Varie, 4 marzo 2002
Tags : Jerry Lewis
Lewis Jerry
• (Joseph Levitch) Newark (Stati Uniti) 16 marzo 1926. Attore • «[...] Maschera di un cinema quotidiano, elementare e fanciullesco dove lui rappresentava la faccia semplice e ingenua dell’America così come ci piaceva immaginarla una volta, fatta di ragazze e marinali, ballerini e cappelloni texani, partite di baseball e casette on giardino. In questo quadro ordinato irrompeva però la valanga trascinante delle sue facce, occhiate, smorfie, impersonificazioni multiple, travestimenti e disarticolazioni, e risuonava la sua voce nasale e infantile, che in quegli anni poco filologici e senza alcuna coscienza di sottotitolaggi non ci preoccupavamo affatto che fosse così diversa dalla sua, lasciando in un immeritato anonimato il simpatico doppiatore Carletto Romano. Così come, avendo imparato a pronunciare un americanissimo “Luis”, non pensavamo proprio che il suo cognome lo collocava in uno dei ceppi più classici della onomastica ebraica e non ci sognavamo nemmeno di immaginare che poteva essere considerato l’ultima incarnazione dello sclemiel (lo strambo del villaggio), tipico della tradizione culturale yiddish, cui apparteneva. E solo in forme vaghe e inconsapevoli riuscivamo a intravedere nel suo cinema un ricorrente elemento dell’arte del Novecento come il tema del doppio o la riflessione psicoanalitica sulla divisione del soggetto. Specialmente nei film degli Anni Cinquanta, e in particolare in quei sedici che interpretò in coppia con Dean Martin tra il 1949 (La mia amica Irma) e il 1956 (Hollywood o morte) Jerry Lewis si presentava solo come una delle tante spalle all’opera nei comedy team americani: il buffone che deve accompagnare il cantante, lo sciocco che c’è sempre accanto al furbo, il brutto anatroccolo che deve mettere in risalto il bellone. Capivamo però che nelle frustrazioni e nei complessi di questo disadattato che rovesciava e mandava in frantumi tutto quello che toccava, allergico alle convenzioni e ai ruoli sociali, c’era uno spirito distruttore e segretamente eversivo. E che dell’America ci offrica insieme due facce, quella rosea e spensierata e quella inquieta o addirittura ribelle. Jerry Lewis accentò questo suo aspetto a partire dalla seconda metà degli Anni Cinquanta, dopo essersi liberato della compagnia troppo schematizzante di Dean Martin e aver trovato una più congeniale collaborazione con l’altro versante della cinepresa, e cioè con un regista sottile e intelligente come Frank Tashlin. Il quale proveniva dai disegni animati e seppe fare di Jerry un personaggio sempre più astratto, radicale, surreale: un cartoon in carne e ossa capace di disegnare se stesso e il rettangolo dello schermo con i contorcimenti e le trasformazioni più fantasiose, ma anche di circondarsi di oggetti e situazioni grottesche e non troppo nascostamente perverse, che incrinavano o terremotavano ogni istituzione, famiglia, scuola, esercito (Il balio asciutto, Il ponticello sul fiume dei guai, Il cenerentolo). Ma Jerry lewis era diventato soprattutto, assieme a Jacques Tati, il più intrinsecamente cinematografico degli attori comici, il suo corpo era un meccanismo che funzionava in perfetta sincronia con la macchina-cinema. Era ormai matura la sua scoperta anche da parte della critica più sofisticata e in Francia gli riuscì di mettere d’accordo nell’ammirazione rive droite e rive gauche, Godard e Resnais, Positif e i Cahiers du cinéma, anche se ebbe soprattutto un critico “ad personam” in Robert Benayoun, un geniale ex surrealista che gli assomigliava anche fisicamente e che, oltre a realizzare su di lui un bellissimo libro e poi un film televisivo - entrambi intitolati Bonjour Monsieur Lewis - ne rappresentò una sorta di strana identificazione, una specie di travestimento critico dell’autore stesso. Perché ormai Jerry, passato alla regia (The Bellboy, in italiano Ragazzo tuttofare, del 1960), era diventato uno dei più geniali