Varie, 4 marzo 2002
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Kitano Takeshi
• Tokyo (Giappone) 18 gennaio 1947. Regista • «[...] Nato nel ’47 a Tokyo da famiglia non abbiente e lasciati gli studi, Takeshi Kitano approda in un cabaret da inserviente. Comincia a recitare per caso, per sostituire un comico. All’inizio degli anni 70 nasce il duo dei “Beats” e il giovane Kitano s’afferma come portavoce di una nuova comicità irriverente. Arrivano la radio e la televisione da dove la popolarità rimbalza al cinema. È vero che la sua carriera di attore ha un grande momento con Furyo di Nagisa Oshima ma il successo lo deve soprattutto ai film d’azione sulla mafia giapponese (yakuza). La star comincia a dirigere i propri film ma la svolta artistica non lo premia e solo dopo alcuni titoli senza fortuna, grazie ai festival europei, comincia l’affermazione. A metà anni 90 un grave incidente compromette parzialmente la mobilità facciale. Subito dopo la consacrazione del Leone d’oro veneziano a Hana-bi cui seguono L’estate di Kikujiro, Brother, Dolls e Zatoichi. Dipinge, scrive libri, ora è osannato dai critici e amato dal grande pubblico. Le sue creature sono marionette violente e malinconiche, e se non sparassero tanto si direbbero figlie del cinema comico muto.“Rido delle cose che fanno paura”, dice [...]» (Paolo D’Agostini, “la Repubblica” 3/9/2005) • «Opinionista, commentatore sportivo, conduttore di talk show, è un guerriero che usa come armi contundenti le parole e le immagini. Le sue prese di posizione sono sempre impopolari. È convinto, per esempio, che le donne e i bambini hanno mandato in rovina il Giappone. Altri suoi bersagli sono le attrici porno che pretendono di essere considerate normali lavoratrici, il rammollimento degli uomini giapponesi dovuto alla mancanza di guerre, il karaoke, la televisione (che consiglia di buttare). Insomma, un tipo sicuramente eccessivo che però ha il fegato di affrontare i tabù dei nostri tempi come le esagerazioni della democrazia (Antonio D’Orrico, “Sette” n. 38/1997). «Regista dalla doppia vita: per il gran pubblico giapponese è Beat Takeshi, ovvero il Benigni del Sol Levante, sgangherato e trasgressivo, capace di farsi beffe persino della yakuza, la mafia nipponica. Per gli appassionati di cinema di tutto il mondo, un autore di culto di film di surreale violenza, centrati su personaggi di gangster efferati. Un maestro di crudeltà capace di sorprendere, di tanto in tanto, con dolcezze e poesia» (G. Ma., “Corriere della Sera” 6/9/2002) • «Cinema fatto di estreme finezze e di ingenuità, trovate volgari e idee registiche assolutamente originali, Kitano non dovrebbe proprio essere visto come l’ultimo pezzo di sushi per occidentali annoiati. Anche perché non è un personaggio facile nemmeno per i giapponesi. Chi avrebbe mai potuto combinare una popolarità televisiva fatta di continui scandali, una carriera di comico, un’altra di commentatore sportivo, una ancora di scrittore, con un cinema che si ispira ai noir di Melville, alle opere più rigorose di Robert Bresson? Una specie di Maurizio Costanzo con la forza di Umberto Bossi che urla contro le cattive abitudini dei giapponesi (“Insegnare la libertà ai giapponesi è come dire a un cane di mettersi le mutande”), che ascrive alla mancanza di guerre la mollezza dei suoi conterranei, ai soldi e alle donne la rovina del Giappone, che detesta gli americani e l’invasione della loro cultura (“Finirà che ci sentiremo in obbligo anche per l’Aids”). Un Celentano anarcoide che dice di odiare i vecchi, le donne di mezza età, i giovani, i marmocchi, ma che nel cinema ha la grazia di Ozu. E, in tutto questo, scrive saggi sulla politica, disegna fumetti, gira video musicali per la figlia, oltre ad apparire ogni settimana in sette diversi programmi televisivi. Come attore è l’incontro con Nagisa Oshima per Furyo (1983) ad aprirgli gli occhi. Oshima gli affida il ruolo del sergente crudele e buffone che chiuderà il film con un meraviglioso sorriso prima di essere ucciso per crimini di guerra. Solo nel 1989, sul set di Violent Cop, Kitano esordisce dietro la macchina da presa prendendo il posto del regista ammalato. È successo immediato, in patria e all’estero. Nei successivi, Boiling Point e Sonatine, perfeziona la sua messa in scena, fatta di esplosioni di violenza all’interno di situazioni tranquille e visivamente perfette. Nel 1994 un terribile incidente di moto lo tiene a riposo per qualche anno. Quando esce dalla lunga degenza è cambiato. I suoi film sono più sentiti e privati. Come Hana-Bi, che nel ’97 vince il Leone d’oro a Venezia, e L’estate di Kikujiro. È guest star in film occidentali, da Johnny Mnemonic dell’artista americano Robert Longo alla sua prima regia fino a Tokyo Eyes del francese Jean-Pierre Limosin. E dirige Brother, il suo primo film girato in America, a Los Angeles. Ma l’atteggiamento verso la mollezza dei connazionali e contro gli americani non cambia. Anche se il suo cinema ha ormai proprio la grandezza dei classici di Hollywood» (Marco Giusti, “L’Espresso” 23/11/2000).