Varie, 4 marzo 2002
LIGABUE
LIGABUE Luciano Correggio (Reggio Emilia) 13 marzo 1960. Cantante. Autore. Regista • «Quando ruggisce, il rock gratta nella terra, scrosta la ruggine del tempo, solleva la polvere spargendo nell’aria il polline della memoria. I rocker emiliani lo sanno bene, la loro forza viene dai sogni della provincia, dalle illusioni che la pianura fa viaggiare lungo strade intossicate di benzina e lambrusco. Arterie della fuga, e soprattutto del ritorno a casa. Luciano Ligabue non fa eccezione, anzi. Nessuno come lui è rimasto così avvinghiato alle radici, le spreme come nettare di ruvida poesia, fino all’ultima goccia. Non si è mai staccato da Correggio, rivendica la sua appartenenza come un marchio dell’anima. Suona accordi americani, indossa stivali del Texas, imbraccia chitarre Fender, ma il suo segreto è tutto lì, nell’appartenenza ai suoi luoghi, nell’ostinazione a definire l’identità come un privilegio da non barattare mai, per nessun motivo [...] insolito eroe, nato ai bordi delle grandi città, in una provincia da cui il mondo si può guardare solo da lontano, ma cogliendone grazie a questo il potere fascinatorio, l’incantamento grandioso e truffaldino, la doppia prospettiva del microcosmo e del macrocosmo. Un eroe insolito perché nato dal sudore e dalla terra, temprato dal nomadismo delle anime disperate e ribelli che popolano le sue strade. Un eroe che di fatto il mediano lo faceva davvero, nel calcio paesano, era uno che sgobbava, sudava, lavorava per la squadra e solo a un certo punto ha preso la fuga, come un ciclista che improvvisamente diventa campione e si stacca dal plotone. Liga del resto lo racconta sempre. Lui al successo ci è arrivato tardi, aveva già trent’anni e passa, e prima le ha fatte tutte, in quella stramba e orgogliosa provincia ha navigato come un ribaldo uomo di fatica, cantando nelle balere, osservando e studiando i piccoli eroi come il mitico Little Taver, l’idolo locale, rockabilly sfrenato e goliardico, che racconta: ”Quando Luciano è diventato famoso si è ispirato spesso alle mie esibizioni: nel tour del 2000 aveva una macchina sul palco? Beh, io l’avevo fatto anni prima, salendo sul palco alla Festa de l’Unità di Correggio con la mia Talbot Solara. Sai cosa non ha ancora fatto? Arrivare sul palco cavalcando trionfalmente una vacca, come ho fatto io; oppure farsi calare da una gru indossando uno scafandro da palombaro. Se un giorno vedrete qualcosa di simile a un suo concerto, saprete da chi ha copiato…”. Grandioso, come sanno esserlo solo i protagonisti delle rotte marginali della panciuta mitologia provinciale. Pare che a Correggio statisticamente nascano più matti e geni di altre parti di Italia: artisti, scrittori e serial killer, Antonio Allegri, il Correggio, Pier Vittorio Tondelli, che a Correggio tornò a vivere alla fine della sua breve, folgorante vita di scrittore. Su ventimila abitanti, il paese contava ben settecento partigiani, tra cui molte donne, e questa fu una delle cause di una vera e propria rivoluzione culturale. Donne forti, indipendenti, miraggi della pianura che Ligabue insegue spesso nelle sue canzoni. [...] Da bravo ragazzo di provincia Ligabue non dimentica mai il suo popolo, quando sul palco affronta il mondo sembra che dietro ci sia una massa di gente, un esercito che gli dà energia, i suoi gruppi sembrano drappelli di combattenti. Uno dei suoi punti di forza sta nel fatto che, nella più sana delle tradizioni del rock, il pubblico avverte perfettamente che il Liga ha bisogno di essere lì, di sbattersi in giro a suonare, di sentire l’urlo della platea, di nutrirsi di quei bagni di folla. Non può farne a meno, come una droga, l’unica del resto della sua più che sana esistenza. [...] per la sua Correggio ha scritto i versi di Piccola città eterna: ”Gente persa in una piccola città eterna, piccola città testarda, piccola città con gli occhi chiusi a metà, piccola città che cerchi in giro, e spesso ciò che cerchi è qua. C’è chi la ama, chi la odia e lei rimane piccola”. Più chiaro di così…» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 4/3/2007) • «Il