Varie, 4 marzo 2002
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Kiefer Anselm
• Donaueschingen (Germania) 8 marzo 1945. Artista. Pittore • «Il pittore che meglio ha interpretato, nei nostri anni, un’idea antimondana dell’arte, basata tutta su una ricerca drammatica di valori primi dopo le rovine della storia. [...] Da molti ritenuto l’artista più grande non solo della sua generazione, ma dell’intero universo artistico d’oggi, è un ”caso”, comunque, che mette d’accordo tutti (come forse era accaduto solo a Bacon). Si affaccia alla scena artistica con libri-opera in cui stratifica fotografie, disegni, collages, brandelli di materie naturali. Memorabili restano certe pagine d’argilla, una sorta di viaggio iniziatico alla ricerca dell’identità profonda dei luoghi, delle forme, delle situazioni. Nelle serie successive di grandi dipinti, il tempio greco e la piramide (ma anche l’aereo da guerra), entrano nelle visioni di momenti fatali (come Waterloo), oppure con complessi montaggi simbolici (il serpente, le ali di Icaro, Iside e Osiride, Sigfrido). Pittura e cose, natura e artificio, in un intarsio (mai letterario) da autentico alchimista dell’immagine» (’Corriere della Sera” 26/11/2001) • «Fama d’artista amletico, di uomo problematico e difficile. Una diceria, ovviamente [...] Un vero tifoso nordico di Napoli (’ci sono venuto la prima volta nel ’69, ma mi sembrava il Medioevo”)» (Marco Vallora, ”La Stampa” 11/11/2003) • «Personalmente mi sento sottilmente un artista sotterraneo. L´anti-arte ha distrutto l´arte con l´intenzione di mostrare l´arte. Oggi nell´arte è tutto possibile e in nome di una presunta democraticità. I musei espongono di tutto. Ecco la confusione. [...] Se penso alla mia concezione dell´arte devo dire che i nuovi media non hanno sostanza, non hanno valore. Come fai a mostrare un dipinto attraverso Internet? E´ impossibile. Puoi vedere solo ciò che già conosci. La fotografia ferma un attimo ma non ha la profondità della pittura, non ha l’anima che un pittore è costretto a mostrare con un quadro. La vera arte nasce dalla combinazione di tutti i sensi» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 24/11/2003) • «Oggi il più celebrato e ricercato artista tedesco, una vera star [...] L’artista più tedesco emerso negli anni della resurrezione postbellica dell’Europa; il più tedesco nella mentalità, nell’azione, nel simbolo. Il più tedesco nel corrispondere al pre e al post Muro di Berlino. Un artista in movimento, ”nella storia” ma che della storia scava le fondamenta per ritrovare l’arcaico, l’originario: un tema caro a pensatori come Benjamin e Adorno, per esempio. La storia per Kiefer è soltanto quel continuo passaggio dal futuro al passato, incessantemente, poiché il presente non c’è se non in quel milion esimo di secondo in cui trapassa e sembra perduto per sempre. In un certo senso, non gli interessa né il futuro né il passato, vive perennemente questa disgregazione e ricreazione di sé in quell’aktion che gli fu data, come testimone, dal grande sciamano e maestro Joseph Beuys. ”Non sono interessato a creare delle strutture stabili, vorrei mostrare un processo”, dice. l’idea moderna, e per questo senso Kiefer è ancora un artista del Novecento. Ma sembra tener conto del XXI secolo e delle sue anticipazioni ”catastrofiche”. Non è un artista della stasis, ma non è nemmeno [...] un artista del flusso perenne, un bergsoniano dall’èlan vital. Kiefer è un illuminista romantico, uno che afferma nell’opera il movimento ma soltanto perché vuole essere lui il fulcro dinamico di una corrente che non corre nel tempo e nemmeno nello spazio. Corre nello spirito, hegelianamente inteso. Quando Kiefer dice che la distruzione è il presupposto di ogni creazione, ma proietta questa affermazione, in sé non nuova, sul fondale dei suoi ”sette palazzi celesti” sorretti dalla simbologia cabbalistica; quando evoca lo tzim tzum, l’atto creativo di Dio, che trattiene e sottrae una parte della propria potenza perché non diventi ”catastrofica” per il mondo che ha creato; quando evoca l’anabasi e la catabasi (interiore), ecco, che cosa sta affermando effettivamente? Qual è l’ispirazione e la sapienza iniziatica che lo rende demiurgo e sacerdote del rito? Poiché è tedesco, e parla della mistica