Varie, 4 marzo 2002
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LIEDHOLM Nils Valdemarsvik (Svezia) 8 ottobre 1922, Casale Monferrato (Alessandria) 5 novembre 2007
LIEDHOLM Nils Valdemarsvik (Svezia) 8 ottobre 1922, Casale Monferrato (Alessandria) 5 novembre 2007. Giocatore di calcio, vicecampione del mondo nel 1958, quattro scudetti con il Milan (1950/51, 1954/55, 1956/57, 1958/59). Da allenatore vinse altri due campionati italiani: con il Milan (1978/79) e con la Roma (1982/83), squadra con la quale nel 1983/84 perse ai rigori la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool (giocata all’Olimpico). «Comincia a sferrare i primi calci quando ha 10 anni, i capelli rossi e la faccia punteggiata di efelidi. Gioca per Waldemarkvik, Sleipner e Ifk Norrkoeping e presto la nazionale s’accorge di quel giovanotto alto e dinoccolato, che si muove instancabilmente per tutto il campo. Nel ”48 è tra i protagonisti della vittoria olimpica svedese e il selezionatore Krek gli dedica un complimento del quale lui va ancora orgoglioso: ”Se potessi disporre di undici Liedholm, batterei ogni avversario”. ”Ero in grado di occupare qualsiasi ruolo, dalla difesa all’attacco”. Infatti nel Milan giocherà da interno, da mediano e infine da libero. In Italia arriva l’8 agosto 1949. A convincerlo a tentare l’esperienza sono Nordahl e sua moglie, l’allenatore Czeizler e il direttore tecnico del Milan, Busini. ”Accettai soprattutto per stanchezza. Parlammo per una notte intera. Era ormai l’alba quando dissi di sì”. Comincia il campionato 1949-50 e nel Milan si ricompone il trio centrale della nazionale svedese. C’è Nordahl, c’è Liedholm e c’è pure Gunnar Gren. Se Nordahl è un poderoso goleador, cinque volte capocannoniere, e Gren un geniale suggeritore di gioco, lui corre molto. ”Possedevo una falcata da mezzofondista, ero abile nei passaggi smarcanti e avevo un tiro niente male”. Nasce la leggenda del Gre-No-Li. ”La sigla la inventò un giornalista, che faticava a pronunciare e scrivere i nostri cognomi. Così pensò bene di abbreviarli”. Dodici stagioni nel Milan e quattro scudetti. Liedholm ha quasi 39 anni quando smette di giocare, dopo aver fatto da balia a ragazzi come Rivera, Trapattoni e Salvadore. Alle spalle si lascia 359 partite, 81 gol ed episodi mitici, in bilico tra realtà e fantasia. ”Il più lungo applauso a scena aperta l’ho ricevuto a San Siro il giorno in cui sbagliai un passaggio. Non era mai successo”. E all’allenatore Viani (’Grandissimo tattico, però la tecnica abbiamo dovuto spiegargliela Schiaffino e io”) che gli ordina di cambiare la propria posizione in campo, Liedholm replica serafico ma deciso: ”Lei comanda fuori dal campo, io sono il capitano e comando in campo”. Si iscrive al corso allenatori. Fresco di diploma, diventa allenatore del settore giovanile del Milan (’Il mio ambiente naturale perché mi sono sempre considerato soprattutto un maestro di calcio”), ma nel ”64 deve sostituire l’argentino Carniglia, guidando il Milan al terzo posto, preceduto da Bologna e Inter, protagoniste di uno storico spareggio. La stagione successiva è quella del clamoroso sorpasso interista ai danni del Milan, che si fa rosicchiare sette punti di vantaggio. !Presidente era Felice Riva, che convinse Altafini a tornare dal Brasile e mi suggerì di farlo giocare anche se poco allenato. Un errore che ci costò lo scudetto”. L’anno seguente è un piatto di ostriche a tradirlo. Epatite virale. Quando guarisce, la panchina è già occupata. A Liedholm giunge una proposta che sembra un suicidio. Lo vuole il Verona, che nel ”67 sta per sprofondare in serie C. ”Nessuno credeva che potessimo salvarci, invece ci riuscimmo e l’anno dopo salimmo in A”. Un’altra impresa disperata lo attende a Monza, pur esso a due passi dalla C. ”Ancora oggi la salvezza del Monza è la maggior soddisfazione di tutta la mia carriera in panchina”. C’è un’altra stagione in B per Liedholm, che trascina il Varese alla promozione e lancia un futuro campione che si chiama Bettega. Nel ”71 si trasferisce alla Fiorentina, dove scopre un altro giovane fuoriclasse, Antognoni. ”Me ne andai da Firenze perché mi voleva l’Inter, ma all’ultimo momento Fraizzoli non ebbe il coraggio di sfidare chi mi considerava troppo milanista”. Lo vorrebbe anche la Juve, ma Liedholm non s’accorda con Boniperti e regala ai cronisti uno dei suoi paradossi più felici: ”Non vado a Torino per lealtà verso il campionato. La Juve e io, insieme, lo uccideremmo”. Nell’autunno del ”73 intraprende la prima delle sue quattro esperienze romaniste, invitato da Anzalone a sostituire Scopigno. ”Trovai ragazzi interessanti come Conti, Di Bartolomei e Rocca, il più grande terzino velocista che il calcio abbia mai avuto”. Nel ”77 il Milan si ricorda di lui e lui non sa resistere. Alla seconda stagione arriva il decimo scudetto, quello della stella. ”Una gioia particolare perché obiettivamente la squadra non era granché”. All’indomani dello scudetto chiede un contratto triennale, il presidente Colombo gliene offre uno di