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 2002  marzo 04 Lunedì calendario

Kristof Agota

• Csikvand (Ungheria) 30 ottobre 1935., Neuchatel (Svizzera) 27 luglio 2011 Scrittrice • «Ho quattordici anni quando entro in collegio. Yano è in collegio già da un anno, ma in un’altra città. Tila resta ancora con mamma. Non è un collegio per fanciulle ricche, è piuttosto il contrario. È qualcosa tra la caserma e il convento, tra l’orfanotrofio e il riformatorio. Siamo circa duecento ragazze dai quattordici ai diciotto anni, ospitate e nutrite gratuitamente dallo Stato. I dormitori contengono da dieci a venti persone, in letti a castello muniti di pagliericci e di coperte grigie. Nel corridoio si trovano gli stretti armadi in metallo di cui possiamo disporre. Una campanella ci sveglia alle sei del mattino, e un’assonnata sorvegliante viene a controllare le camere. Alcune allieve si nascondono sotto i letti, altre scendono di corsa in giardino. Dopo tre giri del giardino facciamo dieci minuti di esercizi, poi torniamo dentro, sempre di corsa. Ci laviamo con l’acqua fredda (la doccia con l’acqua calda c’è solo una volta alla settimana), ci vestiamo, scendiamo in sala da pranzo. La colazione si compone di caffelatte e di una fetta di pane. Distribuzione della posta del giorno prima: lettere aperte dalla direzione. Giustificazione: “Siete minorenni. Facciamo le veci dei vostri genitori”. Alle sette e mezzo ci avviamo verso la scuola in ranghi serrati, cantando canti rivoluzionari per tutta la città. Dei ragazzi si fermano al nostro passaggio, fischiano, e ci gridano parole d’ammirazione o parole volgari. Tornate da scuola, mangiamo, e poi andiamo nelle aule di studio, dove si rimane fino al pasto serale. Nelle aule di studio è richiesto il silenzio assoluto. Che fare in quelle lunghe ore? I compiti, certo, ma i compiti vengono sbrigati in fretta perché sono totalmente privi d’interesse. Si può anche leggere, certo, ma gli unici libri che abbiamo sono di “lettura obbligatoria” e si leggono in fretta, e d’altronde quei libri, per la maggior parte, sono anche loro totalmente privi d’interesse. Allora, in quelle ore di silenzio obbligato, comincio a tenere una specie di diario, invento persino una scrittura segreta affinché nessuno possa leggerlo. Vi annoto la mia infelicità, le mie pene, le mie tristezze, tutto ciò che la sera mi fa piangere sommessamente nel mio letto. Sì, in quel periodo piango tutte le sere, per mesi interi o per anni, e piango tanto che in seguito non riuscirò a piangere quasi mai più, come se avessi già pianto abbastanza per il resto della mia vita. Piango la perdita dei miei fratelli, dei miei genitori, della nostra casa, che ormai è abitata da stranieri. Piango soprattutto la mia perduta libertà. Abbiamo, certo, la libertà di ricevere visite la domenica pomeriggio nel “salone” del collegio, anche dei ragazzi, in presenza di una sorvegliante. Abbiamo pure la libertà di passeggiare, anche con dei ragazzi, la domenica pomeriggio, ma solo nella strada principale della città. E sulla medesima strada passeggia una sorvegliante. Ma non ho la libertà di andare a trovare Yano che è soltanto a venti chilometri da qui, nella mia stessa situazione, e che non può, nemmeno lui, venirmi a trovare. Abbiamo il divieto di lasciare la città, e ad ogni modo non abbiamo soldi per il treno. Piango anche la mia infanzia, la nostra infanzia di tutti e tre, di Yano, di Tila e la mia. Sono svanite le corse a piedi nudi per il bosco sulla terra umida fino alla “roccia blu”; svaniti gli alberi su cui arrampicarsi, da cui cadere quando un ramo marcio si rompe; svanito anche Yano che mi aiuta a rialzarmi; svanite le passeggiate notturne sui tetti; svanito Tila che va a fare la spia da mamma. In collegio le luci si spengono alle dieci di sera. Una sorvegliante controlla le camere. [...] Gli anni Cinquanta. Tranne qualche privilegiato, sono tutti poveri nel nostro paese. Certi sono persino più poveri degli altri. In collegio siamo mantenute, certo. Abbiamo da mangiare e abbiamo un tetto, ma il cibo è talmente cattivo e insufficiente che abbiamo sempre fame. D’inverno abbiamo freddo. A scuola teniamo il cappotto, e ogni quarto d’ora ci alziamo per fare degli esercizi di ginnastica, così da scaldarci. Nei dormitori fa altrettanto freddo, dormiamo con le calze, e quando saliamo nelle