varie, 4 marzo 2002
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KARADZIC Radovan
KARADZIC Radovan Petnjica (Montenegro) 19 giugno 1945. Politico. Dal 1960 a Sarajevo per studiare Psichiatria, nel 1989 fu tra i fondatori del Partito democratico, dal 1992 al 1996 fu presidente della Republika Srpska. Incriminato per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante la guerra di Bosnia (1992-1995), è accusato di aver pianificato il massacro di Srebrenica, la strage di 8 mila musulmani compiuta nel 1995 dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic, e l’assedio di Sarajevo che durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 facendo 10-14 mila vittime. Dal 1996 ricercato dal Tribunale dell’Aja, fu arrestato il 21 luglio 2008 a Belgrado • «[…] La biografia di Radovan Karadzic comincia nel giugno del 1945 quando nasce nel villaggio di Petnjica, comune di Savnik, sulle pendici del monte Durmitor, in Montenegro. Il padre Vuko ha appena deposto le armi, si era schierato con la parte sbagliata, le milizie cetniche filomonarchiche che si sono dovute arrendere ai partigiani di Tito. La madre Jovanka, i tre fratelli Ivan, Radisav e Luka e la sorella Ivanka puntano su di lui per il riscatto sociale della famiglia. Nel 1960, a soli 15 anni, Radovan emigra a Sarajevo per continuare gli studi. Sceglie medicina, specializzazione in psichiatria, ma ha anche una passione per la letteratura. Uno arrivato dal Montenegro come lui, lo scrittore Marko Vesovic, ricorderà: ”Essendo mediocre in entrambi i campi, amava spacciarsi per grande poeta tra gli psichiatri e per grande psichiatra tra i poeti”. Gli ambienti intellettuali della Sarajevo multietnica a malapena lo sopportano. Sarà per questo che matura un odio profondo verso la città, esplicitato in una poesia in cui ne anticipa la distruzione. In un’altra elogia Tito e il comunismo, è iscritto, come tutti, al partito, nella speranza di fare carriera. Non è tuttavia che in politica abbia le idee chiare. Quello che diventerà un campione del nazionalismo serbo, declama la superiorità del popolo montenegrino per via di un dettaglio fisico,”la lunghezza dei femori”, che ne fa l’etnia più alta d’Europa. All’università, quando non è ancora laureato, l’incontro che segna la sua vita con una coetanea, Liljana Zelen, di prestigiosa famiglia serba, con una serie di parenti uccisi dagli ustascia croati durante la Seconda guerra mondiale. I futuri suoceri non vedono di buon occhio l’unione. Quel montenegrino è uno sciupafemmine. Ancora Vesovic: ”Aveva fama di latin lover interetnico, con amiche croate, serbe e musulmane. Una sua amante musulmana vive ancora a Sarajevo e, sarà un caso, la sua casa fu risparmiata dai bombardamenti. Il sesso per lui era una vera ossessione”. Il padre di Liljana si arma di pistola e lo va a cercare per le strade quando la figlia rimane incinta. Sarà un poeta assai più dotato di lui, Abdullah Sidran, conosciuto a livello mondiale per essere lo sceneggiatore dei primi due film di Kusturica (Ti ricordi di Dolly Bell? e Papà è in viaggio d’affari) a comporre la questione. Lo convince a scrivere una lettera di riparazione in cui dichiara le sue buone intenzioni. il matrimonio, cui segue, il 22 maggio 1967, la nascita della figlia Sonja (sei anni dopo, il 14 marzo 1973, Aleksandar, secondogenito). Karadzic ha solo 22 anni, non ha ancora ultimato gli studi e si stabilisce con sposa, figlia e suoceri in un palazzo al numero 2 di Sutjeska Ulica. Lilj, l’anonima Lilj, diventa, nel suo immaginario ”di straordinaria bellezza creola”, o almeno così la dipinge agli amici. Invadente, gelosissima secondo chi li frequenta, diventa però il suo centro, l’unica persona in grado di influenzare le sue scelte e di cui ha qualche timore. Si laurea e trova un lavoro all’ospedale di Kosevo. Ma né il successo nella professione né il matrimonio importante placano l’ansia di rivincita del montanaro montenegrino che si ritiene sempre in credito con la sorte. La sua attività di pubbliche relazioni è frenetica. Da Dobrica Cosic, scrittore di Belgrado e in seguito