cineasti degli Anni Sessanta, un autore completo di grande intelligenza visiva, capace di far ridere non solo con il corpo, ma con la profondità del campo, i margini dell’inquadratura, la precisione dei dettagli, e di praticare con eguale disinvoltura tutti i meccanismi del comico - parodia, satira, citazione, allusione - e senza mai negarsi alla comicitò bassa, continuando a fare gli occhi strabici e a mettersi in mutande. Questa sua generosità estetica, poi trasferita nella generosità umana, sentimentale, benefica, si è manifestata per un tempo troppo breve (una decina d’anni, una dozzina di film) nella capacità di dare al cinema tutto se stesso, divenendo - come suona il titolo originale della sua autobiografia professionale, The total filmaker - regista, attore, produttore. Ed è continuata poi fuori dal cinema facendone un cantante dalla vasta discografia, uno showman e tv-star, un protagonista di Caroselli italiani e di musical di Broadway [...]» (Alberto Farassino, “Specchio” 11/9/1999) • «Uno dei più grandi comici dello spettacolo americano, la cui esistenza è stata funestata da una serie talmente pesante di guai, fisici e non solo, da piegarne la capacità di resistere. […] Più volte sull’orlo della morte. Nell’82, per esempio, quando fu dichiarato clinicamente morto dopo un infarto. E un anno dopo subì un intervento a cuore aperto. In seguito, gli sono stati diagnosticati un cancro alla prostata e il diabete» (“la Repubblica”, 10/9/2002) • «Per dieci anni fece coppia con Dean Martin, il brutto e il bello, l’imbranato e il disinvolto, il balbuziente e il cantante di charme. Lo conoscemmo così nei filmetti della Paramount in bianco e nero degli anni Cinquanta, quando disgustava i critici e gli intellettuali per la sua infantile, petulante, bavosa incapacità di “essere”, spastico senza possibilità di riposo, insistente senza capacità di affermarsi. Un bambino, un adolescente, però con tutte le insicurezze e tutte le goffaggini di quelle età, e senza nessuno dei suoi appeal. Poi si stufò, mandò a quel paese Dean Martin e si mise addirittura in testa di fare il regista, lo sceneggiatore, il gagman di se stesso. Accortamente, prima di passare alla regia si mise nelle mani del suo miglior regista dell’epoca precedente, Frank Tashlin, che veniva dalla sceneggiatura del disegno animato più bizzarro e irrazionale, più crudele e inventivo, e insomma più surreale, perché le gag di Tashlin e poi di Lewis furono il rifiuto di tutte le regole della fisica e della norma sociale. Incuranti di ogni plausibilità, incoerenti e sbalorditive, ci entusiasmarono, e ci entusiasmò Lewis regista-attore sin dal primo film, azzardato e originale, Ragazzo tuttofare (1960) e soprattuto dal secondo, L’idolo delle donne (1961), dominato dall’ossessione (misogina, ma con qualche buon motivo alle spalle) del matriarcato statunitense, e sì, le “Streghe” di Roald Dahl sono una variante di quelle più quotidiane di cui Jerry Lewis aveva già stabilito una galleria spaventevole. Vennero altri film, tra i quali quello che lo consacrò presso i critici europei, e ne fece una sorta di classico contemporaneo, Le folli notti del dottor Jerryl (1963). Perché? Perché Jerry Lewis vi reinventava un’arte che negli anni tra guerra e dopoguerra sembrava essere scomparsa dal cinema americano. Noi, in quegli anni, avevamo Fabrizi e Totò, i De Filippo e poi Sordi e Tognazzi e Gassman e una serie infinita di “spalle”, e la comicità di Totò era fisica quanto e più di quella di Jerry Lewis, prima di Jerry Lewis. Agli americani restavano i noiosi e verbosi Bob Hope e Bing Crosby e Gianni e Pinotto, messi da parte Keaton e Stanlio e Ollio, mentre Charlot era passato al cinema di pensiero... Poi Lewis volle crescere anche lui, e ci riuscì con Jerry 8 e 3/4 , che si interrogava sull’essenza del comico tramite il personaggio di un attore che non riesce a far ridere; o prendendosela anche lui con Hitler, come prima o poi