Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  marzo 04 Lunedì calendario

King Stephen

• Portland (Stati Uniti) 21 settembre 1947. Scrittore. Ha esordito nel 1974 con Carrie, pubblicando in totale oltre cinquanta opere, fra romanzi e antologie di racconti e vendendo circa 350 milioni di copie nel mondo. Alcuni dei suoi titoli più famosi, come Misery e Shining , sono diventati film di successo (’Corriere della Sera” 17/10/2009) • «A sua madre, Nellie Ruth Pillsbury, avevano detto che non avrebbe mai potuto avere bambini. Tanto che i coniugi King, due anni prima, avevano adottato un bambino di nome David Victor. Il papà del futuro scrittore di paura, Donald, faceva il venditore porta a porta per l’Electrolux ma non era un tipo tranquillo, anzi tendeva all’avventuroso. Lo testimoniava il suo passato, era stato capitano della marina mercantile, ma soprattutto il suo presente. Una bella sera, infatti, Donald King disse alla moglie Ruth: ”Esco a comprare le sigarette”. E non si fece più vedere. Il fratello di Stephen decise, nel gennaio del 1959 (i King si erano trasferiti, dopo molte peripezie, a Durham nel Maine), di fare l’editore e cominciò a pubblicare un giornalino ciclostilato di notizie locali. Il titolo era ”dave’s rag”, costo cinque centesimi. Fu qui che il dodicenne Stephen debuttò come giornalista. Il suo primo articolo parla di tv [...] Il giornalino ciclostilato del fratello di King conteneva, come un vero giornale, anche inserzioni pubblicitarie. Molte di queste facevano réclame ai libri di Steve King. Eccone uno: ”Un nuovo libro di STEVE KING. Trentuno classici! Da IL RAGAZZO RAPITO a TOM SAWYER, e molti altri! Richiedetelo entro tre settimane, solo 30 centesimi”. [...] Un amico del tempo così descrive King da ragazzo: ”Stephen pareva un tontolone, grande e grosso com’era. Quando veniva giù per la via leggendo un libro si sapeva già che sarebe caduto o andato a sbattere contro un cartello”. Stephen leggeva tanto e passava molti sabato pomeriggio al cinema Ritz, dove, secondo un altro testimone dell’epoca, imparò a scrivere. Deve essere vero se, a 14 anni, scrisse un romanzo tratto dal film Il pozzo e il pendolo. Ne tirò 250 copie al ciclostile del fratello. Fissò il prezzo, dieci cent l’una, e le portò a scuola. ”Rimasi sbalordito: in soli tre giorni avevo venduto qualcosa come settanta copie... era come se avessi una licenza per rubare. Fu la mia prima esperienza con un best seller” [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 20/1999). «[...] continua imperterrito a scrivere racconti, quasi tutti di tema fantascientifico, inviandoli alle riviste specializzate che li rifiutano perché ancora acerbi e, forse, troppo pessimisti. Non ha ancora scoperto la sua vera vocazione: il terrore. La scoprirà in circostanze a dir poco romanzesche. Ricordate che il padre era scomparso [...] dopo aver pronunciato la fatidica frase: ”Esco a comprare le sigarette?” Bene, proprio quel padre fuggiasco e fantasma gli farà indirettamente un dono eccezionale. Un giorno, il quattordicenne Steve viene informato che nella soffitta della casa dei suoi zii ci sono delle cose appartenute al padre. Sono dentro una scatola. Steve le apre e trova una collezione di romanzi horror. L’autore che appare con più frequenza è il maestro dell’incubo Howard Phillips Lovercraft (che cognome inquietante!). In quella soffita Steve King diventa Stephen King, lo scrittore di paura. Nell’autunno del ”72 Stephen va alle superiori. La scuola è fuori città e il comune di Durham mette a disposizione degli studenti un carro funebre trasformato in scuolabus. un altro segno (macabro e grottesco) del destino [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 21/1999). «Gli hobbit andavano forte quando io avevo diciannove anni. Ci sarà stata una mezza dozzina di