dodici mesi. Lui allora accetta di tornare a Roma, dove il presidente Viola sta per trasformare ”la Rometta” in un squadrone, protagonista il brasiliano Falcao, ”il più grande regista tattico che io abbia mai visto”. In cinque stagioni un gioco che incanta, tre Coppe Italia, lo scudetto ”83 e una finale europea persa ai rigori. Nell’estate successiva sbarca nuovamente al Milan, dove la burrascosa gestione Farina sta per fare posto a Silvio Berlusconi, che nell’87 lo sostituisce con Capello, relegandolo al ruolo di direttore tecnico. L’anno dopo intraprende la sua terza avventura alla Roma, che però si conclude male. Esonerato e poi richiamato da Viola, lo svedese verrà infine rimpiazzato da Radice. il 1988. Resta senza panchina per due anni, durante i quali provvede a sviluppare la propria azienda vinicola, assistito dal figlio. Un’altra stagione poco felice al Verona è il prologo a un nuovo e lungo periodo di inattività calcistica, dalla quale nel ”97 lo schioda Sensi per affidargli la Roma dopo l’esonero dell’argentino Carlos Bianchi. Ha già 75 anni, viene affiancato da Ezio Sella, allenatore della Primavera giallorossa, e combina poco: una sola vittoria in otto partite e appena quattro punti di margine sulla retrocessione. Sostituito da Zeman, diventa il consigliere tecnico del presidente romanista, un incarico lasciato da poco. Oggi segue il calcio quasi esclusivamente in tv e dice di apprezzare gli sforzi di alcuni tecnici per migliorare gioco e spettacolo. ”Si bada di più al possesso della palla, come facevano le mie squadre, premessa indispensabile per creare un maggior numero di occasioni. Vedo in giro parecchi giovani di talento, segno che il futuro è promettente”. Rimpianti? ”No, nessuno. Il calcio mi ha dato tanto e io credo di avergli restituito qualcosa” » (Mario Gherarducci, ”Corriere della Sera” 7/10/2002). «Creare è importante, anche avere delle idee. Quando guidavo il Milan all’inizio degli anni Settanta, c’era un allenatore rumeno che si chiamava Kovacs: costui decise di studiare il mio lavoro e filmò le nostre sedute di preparazione. Poi andò in Olanda e mise in pratica quello che aveva visto. Dopo, sapete tutti cos’è successo... […] Ho imparato molto dagli ungheresi che lavoravano in Svezia. La zona, la preparazione atletica, soprattutto la tattica. Ma anche Rocco e Gipo Viani mi hanno dato tanto. Ho cercato di studiare, di lavorare seriamente […] Il più grande giocatore che ho visto è stato Di Stefano. Anche Pelè, che ho affrontato in campo, anche Maradona. Però Di Stefano correva il doppio degli altri due, con la stessa tecnica. Il suo Real Madrid è stato la squadra più forte: qualche anno fa chiesi a lui e a Gento quale finale di Coppa dei Campioni ricordassero con maggior piacere, e loro risposero quella contro il mio Milan nel 1958. Pensate, stavamo vincendo 2-1 a dodici minuti dalla fine, quando Joselito mi fa un fallo tremendo. Allora non esistevano le sostituzioni, così rimasi in campo cercando di non far vedere che ero zoppo. Purtroppo il Real pareggiò subito, e Gento segnò il 3-2 nei supplementari. Per colpa di quell’infortunio ci rimisi anche il mondiale. E così, in un mese, persi le due finali più importanti della mia carriera […] Perché non ho mica vinto tanto: solo due scudetti in Svezia e quattro in Italia. La finale persa contro il Liverpool ce l’ho ancora sullo stomaco. chiaro che non mi lamento: avevo una mentalità professionista anche da dilettante, in Svezia, dove mi allenavo cinque volte la settimana facendo sci di fondo, atletica e bandy, che sarebbe una specie di hockey su ghiaccio. Un mio amico, campione di lotta, mi disse che dovevo irrobustirmi e così mi allenava in modo strano: ci scontravamo dopo una rincorsa di dieci metri, e tornavo sempre a casa sanguinante. Però avevo vinto la paura, e a diciott’anni lo buttavo giù io. Il dottore aveva detto a mio padre che per crescere meglio dovevo fare tutti gli sport ma lui non voleva, lui si occupava di una segheria e pensava che dovessi studiare […] Il mio capolavoro da allenatore è stato la salvezza del Monza, ma anche a Verona e Varese ho fatto bene. Sono rimasto ventidue anni a Milano e sedici a Roma: ma potevo finire anche a Torino, mi cercarono prima Allodi e poi Boniperti, che dopo un nostro incontro finito alle quattro di notte dovette dormire in macchina sull’autostrada: io avevo già dato la mia parola alla Fiorentina e non se ne fece niente […] Da giocatore, dopo una sconfitta devi parlare con te stesso e capire dove hai sbagliato. Da allenatore devi solo pensare alla partita successiva. Il bravo tecnico è duro all’inizio, ma poi i giocatori devono sorridere, poco a poco. Oggi il più forte al mondo è Zidane perché fa il numero solo quando è necessario, per risolvere una situazione, non per prendere gli applausi. Gioca giusto. Anche Totti è grandioso, tra i più forti di ogni tempo: essenziale, molto solido fisicamente e dotato di una magnifica intelligenza calcistica» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 7/10/2002).