Varie, 4 marzo 2002
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Lemieux Mario
• Montreal (Canada) 5 ottobre 1965. Ex giocatore di hockey ghiaccio. Coi Pittsburgh Penguins vinse la Stanley Cup nel 1991 e nel 1992. Tre volte miglior giocatore della Nhl (Hart memorial Trophy, 1988, 1993, 1996). Con la nazionale candase vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Salt Lake City 2002 • «È il Michael Jordan dell’hockey su ghiaccio. Il paragone regge. Dopo il ritiro di Wayne Gretzky, divenuto manager della Nazionale del Canada, Mario è il giocatore più famoso della Nhl, la lega professionistica americana. […] Nel 1993, al culmine della carriera, dopo aver ricevuto montagne di premi e segnato valanghe di gol, si è ammalato di cancro, morbo di Hodgkin. Sottoposto a un intenso trattamento di chemioterapia, è guarito ed è tornato a giocare. Nel 1997 ha deciso di smettere e ha impegnato parte dei miliardi guadagnati sul ghiaccio comprando la squadra dove aveva giocato e vinto, i Penguins di Pittsburgh. Fin qui, tutto normale, malattia a parte. Ma l’anno scorso, come è capitato di recente ad Air Jordan, anche Mario ha sentito il richiamo della foresta e si è rimesso i pattini ai piedi. In 43 partite ha segnato 76 gol e la vita, in un certo senso è ricominciata. Gretzky non aspettava altro e così Mario Lemieux, che vive a Sewickley, un paesino alle porte di Pittsburgh con la moglie Nathalie e i loro quattro bambini, è diventato l’anima e il capitano del Canada. È un uomo molto ricco e molto generoso. Ha creato una fondazione che porta il suo nome e che raccoglie denaro per combattere il cancro e la leucemia. Tutte le estati organizza un torneo di golf con scopo benefico al quale partecipano, fra gli altri, celebrità dello spettacolo e stelle dello sport come Michael Jordan, John Elway e Dan Marino, famosi quarterback del football americano. Due anni fa il torneo ha raccolto un milione di dollari e nel febbraio scorso la Fondazione ha donato cinque milioni di dollari per la ricerca all’University of Pittsburgh Medical Center» (“La Stampa”, 18/2/2002) • Carriera segnata dagli infortuni «[...] alla mano e alla spalla (fratture), al ginocchio (legamenti), ai polsi (distorsione), alla schiena (due operazioni, la prima per ernia del disco, la seconda per rimuovere frammenti d’osso impazziti). Il guaio peggiore, però, gli era piombato addosso il 12 gennaio 1993. Una settimana prima, notando una piccola protuberanza sul collo, si era sottoposto a una serie di esami clinici. Diagnosi terribile, spietata: morbo di Hodgkin, ossia cancro ai gangli linfatici. Il 2 marzo, alle dieci di mattina, si sottoponeva all’ultima seduta di terapia nella clinica di Beaver County. Nel pomeriggio, volava da Pittsburgh a Filadelfia con un charter privato. La sera, andava in campo per la partita (persa 4-5) contro i Flyers. Tra Pittsburgh e Filadelfia, è storia, non corre buon sangue: quella sera, tutti gli spettatori dello Spectrum si alzarono in piedi per un’ovazione che durò cinque minuti. Mario Lemieux, non è un caso, attraversa la storia dell’hockey professionistico americano con l’imprescindibile soprannome di “il Migliore”. Ma più che altro è una sorta di Lazzaro moderno: si è alzato e ha camminato decine di volte, dopo essere stato più volte sul punto di sparire. La sera del 24 febbraio 2002, all’“E-center” di Salt Lake City, uno sventolio di bandiera canadese - foglia d’acero rossa in campo bianco - segnalava l’ennesima resurrezione del più incredibile campione di hockey mai apparso sul ghiaccio. Lemieux e i suoi compagni avevano appena vinto l’oro olimpico battendo gli odiati Stati Uniti e Supermario, al coronamento di una carriera frastagliata ma piena di onori, ancora non poteva sapere che al ritorno in patria gli si sarebbe stampato in faccia un altro cartello di stop. Anca, stavolta. Un problema fastidioso per una persona normale, figurarsi per un atleta che deve evoluire, con massima precisione e velocità, su un manto di ghiaccio. Così “il Migliore” ha riposto il bastone un’altra volta, lasciando a metà la stagione della Nhl e i suoi Penguins