4 marzo 2002
Tags : Elia Kazan
Kazan Elia
• (Elia Kazanjoglou) Istanbul (Turchia) 7 settembre 1909, New York (Stati Uniti) 28 settembre 2003. Regista • «Un uomo con due patrie: la mai dimenticata e non dimenticabile origine greco-turca (era figlio di un mercante greco con casa e bottega nella zona asiatica di Costantinopoli) e l´America che lo aveva accolto, attraverso l´obbligatorio passaggio di Ellis Island, quando aveva solamente quattro anni. Un uomo con due anime: quella di sinistra, quella dell´ideologia che lo aveva conquistato quando aveva venticinque anni ed era entrato per un anno e mezzo nelle fila del Partito Comunista e che apparentemente, in versione populista, traduceva nei suoi film e l´uomo che quindici anni dopo aveva “named names”, aveva fatto i nomi dei suoi compagni di militanza durante la caccia alle streghe maccartista. Un uomo con due volti: quello bonario di chi porta stampato in faccia “il sorriso di tutti coloro che sono nati in Anatolia”, che vogliono farci accettare, voler bene, appartenere, (The Anatolian Smile è il secondo titolo del suo film sull´emigrazione, America America, in italiano Il ribelle dell´Anatolia, ispirato alla storia vera di suo zio Stavros) e quello di chi nella propria autobiografia, in tarda età, riesce a dire cose terribili su tutti. Soprattutto, un grande regista. [...] Uno dei grandi maestri del cinema americano degli anni ’50 e ’60 e un uomo - se si dimentica il celebre sorriso anatolico - difficile e ambiguo. Un regista di qualità, anche se qualche critico in questo momento tende a ridimensionare i suoi film come opere costruite attorno a un grande attore (il Brando di Fronte del porto, il James Dean di La valle dell´Eden, la Carroll Baker di Baby Doll), più che come un regista personale. Kazan è stato in ogni caso un personaggio ricco, vitale, innovatore che ha dato a piene mani il contributo di un´intelligenza brillante e multiforme a quell´America di cui tanto gli sarebbe piaciuto essere un figlio vero e non il figlio adottivo che deve sempre cercare l´approvazione e l´amore della sua patria di adozione. E anche se ai suoi ricordi è stato sempre leale, tanto da aver costruito sul suo passato di emigrante un bel libro e un bel film come America America (nel 1969), di Kazan è rimasto, quello, il solo legame con il “suo” passato (ma anche qui scorre il tema del tradimento e del sacrificio degli altri per il fine ultimo che è qui l´arrivare negli Usa), mentre il suo cinema ha trattato sempre problemi e temi fortemente “americani”, come in Fronte del porto, Un volto nella folla, Il compromesso, Gli ultimi fuochi. E anche la sua formazione, dal college in avanti (Williams prima, poi Yale), è stata una serie naturale di tappe di americanizzazione. Compreso quando, dopo essere entrato nel Group Theater, nel 1932, recitando in Waiting for Lefty e Golden Boy di Odets, nel 1934 era diventato membro del Partito Comunista, da cui uscì nel 1936. Era passato intanto alla regia teatrale, in un mondo culturale sempre legato alla sinistra, e quindi dirigendo testi di autori come Arthur Miller o Tennessee Williams. Nel 1947 era stato tra i fondatori dell´Actor´s Studio. Due anni prima, con Un albero cresce a Brooklyn, era arrivato alla regia cinematografica. Ed era stato subito un successo. Un successo che continuò senza soste sul piano professionale e si infranse sul piano della sua immagine personale quando nel 1952, invitato dalla Huac, la House Un-American Committee, e richiesto di fare i nomi dei suoi compagni di militanza, per paura di mettere a rischio la sua carriera, per sentirsi più americano, li fece. Un mese dopo firmava un nuovo contratto con Hollywood. In questi tempi di revisionismi e indifferenza morale magari questo non fa più tanta impressione: ma, tanto per dire, Jules Dassin fu costretto, per la sua denuncia, ad abbandonare l´America e Clifford Odets ne ebbe la vita distrutta. E val la pena di ricordare che Arthur Miller, che non denunciò nessuno, riuscì a conservare intatti la sua dignità, le sue convinzioni, e il rispetto degli altri. Di tutto questo Kazan non volle mai dichiararsi pentito, anche nelle ottocento e passa pagine della sua autobiografia, A Life, ultimo atto di arroganza di un uomo intelligente e, sotto la scorza seduttiva, aspro