per una stagione anche presidente della Serbia, succhia il veleno del risorgente nazionalismo. psicologo della squadra di calcio di Sarajevo, ma non gli basta. Si fa raccomandare per svolgere analogo ruolo nella mitica Stella rossa di Belgrado: lo cacceranno dopo pochi mesi. Nessuno sa spiegarsi i motivi di tante protezioni in presenza di nessun talento. Riuscirà persino ad avere una borsa di studio alla Columbia University di New York. In parallelo, combina affari non sempre leciti. Nel 1984 viene condannato ad undici mesi (e ne passa qualcuno in galera) per malversazione finanziaria. L’accusa: aver utilizzato alcuni prestiti agevolati della Energoinvest, destinati al piano verde per l’agricoltura, per costruire il suo chalet a Pale, stazione sciistica alle porte di Sarajevo, che diventerà la capitale dei secessionisti serbo-bosniaci. All’inizio del 1990 sostiene pubblicamente la costituzione del partito dei Verdi. Nell’estate fonda l’Sds e, giocando con la sigla, finge trattarsi di una formazione socialdemocratica, mentre in realtà sarà il partito etnico dei serbi. Nello stesso anno lui e la moglie ottengono l’autorizzazione (è la prima) ad aprire un ambulatorio privato di psichiatria. Specializzazione in problemi sessuali. Siamo all’antivigilia della guerra. Che esplode dopo il referendum sull’indipendenza della Bosnia (29 febbraio-1 marzo 1992). Stabilisce il quartier generale del partito all’interno dell’hotel Holiday Inn di Sarajevo dove circola protetto da guardie del corpo armate. Finge di essere un moderato ”ostaggio del popolo serbo”, la cui volontà lo costringe a ”posizioni radicali”. Trasloca coi suoi quasi subito a Pale da dove fa bombardare Sarajevo. Leggenda vuole che, dalla posizione sulle alture, segua le sorti del roseto della casa di Ulica Sutjeska, che non sarà mai colpita fino a quando l’amministrazione dell’ospedale non la assegnerà, essendo lui ”assente”, a un altro dipendente, una donna delle pulizie. Liljana è il consigliere più ascoltato. La venticinquenne Sonja entra nell0apparato della Repubblica come responsabile dell’informazione ed è in questa veste che riceve i giornalisti stranieri all’hotel Olimpic. Fanno discutere le spese folli della ragazza di forte taglia quando soggiorna all’Hyatt di Belgrado dove occupa una suite all’ultimo piano. In televisione tiene un programma settimanale e avvia una breve carriera di cantante, un disco inciso, invero con scarso successo. Aleksandar, troppo giovane, non ricopre cariche pubbliche. Nella guerra Radovan Karadzic diventa finalmente quello che desiderava: un numero uno. Consuma le sue rivincite a colpi di cannone. Ma la guerra finisce, finalmente, e gli presentano il conto: è il principale artefice del mattatoio balcanico. Quel conto, non l’ha ancora saldato» (Gigi Riva, ”L’Espresso” 21/7/2005). «[...] Quello che l’’ex segretario di Stato Usa Holbrooke ha definito ”l’Osama Bin Laden dei Balcani” [...] deve rispondere delle accuse di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità per il ruolo svolto nella sanguinosa guerra di Bosnia, la più feroce tra quelle scatenate dalla dissoluzione della Jugoslavia: due anni, 1993-95, 200 mila vittime. Fu lui a ordinare di aprire il fuoco sui civili nei 43 mesi dell’assedio di Sarajevo [...] lui a dare il via libera alla mattanza di ottomila musulmani nell’enclave di Srebrenica nel ”95: il peggiore massacro che l’Europa ricordi dalla fine della Seconda guerra mondiale. Leader dei serbi di Bosnia fino al 1996, perso l’appoggio di Slobodan Milosevic non accettò mai gli accordi di Dayton del ’95, che divisero il Paese in due entità (Repubblica Serba di Bosnia e Federazione croato-musulmana) sotto il controllo delle Nazioni Unite. Il primo atto di accusa contro di lui fu emesso nel 1995. [...]» (Maria Serena Natale, ”Corriere della Sera” 22/7/2008). «[...] Il professore di Sarajevo, nato in Montenegro, di professione psichiatra, intellettuale e poeta di basso livello (per quanto a suo tempo le sue poesie per bambini vennero elogiate dagli accademici di Belgrado) riuscì ad inventarsi una professione