aule di studio siamo costrette a prendere le coperte. A quell’epoca portavo il cappotto smesso di Yano, troppo piccolo per lui, un cappotto nero, senza bottoni, strappato sul lato sinistro. Un amico mi dirà un giorno: - Sapessi quanto ti ammiravo col tuo cappotto nero sempre aperto, anche in inverno, andando a scuola. Andando a scuola porto anche la cartella di un’amica, perché non ho una cartella mia e così metto i miei quaderni e i miei libri nella sua. La cartella è pesante e mi gelano le dita perché non ho i guanti. Mi faccio prestare tutto. Mi faccio prestare anche le scarpe, quando sono costretta a dare le mie da riparare al calzolaio. Devo restare a letto tre giorni per via del calzolaio. Non posso dire alla direttrice del collegio che non ho scarpe di ricambio per andare a scuola. Le dico che sto male, e lei mi crede, perché sono una brava allieva. Mi tocca la fronte e dice: - Hai la febbre. Almeno trentotto. Copriti bene. Io mi copro bene. Ma con cosa potrò pagare il calzolaio? [...] Marzo 1953. Stalin è morto. Lo sappiamo da ieri sera. Nel collegio, la tristezza è d’obbligo. Andiamo a letto senza scambiare parola. La mattina domandiamo: - Niente lezioni oggi? La sorvegliante dice: - No. Andate a scuola come al solito. Ma senza cantare. Andiamo a scuola come al solito, in fila, ma senza cantare. Sugli edifici sventolano bandiere rosse e bandiere nere. Il nostro insegnante di classe ci aspetta. Dice: - Alle undici suonerà la campanella della scuola. Vi alzerete in piedi per osservare un minuto di silenzio. Nel frattempo scriverete un tema intitolato “La morte di Stalin”. In questo tema scriverete tutto ciò che il compagno Stalin è stato per voi. Dapprima un padre, e poi un faro luminoso. Un’allieva scoppia in singhiozzi. Il professore dice: - Si controlli, signorina. Siamo tutti oltremodo rattristati. Cerchiamo però di dominare il nostro dolore. Visto lo stato di choc in cui vi trovate in questo momento, i vostri temi non saranno valutati con una nota. Noi scriviamo. Il professore si aggira per la classe, le mani dietro la schiena. Suona una campanella, noi ci alziamo in piedi. Il professore guarda il suo orologio. Noi aspettiamo. Dovrebbero suonare anche le sirene della città. Una ragazza vicina alla finestra guarda in strada e dice: - È solo la campanella della pattumiera. Ci risediamo, in preda alla ridarella. La campanella della scuola e le sirene della città suonano poco dopo, ci alziamo di nuovo, ma stiamo ancora ridendo per via della pattumiera. Rimaniamo così, in piedi, per un lungo minuto, scosse da un riso silenzioso, il professore ride con noi. Ho tenuto in tasca la fotografia a colori di Stalin per diversi anni, ma al momento della sua morte, avevo già capito perché mia zia aveva strappato questa foto durante un periodo in cui stavo da lei. L’indottrinamento era grande, e particolarmente efficace sulle giovani menti. Rudolf Nureyev, il grande ballerino russo dissidente, racconta: “Il giorno della morte di Stalin, sono uscito, sono andato in campagna. Ho aspettato che succedesse qualcosa di straordinario, che la natura rispondesse alla tragedia. Niente. Nessun terremoto, nessun segno”. No. Il “terremoto” è arrivato soltanto trentasei anni dopo, e non era una risposta della natura, ma dei popoli. Si è dovuto aspettare tutti questi anni perché il “padre” di tutti noi morisse veramente, perché il nostro “faro luminoso” si spegnesse, per sempre, c’è da sperarlo. Quante vittime aveva sulla coscienza? Nessuno lo sa. In Romania, si contano ancora i morti; in Ungheria, ce ne sono stati trentamila nel 1956. Ciò che non si potrà mai quantificare è il ruolo nefasto che la dittatura ha avuto per l’arte e la letteratura dei paesi dell’Est. Imponendo loro la propria ideologia, l’Unione Sovietica non ha soltanto impedito lo sviluppo economico di questi paesi, ha anche cercato di soffocare la loro cultura e la loro identità nazionale. Per quanto ne so io, nessuno scrittore russo dissidente ha mai abbordato o menzionato questo fatto. Che cosa ne pensano, loro che hanno dovuto subire il proprio tiranno, che cosa ne pensano, dunque, di quei “piccoli paesi senza importanza” che oltretutto hanno dovuto subire anche una dominazione straniera, la loro, quella del loro paese? È una cosa di cui hanno, o avranno un giorno vergogna?» (dal racconto autobiografico L’analfabeta).