senza il loro fuoriclasse. Se ne faranno una ragione, i tifosi di Pittsburgh, quelli che a decine “chattano” quotidianamente sul sito ufficiale del campione: come se la fecero in quelle stagioni, praticamente tutte, in cui Supermario ha temporaneamente alzato bandiera bianca per questo o per quel malanno. Eppure nessuno come lui rappresenta l’anima vera dell’hockey canadese, perché è tutta la sua storia di uomo e di atleta a intrecciarsi nello sport nazionale per eccellenza. La fedeltà alla bandiera (Mario ha esordito con i Penguins nell’84, facendo impennare le presenze di pubblico del 46%)), la vittoria di due Stanley Cup, l’oro olimpico conquistato dalla nazionale dopo cinquant’anni di delusioni sono nulla, emotivamente parlando, in confronto al salvataggio sulla linea che Lemieux mise a segno nell’estate del ’99. Lui, all’epoca, si era già avviato a una tranquilla vita da pensionato fatta di giochi con i bambini, viaggi di piacere e stages ben pagati per lo sviluppo dell’hockey. Dall’aprile del ’97 la sua maglia numero 66 era appesa alla balconata della Mellon Arena: nessuno avrebbe potuto indossarla, secondo consuetudine che lo sport americano ha introdotto per glorificare la memoria dei suoi supercampioni. Sembrava l’addio buono, dopo i tre falsi allarmi precedenti. Ma in quell’estate del ’99 i Penguins erano sull’orlo della bancarotta e stavano per chiudere, quando Mario piombò con il suo libretto d’assegni e firmò il piano di risanamento che consentì a club di sopravvivere. I tifosi, che già impazzivano per lui, promossero Lemieux a dio assoluto dell’hockey cittadino. Diventato padrone della squadra, Lazzaro impiegò tredici mesi per maturare la folle idea del ritorno. Folle? Alle prime indiscrezioni, i giornali di Pittsburg uscirono con articoli molto divertiti, segnalando che quel poderoso ex atleta tenuto insieme con lo scotch aveva nel frattempo messo su una quindicina di chili ed era diventato un fenomeno nel gestire i barbecue del sabato sera. La storia racconta che fu Austin, 5 anni, uno dei suoi quattro figli, a inoculargli quel tarlo nel cervello: “Papà, perché non torni a giocare?”. Il problema era la distinzione dei ruoli: poteva il padrone Lemieux ingaggiare il giocatore Lemieux? E a quale prezzo? La trattativa non fu lunga e le due parti si mostrarono ragionevoli: per un milione e 400 mila dollari, l’esatta media salariale della Lega di hockey, Supermario tornò: era il 27 dicembre del 2000, contro Toronto. Dopo 33 secondi piazzò il primo assist, poi ne fece un altro e segnò anche un gol. Lazzaro sapeva colpire ancora, non era soltanto il padrone del vapore che imponeva i propri capricci, tanto che la nazionale prontamente gli propone il ritorno nei ranghi. Da un anno in cima alla piramide dirigenziale si trova Wayne Gretzky, “the great one”, altro totem dell’hockey canadese e mondiale, l’uomo al quale Supermario si è sempre ispirato fin dalle prime scelte, a cominciare dal numero di maglia che è l’esatto rovescio del 99 reso famoso da Gretzky. I due sono fisicamente diversi (Mario è più alto, più largo, più muscoloso), ma hanno in comune estro, genio e fantasia. E se Wayne è stato il più grande a livello statistico, Lemieux lo sarebbe stato se avesse avuto un po’ più di fortuna, meno problemi fisici, una squadra più forte. Una specie di Pelé dell’hockey, insomma: potente ma leggero, virtuoso ma concreto, bravo a segnare e a regalare assist ai compagni. Come disse una volta Luc Robitaille, suo ex compagno ora stella a Detroit: “Giocando in linea con Mario anche un estintore farebbe 40 gol a stagione”. Il binomio Lemieux-Gretsky, uno in campo e l’altro alla scrivania, ha fatto schizzare in alto le quotazioni canadesi ai Giochi di Salt Lake. Era da Oslo ’52 che ingoiavano rospi. E Supermario, imbottito di cortisone ma ancora in grado di fare la differenza, ha dato il suo poderoso contributo alla realizzazione del “miracle on ice”, come lo hanno freddamente definito i giornali americani. Il miracolo sul ghiaccio: la finale perfetta che nessun canadese aveva osato sognare» (Claudio Colombo, “Corriere della Sera” 3/3/2002).