varie, 4 marzo 2002
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LEVI MONTALCINI Rita Torino 22 aprile 1909. Scienziata. Padre ingegnere elettronico e madre pittrice
LEVI MONTALCINI Rita Torino 22 aprile 1909. Scienziata. Padre ingegnere elettronico e madre pittrice. Si laurea Medicina a Torino nel 1936, allieva del famoso istologo Giuseppe Levi. Costretta dalle leggi razziali a lasciare la specializzazione in neurologia e psichiatria, continua le sue ricerche in un laboratorio di fortuna e nel 1938 va a Bruxelles. Dal 1947 si trasferisce negli Stati Uniti: vi resterà 26 anni dedicandosi alla ricerca e giungendo alla scoperta del fattore di crescita delle cellule nervose (Ngf). Dal 1961 è membro del Cnr con la qualifica di Superesperto. Presidente onorario dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, membro dell’Accademia dei Lincei. Nel 1986 ha vinto il premio Nobel per la Medicina. Nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi l’ha nominata senatore a vita • «Non ho mai avuto paura né della morte né delle persecuzioni né delle malattie: ho un totale disinteresse alla mia persona […] Malgrado l’età, lavoro scientificamente come quando avevo vent’anni. La mia ricerca sta andando in modo formidabile» (’Corriere della Sera” 2/8/2001). «Pochi sanno essere vecchi, sentenziò La Rochefoucauld. Di quei pochi la sovrana è Rita Levi Montalcini [...] gloriosa scienziata, premio Nobel per la medicina nell’86, appare come una signora minuta e decisa. Il piglio è principesco, l’eleganza è molto piemontese: asciutta, senza sfarzo; ma curatissima nei dettagli. Capigliatura bianca modellata con morbidezza e amore, piccoli e raffinati gioielli al collo e ai polsi, scarpe molto femminili, con il tacco alto. [...] ”Credo che il mio cervello, sostanzialmente, sia lo stesso di quand’ero ventenne. Il mio modo di esercitare il pensiero non è cambiato negli anni. E non dipende certo da una mia particolarità, ma da quell’organo magnifico che è il cervello. Se lo coltivi funziona. Se lo lasci andare e lo metti in pensione si indebolisce. La sua plasticità è formidabile. Per questo bisogna continuare a pensare”. E infatti Rita lavora sempre, instancabilmente, occupandosi di Ebri, l’istituto europeo di ricerche sul cervello di cui è stata ispiratrice ed è presidente, e della fondazione a lei intitolata che reperisce finanziamenti da destinare all’istruzione delle donne che vivono nell’emisfero Sud del mondo. ”Certo, con l’età qualche limitazione ce l’ho anch’io. Da qualche tempo ho gravi problemi di vista. Però col video ingranditore riesco ancora a leggere, anche se con più lentezza di prima. In passato mi alzavo alle quattro del mattino (ho sempre dormito poco) e alle nove avevo già letto cento pagine. Ora, nello stesso arco di tempo, riesco a leggerne una decina. Il che non m’impedisce di scrivere libri”. [...] è diventata una sorta di icona giovanile. Ogni sua apparizione nelle università è accolta da festosi applausi. La sua presenza è simbolo d’impegno umanitario, rivendicazione di valori condivisi, specchio di sapere profondamente laico, apertura di nuovi orizzonti, bandiera del cammino di emancipazione delle donne. Sensibile alle tragedie del Terzo Mondo, e battagliera nel promuovere la consapevolezza degli immensi benefici dell’istruzione, Rita si adopera soprattutto per la parte di umanità che si dimostra ancora come più fragile, quella femminile. [...] ”[...] Mio padre aveva deciso che mio fratello doveva andare all’Università, mentre le sue tre figlie erano destinate alle scuole femminili per affrontare il ruolo che spettava loro di future mogli e madri. Alla donna, da bambina, nell’era vittoriana, si insegnava ad essere graziosa e gentile. Che ingiustizia. Ne ho sofferto moltissimo”. La propria infanzia, età ingenerosa, segnata dal rapporto col padre troppo autoritario, Rita se la ricorda bene. ”Mi sentivo inferiore da ogni punto di vista, intellettuale e fisico. Intellettualmente il mio idolo era Gino, il fratello più grande, mentre Paola, la mia gemella, era molto portata per l’arte. Tra loro due ero come il brutto anatroccolo, perennemente giudicata e inibita da un padre severo, che mi incuteva timore. Ogni suo desiderio doveva essere esaudito. stato questo a farmi decidere di non sposarmi mai. Avevo tre anni quando ho pensato: da grande non farò la vita che sta facendo mia madre. Mai avuto più alcuna esitazione o rimpianto in tal senso. La mia vita è stata ricca di ottime relazioni umane, lavoro e interessi. Non ho mai sperimentato cosa volesse dire la solitudine”. Il fatto di non avere avuto figli non le manca. Chiama ”mio figlio” l’NGF, sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose. la scoperta che l’ha condotta al Nobel. La storia è nota: nonostante la sfiducia paterna, Rita studiò brillantemente a