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 2002  marzo 04 Lunedì calendario

LA CAPRIA Raffaele Napoli 8 ottobre 1922. Scrittore. Vincitore del premio Strega 1961 con Ferito a morte, autore di romanzi e saggi: Un giorno d’impazienza (1952), Amore e psiche (1973), Fiori giapponesi (1979)

LA CAPRIA Raffaele Napoli 8 ottobre 1922. Scrittore. Vincitore del premio Strega 1961 con Ferito a morte, autore di romanzi e saggi: Un giorno d’impazienza (1952), Amore e psiche (1973), Fiori giapponesi (1979). Fra le sue raccolte di saggi, perlopiù dedicati alla cultura partenopea cui è profondamente legato, Variazioni sopra una nota sola (1977), L’armonia perduta (1986), Letteratura e salti mortali (1990), Il sentimento della letteratura (1997) • « proprio uno scrittore magico. ”Il premio Campiello alla carriera, che mi hanno assegnato lo scorso settembre vorrei proiettarlo verso il futuro. Mi lascio alle spalle quindici libri, da Neve del Vesuvio a Lo stile dell’anatra, e ricomincio con un nuovo libro sulla mia Napoli, riprendo il discorso di Ferito a morte, degli anni Sessanta […] Mi sento come quei pittori che prima buttano giù i colori, e poi fanno due passi indietro per vedere che cosa hanno dipinto. Voglio dire che, a distanza, Napoli la riesco a capire meglio. Ma quando ci ricapito dentro, mi coinvolge ancora troppo: col suo dialetto, i suoi mille mari del golfo […] Credo che ci sia un invisibile sipario aperto su Napoli: si rappresenta in continuazione uno spettacolo dialettale che anticipa i mali della nazione. Si assiste chiaramente a fenomeni di criminalità e disoccupazione. Senza le ipocrisie di altre città che stanno più a nord”. Da ragazzo, al liceo Umberto I, i suoi compagni erano Napolitano, Antonio Ghirelli, Patroni Griffi. ”Quando litigavamo, o giocavamo a calcio, dialetto stretto. Era la nostra identità ancestrale. Adesso la televisione ha creato un italiano-base grigio e banale. Oggi un napoletano che va al nord non è più un emigrato: ma un viaggiatore costretto a nascondere il dialetto nello spirito e a parlare quella strana lingua televisiva […] Il numero uno rimane Roberto Murolo: lui fa sentire le melodie, ma ad una ad una anche tutte le parole col ritmo giusto del verso. Insomma è la poesia che genera la canzone napoletana […] Il dialetto mi riscalda come una specie di copertura materna. Quando scendo a Napoli, lo vado a cercare nelle zone più popolari, tra i venditori delle bancarelle di San Gregorio Armeno. Là si vendono i presepi tutto l’anno, riescono a trasmetterti il brivido di Natale anche a primavera […] Papà era un commerciante all’ingrosso di grani, fu anche presidente del consorzio agrario, e quindi era costretto a parlare italiano. Mentre mia madre alternava l’italiano al francese. Io e mio fratello, che oggi vive a Sanremo con la moglie Isa Barzizza, rubavamo il dialetto e i suoi misteri a Rosaria, la nostra cameriera. Lei era una cassaforte di napoletanità. Credeva agli spiriti, ai fantasmi, e cucinava ricette che purtroppo si è portata nella bara. Giocava al lotto la mattina prestissimo, perché non voleva dimenticare i sogni premonitori della notte: e vinceva pure. Mio fratello la chiamava ”l’usuraia’, perché ogni mattina, si faceva prestare da lei delle piccole somme che a fine anno diventavano un capitale” […] 1961. Con Ferito a morte vince il premio Strega. Ma lo ritira distrattamente. ”Da buon napoletano, per me viene prima l’amore della gloria e del potere. Durante la cerimonia dello Strega, ho conosciuto Ilaria, la donna che sarebbe diventata mia moglie: mi apparve subito così bella e sublime, che il primo istinto fu di cercare una macchina fotografica per fermare il suo sguardo”. Ilaria, è la Occhini, attrice toscana, nipote del grande Giovanni Papini. Non c’è stato, tra voi, uno scontro di dialetti? ”Dopo quarant’anni, lei mi chiama ancora Raffaele, mentre per gli amici sono Dudù. Lei è rimasta cattolica papiniana e io laico crociano. Da buona toscana, ama i ritmi della campagna. Non si spaventa pensando che gli alberi restano e tu muori. Napoli è un’altra cosa. Il mare mi dà il senso di non finire mai, di trasformazione: mi piace quello in burrasca, quello calmo a specchio, o grigio come il piombo fuso. E poi l’onda reinventa in superficie, in continuazione, una nuova luce. Ma dallo scontro dei dialetti, comunque, è nata Roberta: il nostro ”capolavoro equilibrato", che adora la Toscana, ma appena può fa un salto a Napoli […] Sono scettico, anche se rispetto la religiosità. Vede, io ho scritto con Franco Rosi la sceneggiatura di Mani sulla città, e anche di C’era una volta, con la Loren: film in cui ho studiato la mentalità scaramantica di Napoli. Nei vicoli più tormentati, il dialetto è come una membrana sottilissima tra superstizione e religiosità, sacro e profano. Parlarlo ti eccita […] Smitizziamo le presunzioni umane. Come Totò, che con