ebraica, e ci spiega come ogni torre, sulla base degli attributi simbolici, evochi gli angeli caduti, la melancolia dureriana, il monte Ararat, sei portato a pensare che elegga sé stesso a ponte fra la colpa (il passato) tedesco e la prospettiva apocalittica dell’ebraismo (il futuro come messianico tempo che prepara la fine, quello implicato anche nel Kairos paolino); ma in realtà, quel distruggere per rigenerare non è una versione camuffata dell’Aufhebung hegeliana, il sopprimere per conservare che fonda la dialettica dello spirito? Alla fine di tutto - poiché il viaggio kieferiano è irto di pericoli - anche l’uomo che verrà è una figura che nega la propria immagine, si nega in una sorta di fuoco rituale da cui, simbolicamente, scompaiono torre dopo torre le parti del corpo e resta, dice Kiefer, soltanto la testa. una metafora del sapere e della sua maledizione, ma è anche una possibilità del messianismo, e già Scholem ne aveva indagato la duplice valenza nella mistica ebraica come prospettiva apocalittica ovvero spiritualista (come discesa in se stessi, appunto): ”La redenzione trasforma e distrugge la storia ed è pertanto un evento connesso con il futuro”. sorprendete, per esempio, ascoltare Kiefer mentre dice che la sua ispirazione per i palazzi celesti gli è venuta quando, trovandosi dentro l’Hangar Pirelli, ha avvertito nello spazio un ”accumulo claustrofobico di lavoro”. Che sia una esperienza gnostica a creare questi giganti che sfidano la gravità? Il potenziale crollo delle torri potrebbe coincidere con lo squillo di trombe dell’apocalisse e dunque mutarsi in un sovvertimento ”storico e cosmico” - per usare le parole di Scholem - immediatamente collegabile ai tempi ultimi. Il messianismo ebraico, secondo il grande studioso, ”è una teoria della catastrofe” e Kiefer sembra aver inscenato, in una adeguata grandezza di spazio, quell’’elemento rivoluzionario, catastrofico, nella transizione da ogni presente storico al futuro messianico”. E non sembri lontana questa visione dallo spirito romantico tedesco, di cui Kiefer si dice erede, poiché era sempre Scholem a individuare in questa disposizione catastrofica l’elemento della continuità, ”una continuità che implica la dialettica”. Implica, per Kiefer, l’Aufhebung hegeliana. E si capisce come tutto questo possa diventare ”poetica”. Anzi: si chiarisce meglio perché l’artista a un certo punto affermi che l’aggettivo celeste, associato ai palazzi, ha un’intonazione decisamente ironica. ironico in quanto la scienza di oggi, incontrando la simbolica cabbalistica, o forse inverando il principio stesso degli antichi fabbri (il ”far presto”, ovvero l’accorciamento dei tempi), ha messo l’uomo postmoderno di fronte all’evidenza che non vi è nulla di fisso, nemmeno la posizione e la durata delle stelle, e pertanto non ha più senso parlare di Cielo e di Terra se non per come queste due calotte dell’unica sfera cosmica esprimono un diverso grado di luminosità e di densità materiale e concettuale: l’una dà la carne al corpo, l’altra la dissolve nel pensiero. Il senso della rovina come abbreviazione del tempo è dunque il deus ex machina che sostiene, al posto della legge di gravità, l’architettura dei sette palazzi; la rovina è l’immagine della sconfitta ”storica” di ogni kathecon (ciò che trattiene il tempo della fine). In sostanza, se l’ebraismo porta con sé l’interdizione delle immagini (il vitello d’oro e il serpente di bronzo sono lì a mettere in crisi il paradigma), Kiefer compie una operazione iconoclasta, innalza le rovine come una sorta di profezia di ciò che deve ancora accadere: la disgregazione. E se qualcosa ancora non si è realizzato, realizzato nella disgregazione secondo la mistica dialettica dei contrari, anche la sua immagine è effimera, ”rovina” appunto. In questa navigazione incerta, dove tutto accade e scompare per riapparire in una perenne trasformazione, che diventa poetica dell’instabile, ciò che sorprende è la prontezza eloquente, quasi pianificata, con cui Kiefer risponde alle domande dei suoi interlocutori. La stabilità della parola, la solidità dialettica della costruzione parlata, lenta, ma inesorabile, si sovrappone all’architettura catastrofica e la tiene in miracoloso, messianico equilibrio» (Maurizio Cecchetti, ”Avvenire” 26/9/2004).