Torino, la sua città, specializzandosi in neurobiologia e diventando l’assistente di Giuseppe Levi, ”persona molto simile a mio padre per autoritarismo. Aveva un grande fascino su di me, anche se più dal lato umano che scientifico. I suoi metodi erano vecchio stile, ma ne ammiravo il valore morale e culturale”. Poi Rita Levi Montalcini, con le leggi razziali, fu costretta a rinunciare al posto di assistente universitaria: non aveva neppure accesso alle biblioteche. Oggi afferma che l’essere ebrea non è mai stato per lei motivo né di orgoglio né di umiliazione: ”Non sono ortodossa, non vado mai in sinagoga. Sono totalmente laica, non ho ricevuto alcuna educazione religiosa. Mio padre ci diceva: siate liberi pensatori. Per me quello che conta, in una persona, non è che sia ebrea o cattolica, ma che sia degna di rispetto. E sono convinta che non esistano le razze, ma i razzisti”. Anche durante le persecuzioni razziali Rita continuò a lavorare, allestendo un piccolo laboratorio nella casa in cui viveva, nell’astigiano. E dopo la guerra accettò l’invito ad andare a proseguire le sue ricerche negli Stati Uniti. Fu nel 1951, alla Washington University di St. Louis, che la ricercatrice osservò per la prima volta l’effetto esercitato dal trapianto di un tumore di topo sul sistema nervoso dell’embrione di un pulcino. Quel fenomeno, la cui scoperta le avrebbe fatto meritare il massimo riconoscimento per una scienziata, fu chiamato il ”Nerve Growth Factor”. ”Ci arrivai con la fortuna e l’istinto. Conoscevo in tutti i dettagli il sistema nervoso dell’embrione e ho capito che quello che stavo osservando al microscopio non rientrava nelle norme. Una vera rivoluzione: andava, infatti, contro l’ipotesi che il sistema nervoso fosse statico e rigidamente programmato dai geni. Per questo decisi di non mollare”. Se le si chiede del suo affetto più grande, torna con entusiasmo e commozione il nome di Paola, la sorella artista. La loro corrispondenza, documentata nel bellissimo epistolario di famiglia raccolto nel volume Cantico di una vita (Raffaello Cortina Editore), è una vicenda emozionante di scambi, affinità, intrecci di affetto e pensiero. Arte e scienza come viaggi paralleli. Su Paola, dopo la sua morte, per rivendicarne la grandezza di artista ed esorcizzare il dolore della perdita, Rita scrisse un libro appassionato, Un universo inquieto (Baldini e Castoldi). L’apprendistato con Felice Casorati, l’isolamento nel dopoguerra, il passaggio al non-figurativo e all’astratto, l’approdo a tecniche non pittoriche e alle opere più recenti, strutture cinetico-luminose, di metallo e rame: tutto converge nel ritratto di una donna libera e schiva, che lavorò svincolata dagli schemi. ”Paola non è stata valorizzata quanto meritava, ma a lei non importava nulla dei mercanti. Ora che è scomparsa si moltiplicano i riconoscimenti. [...] Quando vivevo in America, mi chiedevo se un mio rientro in Italia mi avrebbe dato modo di godere della sua vicinanza e di comunicare con lei. Mi domandavo se saremmo finalmente vissute vicine, godendo del vincolo affettivo che ci ha sempre legate, e se avrei avuto accesso al mondo da cui Paola attingeva la sua straordinaria capacità creativa”. Rita tornò in Italia, e Paola venne a vivere a Roma con lei. In seguito, nei lunghi anni di convivenza, Rita sentì di aver superato quella barriera. Perché, come nel cammino di arte e scienza, ”due rette parallele si incontrano all’infinito”» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 16/4/2006). «Ammetto di essere sempre stata attenta ai miei abiti, ma non ho mai fatto nulla per evitare le rughe o per nascondere gli anni usando dei maquillages […] Lavoro da mattina a sera. Un tempo mi alzavo alle quattro o alle cinque, ora un po’ più tardi. […] Perché lavoro tanto? Per me non esiste il divertimento. Era la mia vocazione. Avevo deciso fin da piccola di non sposarmi. Già a tre anni non volevo né sposarmi né avere figli. Trovavo umiliante essere nata donna. Non avrei mai potuto sottostare al dominio maschile […] Nell’ultimo anno della guerra andai a Firenze sotto falso nome con i miei. Ero legata al Partito d’Azione ma non potevo certo fare atti eroici. Dovevo stare con mia madre. Diventai poi medico con gli alleati per i profughi della linea gotica. Poi, l’America, dal 1947 al 1977 […] In America si lavora bene e si vive male; qui si vive bene e si lavora male […] Ho odiato le vacanze da quando sono nata […] Sapevo cucinare bene, anche se non mi piaceva molto. Ricordo che in America stavo con molti fisici ebrei russi e facevo loro una cucina piemontese che in realtà era totalmente inventata […] Innamorata? Forse una volta, ma è durato poco […] A Torino ho passato un’infanzia triste, avevo una pessima opinione di me e non sapevo bene a che cosa dedicarmi» (Alain Elkann, ”La Stampa” 27/9/1998).