tutti i comici e commedianti ebrei hanno voluto fare, in Scusi, dov’è il fronte? ; o raccontando un “perdente” assoluto come in Qua la mano, picchiatello. E finendo per incarnare genialmente se stesso in un film di Scorsese, Re per una notte (1982), dove c’era poco da ridere... Self-made e boss, spesso ossessivo sfruttatore della propria fortuna commerciale, Jerry Lewis è stato l’ultimo grande comico per il quale le gag contavano più delle battute. È per questo che potè sembrarci superiore al ciarliero Woody Allen, suo successore nei gusti del pubblico ma ahilui limitato al pubblico degli adulti, al contrario di tutti i grandi comici del passato e anche ad alcuni del presente, perché molto devono a Lewis il Fantozzi di Villaggio o il Boldi più pasticcione. Dopo di lui non c’è stato un altro comico alla sua altezza. L’infantilismo epilettico e cataclismico del suo personaggio venne abbandonato man mano che l’attore si faceva più autore, ma alla fine è quello ad aver vinto, è quello a restare. Quand’era giovane e già famoso, Jerry Lewis - che ha scritto un piccolo prezioso manuale di regia invece che le sue memorie - era solito visitare assiduamente Stan Laurel e farsi spiegare da lui i trucchi del mestiere. Chi forse si è studiato per bene Lewis, oggi, è solo Jim Carrey, ma Carrey non è un autore, è solo un attore. [...]» (Goffredo Fofi, “Il Messaggero” 16/3/2006) • «Milioni di dollari e tutte le ragazze ai loro piedi. La vita correva veloce, e loro due, ubriachi di successo (e di whisky), non si accorsero che si tradivano a vicenda. Il sogno durò dieci anni, fino al 24 luglio 1956, quando ormai si trattavano come due estranei. Quel giorno, Jerry Lewis e Dean Martin decisero di far scendere il sipario sulle memorabili gag che avevano fatto sganasciare l’America del dopoguerra, e dissero addio alla loro attività in coppia con una serata nel leggendario Copacabana di New York. Da quel momento, continuarono da soli: il bell’italiano di Steubenville, Ohio, come attore, crooner e membro del Rat Pack; l’ebreo picchiatello di Newark, New Jersey, come comico e intrattenitore da nightclub. Per vent’anni non si rivolsero parola. Su quel sogno infranto, ognuno ha detto la sua. Gli americani che non accettarono la separazione, Dean, i suoi figli, e Nick Tosches, il più autorevole biografo dell’artista, che nel ’92, a sette anni dalla morte di Martin, ha pubblicato il voluminoso Dino (Ed. Baldini Castoldi Dalai, 650 pagg, 18,90 euro). [...] Jerry Lewis [...] scrive la storia di quei dieci anni in cui Jerry & Dean erano più famosi di Sinatra, Elvis e i Beatles messi insieme. Dean & Me - A love story [...] “Nell’epoca di Truman, Eisenhower e Joe McCarthy, noi due liberammo l’America”, esordisce Lewis. “Per dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale, Dean e io diventammo un fenomeno del mondo dello spettacolo che non aveva precedenti nella storia, e entrammo anche noi a far parte della storia. Non dimentichiamo: l’America del dopoguerra era un paese molto abbottonato. Gli spettacoli radiofonici erano controllati dalla censura, i presidenti indossavano i cappelli, le signore i corsetti. Noi due venimmo fuori dal nulla - nessuno si aspettava qualcosa come Jerry & Dean. Una scimmia e un ragazzo sexy, ecco cosa eravamo nell’epoca dell’autorealizzazione freudiana e della massima esplosione dello show business”. L’attore e produttore Alan King disse in un’intervista: “Mi muovo nel mondo dello spettacolo da cinquant’anni, eppure non ho mai visto un numero comico che facesse ridere come quelli di Martin e Lewis. Non generavano ilarità, scatenavano il pandemonio, la gente si sbellicava fino alle lacrime, battendo i pugni sui tavoli”. Il racconto del loro primo incontro, all’incrocio della 54esima Strada in un giorno di primavera del ’45, è limpido e struggente come quello di due innamorati in luna di miele. Racconta Jerry: “Broadway esaltava i profumi della città, New York tornava a vivere, io avevo 19 anni, una moglie già incinta, ma anche occhi per guardare tutte le bellezze che sfilavano a Manhattan. Quando il mio amico Sonny King mi presentò Dean, la prima cosa che pensai fu: come può un uomo essere così bello?”