolo non mi preoccupavo, il mio terrore era di vedermi gettare addosso l’accusa di essere un agente dei servizi stranieri”. Il documento con l’autocritica di Kadaré porta il timbro e la firma di Hysni Kapo, il ras della famigerata polizia segreta albanese, il quale annota ”se non basta, vedremo”. Non basta. Kadaré scrive Il palazzo dei sogni, che lui considera il suo libro più coraggioso. Il Politburo lo blocca. […]» (Marco Nese, ”Corriere della Sera” 26/2/2005). «Chi lo dipinse come un dissidente a metà, un grande scrittore troppo debole per opporsi alla dittatura comunista di Enver Hoxha, non conosceva la verità. [...] Celebre romanziere in corsa per il Nobel, da molti accostato a grandi figure simboliche come Havel o Solgenitsin, lanciò alla dittatura, adesso sappiamo che non solo denunciò letterariamente quanto stava accadendo nel suo Paese-gulag, regno dello stalinismo albanese, ma portò di nascosto all’estero alcune opere proibite. Avvenne a Parigi, per la precisione, nel 1986. Sfruttando uno dei suoi privilegi di intellettuale, in quell’anno Kadaré ottenne di soggiornare in Francia (città dove, pochi anni più tardi, avrebbe fissato la sua residenza in esilio). Fu allora, con una mossa da autentico personaggio di le Carré, che decise di camuffare tre romanzi inediti di denuncia contro il regime, oltre a una raccolta di poesie, sotto un’apparenza germanica: nomi e ambienti tedeschi avrebbero dovuto ingannare un censore superficiale, nel caso i manoscritti gli fossero stati trovati indosso durante un controllo. Il materiale scottante riuscì comunque a rinchiuderlo in una cassetta di sicurezza della parigina Banque de la Cité, e quindi passò la chiave all’amico francese Claude Durand, con la raccomandazione di mantenere il segreto per tutto il tempo necessario. Già, ma per quanto? Allora non si scorgevano crepe nel muro della dittatura, un semplice atto di dissidenza avrebbe potuto costargli la carriera, un gesto aperto di resistenza la prigione o la vita. Non parliamo poi di quel che avrebbe dovuto aspettarsi uno come lui, gloria letteraria nazionale, nel caso l’avessero arrestato come agente segreto in combutta con lo straniero e traditore della patria: giudicato indegno di continuare a pubblicare libri, magari inviato in un campo di rieducazione sulle montagne d’Albania. Si trattò, insomma, di un coraggioso gesto politico. A Claude Durand raccomandò di pubblicare quei romanzi soltanto in caso di sua morte improvvisa, naturale o ”accidentale”, e di farlo rapidamente per mettere la sordina alla prevedibile campagna di beatificazione ideologica, e di appropriazione postuma, che il regime non avrebbe mancato di mettere in atto nei suoi confronti. Le cose, poi, andarono diversamente: Kadaré potè lasciare la sua patria quattro anni più tardi senza che il suo segreto venisse scoperto, nè gli fosse torto un capello. E si trasformò immediatamente, agli occhi del mondo intellettuale parigino e di molti osservatori internazionali, in un esemplare ambiguo di letterato dalla doppia faccia, nemico della dittatura ma oscuramente tentato dalle sue seduzioni. Tutte calunnie? [...]» (Dario Fertilio, ”Corriere della Sera” 31/1/2004).