politica, a calarsi nei panni del capopopolo e a costruirsi un ruolo fondamentale (peraltro redditizio, grazie alla corruzione dei traffici di guerra) nella crisi della Repubblica di Bosnia che, nel 1992, dette inizio al martirio di Sarajevo. Karadzic, a quel tempo osannato dalle folle, rappresentava la parte serba minoritaria e dal suo quartier generale, all’Hotel Holiday Inn di Sarajevo, preparava la pulizia etnica e la costruzione di un’improbabile entità statuale, la Repubblica dei serbi di Bosnia, con capitale il villaggio di Pale. Lui riuscì a mobilitare per la causa nazionalista tutte le frustrazioni ed esasperazioni etniche della sua gente e a ottenere la protezione di Belgrado, trascinando inevitabilmente la Serbia nella guerra. Del presidente serbo Mi-losevic, il piccolo boss di Pale fu nello stesso tempo l’alibi (del nazionalismo), il sicario (dei massacri) e l’ingombrante alleato da scaricare e poi nascondere per rifarsi una verginità politica. Il gioco riuscì alla conferenza di Dayton, quando Milosevic, allora utile alla stabilità e alla pace anche agli occhi della Casa Bianca, riuscì a prendere le distanze dai «guerrieri» di Sarajevo e a porsi come interlocutore indispensabile per la spartizione dei Balcani. Il prezzo fu il tribunale dell’Aja (nella cui rete Slobo rimase impigliato) e la consegna dei criminali di guerra come Karadzic, rimasta per troppo tempo una vergognosa lettera morta. Certamente Karadzic ha goduto in questi anni di insospettabili protezioni, dentro e fuori la Serbia, forse anche internazionali, per il periodo in cui - da presidente dei serbo bosniaci - poteva parlare da pari a pari con la diplomazia internazionale, sedersi al tavolo delle conferenze di Ginevra e ricevere all’aeroporto di Sarajevo qualche grande della terra : ministri e presidenti, fra i quali il francese Mitterrand. Certamente custodisce molti segreti di una vicenda in cui resta ancora difficile stabilire una gerarchia storica del crimine e delle responsabilità. Certamente è auspicabile che il suo processo all’Aja non finisca come quello di Milosevic senza sentenza, ma sia un vero squarcio di luce sulla tragedia balcanica, di cui, lui stesso non fu certamente il solo colpevole, nemmeno per il capitolo più ignobile: il massacro di ottomila musulmani bosniaci a Srebrenica, compiuto dalle sue milizie, agli ordini del generale Mladic, ma tollerato e favorito da diversi altri attori mai portati sul banco dell’accusa : dai comandi dell’Onu allo stesso governo bosniaco. Ma soprattutto rimane da spiegare come uno psichiatra senza arte ne parte, un piccolo Hitler senza personalità e carisma, sia riuscito ad arrivare così in alto – nel crimine e nel potere – vendendo alla sua gente e all’opinione pubblica internazionale bislacche teorie della razza e manipolando più o meno giustificati torti etnici. E certamente restano ancora oggi un mistero, le tolleranze, gli aiuti militari, i sostegni diretti della chiesa ortodossa, le protezioni di questa lunga latitanza, vissuta quasi sempre nei paraggi della sua casa, protetto da un nugolo di guardie del corpo assoldate. [...] A Sarajevo, al numero 2 di Sutjeska Ulica, c’è ancora la sua casa, il salotto buono dove riceveva amici e intellettuali di tutte le etnie, parlando di letteratura, di donne (ebbe molte amanti, anche musulmane) di calcio (fu psicologo della squadra di Sarajevo, mentre dalla Stella Rossa di Belgrado lo cacciarono come un ciarlatano). Aveva una moglie, diventata presidente della Croce Rossa bosniaca, di cui era notoriamente succube, una figlia cantante rock e un figlio rimasto estraneo alla politica, ma molto attento agli interessi di famiglia, nel piccolo regno di Pale, da dove Karadzic e il suo generale governavano con pugno di ferro il loro piccolo popolo affamato, decidevano i bombardamenti, le postazioni dei cecchini, i lanci di granate mirati persino sulle case degli amici e sull’ospedale in cui aveva lavorato come dottore. E poi si spartivano la ricostruzione. Gli inviati dell’epoca che poterono incontrarlo, sotto quel ciuffo grigio in disordine, scoprirono