Merry e Pippin a sguazzare nel fango dei campi di Max Yasgur durante il grande festival di Woodstock; i Frodo erano almeno il doppio e i Gandalf hippie neanche si potevano contare. Il signore degli anelli era popolarissimo e, sebbene non fossi riuscito ad andare a Woodstock (che rimpianto), credo di poter dire di essere stato uno hippie, almeno a metà. Perlomeno, lo ero abbastanza da aver letto i libri di Tolkien ed essermene innamorato. I romanzi della Torre Nera, come la maggior parte delle saghe fantasy scritte da quelli della mia generazione, sono figli di quei libri. Ma, sebbene io avessi letto Tolkien già tra il 1966 e il 1967, non mi misi subito a scrivere. Mi ero lasciato catturare (e con totalità commovente) dalla sua straordinaria immaginazione e dall’ambizione del suo narrare, ma volevo scrivere una storia mia mentre, se mi ci fossi messo allora, avrei scritto la sua [...]. Nel 1967 non sapevo che genere di storia sarebbe stata la mia, ma non era importante; confidavo di capirlo quando l’avessi incrociata per la strada. Avevo diciannove anni ed ero presuntuoso. Di certo presuntuoso abbastanza da credere di poter concedere un po’ di tempo alla mia musa e al mio capolavoro (perché ero certo che sarebbe stato un capolavoro) [...]. A diciannove anni si è egoisti e le cose a cui teniamo sono circoscritte a noi. Avevo un allungo notevole, e ci tenevo. Avevo un’ambizione notevole e tenevo anche a quella. Avevo una macchina per scrivere che mi portavo da un buco di appartamento all’altro, con un pacchetto di sigarette in tasca e un sorriso sulle labbra. I compromessi della mezza età erano lontani, gli insulti della terza età oltre l’orizzonte. Come il protagonista di quella canzone di Bob Seger che usano ora per vendere macchine, mi sentivo infinitamente forte e infinitamente ottimista; avevo le tasche vuote, ma la testa piena di cose da dire e il cuore pieno di storie da raccontare. Ora suona banale; allora era meraviglioso. Era il massimo. Volevo soprattutto penetrare le difese dei miei lettori, volevo sconvolgerli ed estasiarli e cambiarli per sempre usando nient’altro che una storia. Ed ero convinto di esserne capace. Ero convinto di essere fatto per questo. Quanta presunzione ci trovate? Molta? Poca? In ogni caso, non mi scuso. Avevo diciannove anni. Non c’era un solo pelo grigio nella mia barba. Avevo tre paia di jeans, un paio di scarpe e l’idea che il mondo fosse la mia ostrica, e nulla di quanto accadde nei vent’anni successivi mi smentì. Poi, verso i trentanove, cominciarono i guai: alcol, droga, un incidente d’automobile che cambiò il mio modo di camminare (tra le altre cose). Di questo ho scritto abbastanza e non occorre che ci torni sopra. E poi per voi è lo stesso, giusto? Prima o poi il mondo vi manda una merda di sbirro a mettervi i bastoni tra le ruote e a farvi vedere chi comanda. [...] Ma io continuo a pensare che sia un’età molto bella. Forse la migliore. Puoi farti di rock tutta la notte, ma quando la musica finisce e passano gli effetti della birra, sei in grado di pensare. E di fare grandi sogni. Prima o poi lo sbirro di merda ti rimette al tuo posto, e ti ci fa stare, con le buone o con le cattive [...]. Io credo che ci siano due tipi di romanzieri, nei quali è incluso quell’abbozzo che ero io nel 1970. Quelli inclini all’aspetto più letterario o ”serio” esaminano ogni possibile soggetto alla luce di questo interrogativo: che significato può avere per me scrivere questa storia? Quelli il cui destino (o ka, se volete) è di scrivere anche romanzi popolari si porranno prevalentemente una domanda molto diversa: che cosa può significare per gli altri che io scriva questa storia? Il romanziere ’serio’ cerca risposte e interpretazioni per sé, il romanziere ’popolare’ cerca un pubblico. Entrambi sono egualmente egoisti. Ne ho