e difficile, anche con le donne, sedotte e maltrattate a centinaia (lo raccontava lui). Ed è una tentazione inevitabile rileggere almeno il suo film più celebre alla luce della sua posizione ideologici di “collaboratore”: e cioè Fronte del porto (del 1954), in cui Brando - bravissimo, il vero cuore e la vera forza del film - denuncia le collusioni mafiose del sindacato, con un gesto che potrebbe essere letto come una giustificazione a posteriori del gesto di Elia Kazan .E´ il bello e la tragedia dell´“arte” che da una personalità così complessa, collerica, sincera, ambigua, ambiziosa, come quella che esce attraverso le sue parole dalla autobiografia di Kazan siano nati alcuni dei grandi film di una Hollywood scomparsa, “pensante” e tuttavia capace di avvincere lo spettatore. Dopo i venti Oscar andati ai suoi film, le polemiche e i successi, il suo ultimo film prima del silenzio della vecchiaia e del disamore che aveva creato attorno a sé è stato, nel 1976, Gli ultimi fuochi: un poema su Hollywood che, filtrato da Francis Scott Fitgerald, parla di Irvin Thalberg, il grande produttore nel cui nome Elia Kazan, in coincidenza con i suoi novant´anni, è stato premiato agli Oscar del 1999 con il premio alla carriera: durante la cerimonia la Hollywood “liberal” gli ha rifiutato gli applausi» (Irene Bignardi, “la Repubblica” 30/9/2003) • «Chi andò a fare quattro passi nell’atrio. Chi, pur stando in poltrona, al momento dell’applauso incrociò le braccia. Chi applaudì senza alzarsi. Pochi tentarono un’ovazione in piedi rivolta al glorioso novantenne che il 21 marzo 1999 si presentò a Los Angeles sul palco dell’Oscar per ricevere l’Honorary Award. In questa estrema apparizione pubblica, Elia Kazan si trovò affiancati come “guardie del corpo” Martin Scorsese e Robert De Niro, a garanzia che dalla sala non partissero fischi. Che infatti non ci furono; ma sia la laudatio di Martin che il ringraziamento del premiato non sciolsero l’imbarazzo generale. Alla fine Kazan chiese alla moglie: “Devo dire altro?” Lei fece cenno di no; e lui si allontanò a capo chino. Ora che il mesto patriarca è uscito definitivamente di scena, c’è da temere che qualcuno, a epigrafe della sua odissea, tiri fuori la frase che suggella la morte di Joseph K. in Il Processo di Kafka: “...era come se la vergogna dovesse sopravvivergli”. In realtà, salutando uno dei maggiori uomini di spettacolo del XX secolo, più pertinente e pietoso sarebbe evocare la battuta pirandelliana del Padre nei Sei personaggi: “. .. quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza...”. L’errore irreparabile Elia Kazan lo compì a Washington il 10 aprile 1952, giorno in cui si presentò al Comitato per le attività antiamericane per confermare che ai tempi del Group Theatre, dal ’34 al ’36, era stato membro del Partito comunista. Non bastò, si pretese che facesse i nomi degli ex compagni. I traumi sofferti in gioventù da povero emigrante in un’America ostile, uniti alle pressioni minacciose dell’industria pronta a metterlo sulla lista nera, indussero il meschino a cedere a un’intimazione peraltro virtuale. I “cacciatori di streghe” conoscevano benissimo fatti e misfatti dei colleghi che gli chiedevano di denunciare, il loro scopo era solo quello di svergognare lui e loro insieme. Eppure, così va il mondo: nel caso di altri, che si comportarono ben peggio, tutto fu dimenticato e perdonato, mentre per Kazan scattò la condanna al disprezzo perpetuo. C’è da augurarsi che gli storici fortunati non commettano l’errore di liquidare questo meraviglioso creatore di spettacoli sulla base di una singola debolezza. Nel Group l’avevano battezzato Gadg, che vuol dire aggeggio, forse perché in scena e fuori si era rivelato un factotum. Attore in Aspettando Lefty del suo amico Clifford Odets, impersonò il taxista che incita allo sciopero: “Tutti pensarono che l’avevamo veramente tirato giù da un taxi” scrisse Harold Clurman in The fervent years. Molto presto passò alla regia, animato da un gusto del realismo che non rinunciava alle fantasie della messa in scena, fondendo insieme il metodo Stanislavskji, la psicoanalisi e i contenuti sociali. Scoprì per primo e accompagnò al successo i talenti drammaturgici di Tennessee Williams e Arthur Miller, ispirati complici nel suo sforzo di