. Dino Crocetti, questo il vero nome di Martin, aveva nove anni più di Joseph Levitch, che ancora non aveva cambiato nome in Jerry Lewis. I due avevano caratteri opposti, una comicità innata ma affatto diversa, e soltanto uno dei due (Dean) aveva la voce di un cantante professionista. Ma gli opposti si attraggono, la scimmia dinoccolata che incespicava sulle parole divenne il partner ideale del più sofisticato bellimbusto di origine italiana. In dieci anni, spopolarono al cinema con 16 film, diventarono le attrazioni numero uno dei night club alla moda, trionfarono a Las Vegas e furono i protagonisti di innumerevoli trasmissioni radiofoniche e televisive. Non c’era sesso, ovviamente, ma era una storia d’amore [...] Viste le premesse, il Picchiatello sembrava condannato a restare il numero due della coppia, ma le cose non andarono esattamente così. [...] i critici ebbero un ruolo determinante nella nascita di una serie di malumori che alla fine imprigionò i due comici in una rete di parole non dette e di sospetti assillanti. Lewis era il cocco degli americani e i giornalisti cominciarono a riconoscergli un ruolo primario. Quando all’inizio degli anni Cinquanta si esibirono al Palladium di Londra, anche gli inglesi si schierarono dalla parte di Jerry, e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lewis giura che nel 1953, quando la canzone That’s amore incisa da Dean Martin cominciò a fare il giro del mondo, lui era perfettamente consapevole della distanza che artisticamente lo separava dal partner. Era un comico che al massimo cantava qualche canzone, Dean invece era un artista a tutto tondo, poteva interpretare ruoli drammatici e aveva un contratto discografico da far invidia a Sinatra (allora in ribasso). Insomma, negli ultimi due anni del loro rapporto, Jerry & Dean a malapena si rivolgevano la parola fuori dal set o dal teatro. Ma era l’America giovane che li aveva abbracciati con tanto entusiasmo che ora, pian piano, li stava abbandonando. Ma in quel momento, inconsapevoli, si scaricavano uno addosso all’altro tutte le responsabilità. “Dieci giorni dopo il nostro addio al Copacabana, Elvis Presley entrò negli studi Paramount per girare Love me tender, il suo primo film, Aveva firmato un contratto di sette anni con Hal Wallis, produttore di tante nostre pellicole. L’America aveva già qualcun altro da idolatrare”. Dean Martin non aveva ancora 40 anni, Jerry Lewis trenta appena compiuti. Il resto della storia è triste e terribilmente sentimentale. Alla fine della serata al Copa, ognuno si rintana nella propria camera d’albergo. Jerry chiama Dean al telefono: “Siamo stati grandi vero?”. “Lo saremo ancora”, assicura Martin. “Abbi cura di te”. “Anche tu pardner”, così si chiamavano affettuosamente da dieci anni, pardner, con la d. S’incontrano vent’anni dopo, a Las Vegas, nel corso di un Telethon per la distrofia muscolare organizzato da Jerry (nel 1985 fu candidato al Nobel per le sue attività caritatevoli). “La platea era in delirio, avevo le mani sudate, mi misi alla sua sinistra, come ai vecchi tempi”. E per pochi minuti è di nuovo magia. Quando nel 1987 Dino Jr, il figlio adorato di Martin, muore in un incidente aereo, Lewis partecipa ai funerali senza farsi notare. Dean lo chiama al Bally di Las Vegas la notte successiva: il racconto di quell’ora al telefono fa piangere. Si incontrano di nuovo sul palco proprio al Bally, nel 1989. Poi silenzio, fino al giorno di Natale del 1995. Alle otto e mezzo del mattino, a Denver, Lewis apprende della morte del pardner. Accorre al suo funerale, improvvisa un discorso che si conclude con la frase: “Possa continuare a bere in eterno”» (Giuseppe Videtti, “la Repubblica” 12/1/2006).