una vena d’ironia tutta balcanica, un discreto livello di visione politica e un inglese fluente. Eppure era la stessa persona che sosteneva la superiorità della razza montenegrina, gente alta e forte, per la ”lunghezza della tibia”. [...]» (Massimo Nava, ”Corriere della Sera” 22/7/2008). «Immagine vivente della tragedia balcanica. La televisione lo ha mandato in onda infinite volte, con il suo ciuffo bianco ribelle, giornali e libri ne hanno descritto la controversa personalità: psichiatra, poeta, ”messia” fanatico della causa serba, irriducibile teorico della pulizia etnica [...] il numero 2 di Sutjeska Ulica, centro storico di Sarajevo. Qui il professor Karadzic viveva con la famiglia, la moglie Liljana, anch’essa psichiatra, il figlio Sasha e la figlia Sonja e qui riceveva gli amici della Sarajevo multietnica, i colleghi dell’ospedale e la cerchia d’intellettuali e scrittori presso i quali cercava di accreditarsi come uno dei maggiori poeti serbi viventi. C’erano serbi, musulmani, croati e montenegrini come lui, arrivato a studiare a Sarajevo dal villaggio di Petnjica [...] Nessuno riesce a spiegare la brillante carriera universitaria e professionale che gli fruttò - sotto il regime di Tito - un appartamento privato a Sarajevo, la possibilità di esercitare la libera professione e persino un anno di specializzazione alla Columbia University di New York. Così come nessuno a Sarajevo riconosce la validità dell’opera poetica, poesie e favole per bambini (!), pur apprezzata da intellettuali del calibro di Dobrica Cosic, padre spirituale del nazionalismo serbo ed ex presidente della jugoslava. I maligni ebbero il sospetto che Karadzic, iscritto allora al partito comunista come tutti, facesse anche la spia per ottenere privilegi. Altri ricordano il suo disperato bisogno di successo e di benessere, tanto da immischairsi in una truffa finanziaria per costruirsi la villa a Pale. [...] Prima di sposare la causa serba, Karadzic sostenne la superiorità montenegrina, per la ”lunghezza della tibia”. [...]» (Massimo Nava, ”Sette” n. 37/1997). «Altezza: uno e 85. Occhi: marroni. Capelli: grigi. Segni particolari: eccentrico e vistoso. [...] dopo la firma degli accordi di Dayton, dicembre 1995, i servizi segreti americani e francesi discussero un piano per ucciderli. Agenti sotto copertura li ebbero più volte nel mirino, ma l’ordine dall’alto non arriva. Mladic ripara in Jugoslavia. La Nato, che in Bosnia ha 50 mila uomini, progetta di catturare almeno Karadzic. L’’Operation Amber Star” prevede raid di elicotteri con centinaia di teste di cuoio francesi che dovrebbero neutralizzare i trenta uomini della scorta mentre un commando Usa cattura Karadzic. Nel maggio ”97 Chirac organizza un summit segreto in margine a un vertice Nato: ci sono Clinton, il tedesco Kohl e il britannico Blair. Tema: l’Operazione Stella ambrata. Nella ricostruzione di ”Time”, Chirac avrebbe detto: ”Dovremmo avvertire i russi per ragioni diplomatiche e gli italiani perché hanno un contingente nella nostra zona intorno a Pale”. Pausa: ”Ma se avvertiamo Roma e Mosca tanto vale fare una conferenza stampa”. Il piano fallì comunque pochi mesi dopo. Gli americani accusarono un maggiore dell’intelligence francese, filo-serbo, di aver parlato troppo. Da allora, i pesci grossi sono sempre sfuggiti ai blandi tentativi di cattura. Mladic a Belgrado, dove aveva un posto fisso allo stadio. Karadzic avvistato in Russia, a Belgrado, in un ristorante di Sarajevo, mentre sua moglie Liljana rimane a Pale, con i figli» (Michele farina, ”Corriere della Sera” 1/3/2002). «Sarà la storia a dimostrare che il signor Karadzic è l’unico vero pacificatore di questa regione […] Se mi avessero ascoltato, ci sarebbe stato meno spargimento di sangue, meno case distrutte e bruciate […] I veri colpevoli possono essere facilmente trovati: sono gli uomini di cui si circonda l’ex presidente e leader bosniaco Alija Izetbegovic […] L’intervento delle autorità internazionali ha costretto i serbi onesti a dividere il potere con le marionette imposte dal mondo» (’Corriere della Sera” 11/4/2001).