cambiare la faccia del teatro americano, fu tra i fondatori e animatori dell’Actor’s Studio, casa madre del nuovo verbo recitativo, inventò Marlon Brando e tanti altri protagonisti in scena e sullo schermo. E va precisato che sul piano professionale non fu l’incidente maccarthysta a tagliargli le gambe, ma gli insuccessi dei film che seguirono il clamoroso Fronte del porto (1954). Elia si sfogò a scrivere notevoli romanzi come America America e Il compromesso (da cui trasse puntualmente film sfortunati), pubblicò una voluminosa e palpitante autobiografia di quasi mille pagine. Ma l’ultimo lunghissimo capitolo della vita fu costretto ad attraversarlo, sempre più amareggiato, senza riuscire a combinare neanche un film. Se gli amici di un tempo gli avevano tolto il saluto, i falsi amici dietro le scrivanie del potere gli avevano tolto la fiducia» (Tullio Kezich, “Corriere della Sera” 30/9/2003) • «La sua personalità è presente in tutti i film che ha girato, con le sue lacerazioni, i complessi, le memorie. È lui che ripensa al suo successo nell’eroico Viva Zapata!, è anche la sua famiglia quella irlandese di Un albero cresce a Brooklyn, è lui che ama e odia il padre come Cal della Valle dell’Eden, che combatte il puritanesimo sessuale nel capolavoro Splendore nell’erba, che confessa i peccati della pubblicità e dell’adulterio nel Compromesso è lui — infine — che si identifica nel produttore Thalberg-DeNiro nel meraviglioso Gli ultimi fuochi, tratto da Fitzgerald. Ed è soprattutto al suo tradimento che si riferisce quando Brando depone contro il boss malavitoso di Fronte del porto, un film dove i sindacati e gli operai non fanno una gran figura, che nessuno voleva realizzare, che fu girato fuori dagli studios e prese poi 8 Oscar. Studente quasi modello, con un talento che nasce proprio nella forza del dubbio, Kazan sposa la causa comunista dal ’34 al ’36, per 16 mesi, dopo che la crisi capitalista della Depressione aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia. Ma anche perché era entrato negli anni ’30 nel Group Theatre, alla base dell’Actor’s Studio di Strasberg, un marchio di fabbrica che viene diritto dalle teorie di Stanislavskji sull’identificazione e dalla psicanalisi freudiana. Nel gruppo dove militarono anche Welles e Losey, Kazan farà l’attore, conoscerà il teatro progressista di Clifford Odets, ma quando stracciò la tessera comunista ricordò che fu processato in una pasticceria dai soci: 22 voti contro, 2 pro. Nasce anche da qui il suo desiderio di rivincita che esplose poi nella delazione e che rovinò la vita di molti, tra cui l’amico Odets e il collega Dassin. Un momento della sua vita che Kazan ha sempre difeso, anche pagando una pubblicità sul “New York Times”. [...] Al momento dell’Oscar Hollywood si divise in due, i buonisti, tra cui Spielberg, Heston e molte delle sue riconoscenti attrici, e quelli che non potevano dimenticare, come Rod Steiger. Fu definito “il genio delle due coste”, perché aveva avuto successo sia a Broadway, dove mise in scena William Inge, tutto Miller, compreso Dopo la caduta e, con amore complice, tutti drammi bellissimi di Tennessee Williams, sia nella mai amata Hollywood, spesso con la riduzione di pièces teatrali. Scrisse i suoi film spesso con autori di chiara fama come Steinbeck (Viva Zapata!), lo stesso Williams (per Baby Doll) e Harold Pinter (Gli ultimi fuochi): girando l’ultima scena di De Niro che si aggira solitario negli studios deserti, Kazan sapeva che sarebbe stato il suo ultimo ciak, la fine di una straordinaria carriera. Kazan fu grande amico e direttore di attori, che studiava a lungo e di cui non scartava nulla. Non si considerava un genio, spesso rimpiangeva occasioni perdute, si chiedeva sempre se la regia fosse arte o tecnica, ma era un tipo tosto, capace di lavorare anche la mattina di Natale, fiducioso nel peccato ma anche nella redenzione dell’uomo: pur non religioso, aveva pìetas. E aveva un grande fiuto nel riconoscere i talenti: un giorno vide seduto su uno sgabello alla Warner un giovanotto che lo invitò a fare un giro sulla sua moto; terrorizzato, Kazan accettò di malavoglia e quando tornò aveva scoperto che il ragazzo, James Dean, era perfetto per il suo Cal ne La valle dell’Eden» (Maurizio Porro, “Corriere della Sera” 30/9/2003).