i suoi ”parli come badi’, o ”chicche e sia’, sfotteva i perfezionisti dell’italiano. Ma sì, noi napoletani siamo per la democrazia spirituale. Napoli è come un’anfora antica, tirata su dal mare, tutta incrostata di conchiglie, apparentemente senza forma: ma se l’occhio è esperto, riesce a coglierne la bellezza originale. Perfetta, sinuosa, intrigante, modellata da un artista irripetibile, sicuramente napoletano” […] La motivazione del ”Campiello alla carriera’ con cui hanno premiato questo scrittore-farfalla che sfida, a ottant’anni, la lampada delle passioni: ”A Raffaele La Capria, che nelle forme della scrittura ha ridato al mondo l’armonia perduta”» (Paolo Mosca, ”Il Messaggero” 25/2/2002) • «’Guaglio’, tu hai letto troppi libri”, ripeteva il nonno, preoccupato che l’anima cortese del ragazzo non resistesse agli urti della vita. Invece quella gentilezza lo ha accompagnato fin sulla soglia degli ottant’anni, rivelandosi un efficace antidoto contro i soprassalti del destino e la volgarità del quotidiano. E i tanti (mai troppi) libri masticati e digeriti nel corso dell’esistenza, hanno costruito un’impalcatura culturale del tutto anomala nel panorama letterario italiano. […] ”A casa mia, non c’era nemmeno un libro - racconta -. La prima biblioteca l’ho formata io, con i libri della Utet. Pensa che iniziai a leggere Edgar Allan Poe perché mi incuriosiva il nome”. Navigando lungo questa rotta, lo scrittore sostiene d’aver capito che ”uno dei maggiori difetti degli italiani, non solo degli uomini comuni, ma anche degli intellettuali più generosi e raffinati, è quello di pensare in grande rimanendo, nonostante la grandezza dei pensieri, piccoli”, perché ”in nome di un’ideologia si riusciva con poche frasi a mettere a posto mezzo mondo, tralasciando la relatività e la complessità di tutte le cose che accadono”. Alla logica ideologica , che è la ”pratica dell’astrazione concettuale”, contrappone quindi quella che Goffredo Parise (l’autore italiano forse da lui più amato) chiamava la logica elementare . ”Cerco di non far sentire al lettore l’autorità intellettuale incombente di chi sta riferendo propri pensieri. Anche per questo, intervallo le riflessioni con racconti sullo stesso tema, cercando di rendere in qualche modo il senso di una verità. Oggi mi sembra siano tutti occupati a scrivere romanzi, dove in definitiva cambia un poco soltanto la storia... In questi romanzi ci sono pochi pensieri. Allora, da queste considerazioni e dalla mia voglia invece di dirli questi pensieri, di dirli nella accalorata maniera in cui li si può dire in un romanzo, è nato il mio stile saggistico-narrativo”. E dire che spesso Duddù (come lo chiamano gli amici) viene ricordato quasi fosse l’autore di un solo romanzo, quel Ferito a morte che nel ”61 gli regalò un’improvvisa fama insieme alla conquista (per un solo voto in più) del Premio Strega. ”La consapevolezza della stupidità delle cose che mi circondavano, rimanendo sempre lucida - spiega rievocando la stesura del suo capolavoro - mi ha suggerito di complicare e rendere sempre più problematico e raffinato, quasi per una compensazione, il modo di descriverle: l’organizzazione dei piani del racconto, le strutture della rappresentazione. Ferito a morte fu il raggiungimento di questo strano equilibrio: alla povertà del materiale, delle situazioni umane di cui parlavo (l’infantile dissipazione di una giornata trascorsa al Circolo Nautico) si contrapponeva la ricchezza della mia scrittura, che non si distaccava da quel materiale ”povero’, ma voleva rivelarne nuovi aspetti attraverso un accanito lavoro formale”. […] ”Ho sempre immaginato un altro me stesso che sosteneva idee completamente opposte alle mie - sottolinea -. Mi piaceva addirittura figurarmelo, questo altro me stesso, perché tutte le domande che mi poneva mentre scrivevo richiedevano, provenendo da qualche parte di me, una pronta risposta”. Ma l’altro , l’opposto, Duddù se l’è ritrovato a fianco anche in famiglia: difficile, infatti, immaginare qualcuno più diverso da lui del fratello Pelos, il Ninì di Ferito a morte. ”Era lieve e svagato, pieno di verve, inventava continuamente la sua vita e il suo linguaggio”, confessa lo scrittore, mettendo a fuoco un personaggio che rappresentava ”la napoletanità più civile”, quell’impasto di leggerezza e ironia che segnò una generazione nel dopoguerra e diede lo spunto a Vittorio Caprioli per Leoni al sole, splendido (quanto dimenticato) film. Chi era Pelos? Si potrebbero snocciolare decine di aneddoti e di storie su di lui. Ma ne basta una, l’ultima. Affidata alla voce del fratello: ”Proprio alla fine, gli restava ormai meno di un’ora di vita, vedendomi stravolto perché lui non ce la faceva a respirare e io non sapevo come aiutarlo, mi dice, sempre con quel suo sorriso strafottente: ”Duddù, ti serve qualcosa?’”» (Enzo d’Errico, ”Corriere della Sera” 16/6/2002).