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 2002  marzo 04 Lunedì calendario

LEVORATO

LEVORATO Manuela Dolo (Venezia) 16 marzo 1977. Sprinter. Medaglia di bronzo nei 100 e 200 metri agli Europei 2002. Grande popolarità dal 1998, quando con 22’’86 riuscì a battere il record di Marisa Masullo nei 200 metri • «Dice che la velocità ce l’ha nel sangue. Anzi nel ”Dna”. Ma che fino a diciassette anni non sapeva neanche cosa fosse l’atletica. ” vero, ho iniziato a correre per caso. E oggi, a volte, mi chiedo come ho fatto a raggiungere certi livelli. [...] Una mia amica mi ha detto che vicino a casa mia avevano aperto una pista. Ho preso tuta e scarpette e sono andata a vedere [...] ho provato con il salto in alto. Poi Mario Del Giudice (suo allenatore) mi ha fatto fare gli 80 metri. Da allora...” [...]» (Agostino Gramigna. ”Sette” n. 31-32-33/1999) • «Questa è la seconda vita di Manuela Levorato: la prima era finita nel 2000, quando in un corridoio di Sydney era scoppiata in lacrime mostrando a tutti il proprio piede bluastro e tumefatto, perché c’era anche qualche san Tommaso che non credeva che stesse male. Ai mondiali di Siviglia del 1999, quando la Jones si accasciò al suolo per il mal di schiena, era arrivata alla semifinale nei 200: era l’anno del suo primato italiano, il 22’’60 che ancora regge, lei era una bella ragazza di Dolo e a ventidue anni appariva come una giovane dea con l’alloro nelle mani. Finì, come capita alle sportive belle, a fare la mezza-mannequin, un po’ sexy e un po’ naif. Le capitò, come successe alle pallavoliste all’Olimpiade, di essere più famosa che brava. ”Era qualcosa che andava oltre il fatto dell’atletica”, dice adesso che ha capito come funzionano i meccanismi dello show e ne è guarita. Ma allora andò tutto male: lei soffriva per l’immagine che proponevano di lei, si scoprì troppo timida e riservata per il ruolo che avrebbe dovuto sostenere. E poi, soprattutto, non la sostenevano le gambe. L’infortunio delle Olimpiadi aveva distrutto l’interesse un po’ mondano che era intorno a lei e contemporaneamente aveva acceso i dubbi e la sfiducia in se stessa. L’anno seguente ha lasciato il suo allenatore e si è trasferita a Ostia, faceva quaranta chilometri per andare ad allenarsi. Ma sembrava contenta, abitava con il suo ragazzo, Boschiero, un lunghista, e diceva: ”Mi piace pensare che torno a casa e mi ha preparato da mangiare”. Sembrava ingrassata, imborghesita, come se la pasta del suo cuoco avesse appagato le sue ambizioni. Eppure era arrivato anche il record italiano sui 100, un 11’’14 che però non aveva fatto rinascere la sua fama. Ormai era un talento mancato, non era più la ”speranza della velocità”. E poi quelle gambe lunghe, il metro e ottanta d’altezza, la difficoltà a mettersi in moto, non era meglio allungarle le distanze? A 24 anni era già un’ex-velocista, destinata, chissà quando, ai 400 metri. Lei commentava smarrita questi progetti, le alchimie degli allenatori che vivono delle insicurezze degli atleti. Sembrava approvarli, come sono costretti a fare gli atleti che sentono mancare la forza. [...] un’atleta di nuovo asciutta, potente, via dalla pasta ora che è tornata ad allenarsi al nord» (c.s., ”la Repubblica” 9/8/2002).