conosciuti molti, vi do la mia parola. Credo comunque che già all’età di diciannove anni avessi riconosciuto la storia di Frodo e dei suoi sforzi per liberarsi dell’Unico Anello come parto del secondo gruppo. Erano le avventure di una banda di pellegrini fondamentalmente anglosassoni in un’ambientazione mitologica dal sapore norvegese. Mi piaceva l’idea della ricerca – l’adoravo, in effetti – ma non avevo interesse né per i gagliardi campagnoli di Tolkien (non che non mi piacessero, anzi) né per le sue boscose ambientazioni scandinave. Se avessi cercato di dirigermi in quella direzione, avrei sbagliato tutto. Così attesi. Nel 1970 avevo ventidue anni e nella barba mi erano comparsi i primi peli grigi (credo che ci avessero a che fare i due pacchetti e mezzo di Pall Mall che fumavo quotidianamente), ma anche a ventidue anni ci si può concedere il lusso di aspettare [...]. Poi, in una sala cinematografica quasi deserta (il Bijou di Bangor, nel Maine, se può interessare), vidi un film diretto da Sergio Leone. Si intitolava Il buono, il brutto, il cattivo e prima ancora di essere arrivato a metà capii che quello che volevo scrivere era un romanzo che contenesse il senso della ricerca e la magia di Tolkien, ma avesse come scenario il West quasi assurdamente maestoso di Leone. Se avete visto questo bizzarro western solo sullo schermo del vostro televisore, non potete capire di che cosa stia parlando... vi supplico di perdonarmi, ma è la verità. Su uno schermo cinematografico, proiettato con il giusto obiettivo Panavision, Il buono, il brutto, il cattivo è un film epico che rivaleggia con Ben Hur. Clint Eastwood sembra alto sei metri, con ogni singolo pelo della barba grosso come una sequoia, i solchi che incorniciano la bocca di Lee Van Cleef sono profondi come canyon [...]. Lo scenario del deserto sembra estendersi almeno fino all’orbita di Nettuno. E le canne delle pistole sono più o meno grandi quanto l’Holland Tunnel. Più che l’ambientazione, ciò che desideravo era l’elemento epico, le dimensioni apocalittiche. Il fatto che Leone non sapesse un accidente di geografia americana (secondo uno dei personaggi Chicago è dalle parti di Phoenix, in Arizona) contribuiva al senso di grandiosa dislocazione del film. E nel mio entusiasmo – quello che può avere solo un giovane, penso – volevo scrivere non solo un libro lungo, ma il più lungo romanzo popolare della storia. Non ci sono riuscito, ma non credo di essermela cavata male; La Torre Nera, dal primo al settimo volume, racconta veramente una sola, grande storia che nell’edizione originale, in formato tascabile, con i primi quattro volumi supera di poco le duemila pagine. Gli ultimi tre corrispondono ad altre tremilacinquecento cartelle dattiloscritte. Non sto cercando di insinuare che la lunghezza abbia qualcosa a che fare con la qualità; dico solo che desideravo scrivere un romanzo epico e per certi versi ci sono riuscito. Se doveste chiedermi perché lo volessi fare, non vi saprei rispondere. Forse dipende in parte dall’essere cresciuto in America: costruisci l’edificio più alto, scava la buca più profonda, scrivi il libro più lungo. E quell’aria pensierosa e perplessa che si assume quando si tira in ballo la motivazione? A me pare che anche questo rientri nell’essere americano. In definitiva ci riduciamo a dire: al momento mi era sembrata una buona idea» (’Corriere della Sera” 29/6/2003). Cosa avrebbe fatto se non fosse uno scrittore: «Oh, sarei morto. Mi sarei ubriacato a morte, drogato a morte, oppure ammazzato o qualche altra dannazione. La scrittura è come una grande pompa che mantiene la pressione gradevole e costante; e che permette di sfogare ogni ingorgo dell’anima.Vengono fuori tutte le insicurezze, le paure; ed è anche un gran bel modo di passare il tempo» ("Corriere della Sera", 13/1/2001).