mondo piccolo di Luciano Ligabue è Correggio, un paese al centro della pianura reggiana. Ventimila abitanti, tanta campagna, spazi aperti, una piattezza assoluta incisa dalle file di pioppi; a pochi chilometri il Campovolo, dove si tenne un concerto che divenne un raduno, piuttosto maltrattato dall’acustica ma rimasto nella memoria dei fan come l’appuntamento della vita. Di qua il torrente Crostolo, di là il Tresinaro, ormai sempre più asciutti. A breve distanza, in questa Emilia che sembra immaginaria, dipinta nello stereotipo, c’è Novellara, dove convive con i reggiani una folta, mite e spiazzante comunità sikh: bei turbanti, bellissimi i colori degli abiti, straordinarie fiere bovine dove i sikh accompagnano in passerella la loro bestia migliore, la vacca con i fiocchi e le treccioline colorate del giorno di festa e gli ornamenti per la sfilata; e anche qualche sagra del patrono dove quegli strani asiatici applaudono con partecipazione le dimostrazioni professionali di ballo liscio: polka, mazurca, valzer, ci manca solo l’eco di Secondo Casadei o del maestro Iller Pattacini. Appena più in là, nel cimitero del paese, si può sostare davanti alla tomba di Augusto Daolio, la voce dei Nomadi, ”l’Eric Burdon della Bassa”, che è la meta di un pellegrinaggio costante, con i visitatori che lasciano un regalino, un biglietto, un ricordo (e l’amministrazione comunale ha sistemato una panchina di fianco alla lapide, così i ragazzi possono suonare la chitarra e fare il coro sulle note di Io vagabondo, tanto ormai le vecchie si sono abituate e non protestano più). In mezzo all’Emilia una rockstar può prendere casa appena fuori dal paese, in un convento ristrutturato. Corse nei viottoli di campagna per la fitness; un pranzo qualche volta al ristorante dell’Hotel dei Medaglioni, dentro il medioevo tipicissimo, schiacciato e forte, della piazza principale, contrappuntato dal cotto rosato del Palazzo dei Principi. Qui d’estate il sole cuoce le teste, come diceva un intenditore, Giovannino Guareschi; le notti, anzi ”certe notti”, si svolgono davvero ”fra cosce e zanzare”, quando si sa che la macchina è inevitabilmente calda e ti porta dove decide lei. Sul finire dell’autunno, invece, come tanti altri borghi emiliani Correggio diventa il paese della nebbia, stesa sui campi, le stradine agricole e le strade provinciali; quella nebbia che una volta era impenetrabile, al tempo in cui anche le nevicate erano lunghissime e pesanti, capaci di uniformare in bianco l’intero paesaggio (è il clima di Angelo della nebbia, un pezzo intriso del sentimento emiliano che fa da sfondo a molte sue canzoni). questo l’ambiente da cui sono usciti i quarantatré racconti di Fuori e dentro il borgo, il primo e fortunato libro di Ligabue, una specie di autobiografia di tutti quelli che sono immersi nel fluido dell’esistenza, ”scelti da chissà che mano per essere buttati in mezzo alla nebbia”. Un bicchiere di lambrusco correggese a pranzo, celebrato già ai suoi tempi da Pietro Aretino (’vino dal chiaro colore e dal mordente sapore”); e subito dopo magari una sambuca, uno di quei liquori antichi da caffè di paese, dove c’è ancora qualcuno che gioca a carte e qualche biliardo con sopra una tela, in attesa dei giocatori della sera. Sono le scene tradizionali di un’Emilia fisica, che reca ancora l’impronta dei suoi matti e dei suoi poeti. Da queste parti, filando verso Guastalla e Gualtieri, un altro Ligabue, Antonio, il pittore, correva con la sua Guzzi ricevendo dal motore a scoppio il tepore che gli altri non volevano dargli. A Suzzara, Cesare Zavattini incontrò un vecchio naïf che scrisse stupende memorie in uno strepitante ”quasi-italiano”, Mi richordo ancora: ”C’è un uomo nella bassa sui settant’anni che si chiama Pietro Ghizzardi ed è un grande uomo…”. Sono storie che uno come il Liga potrà, se vorrà, riprendere in qualche altro libro: ”Io lessi le sue memorie quando erano in boccio e dissi: ”Corro subito ad abbracciarlo’… Lo incontrai dopo la prima mostra luzzarese dei naïf, al pranzo invernale dopo la mezzanotte, diventato ormai rituale, tutti avevamo trovato il nostro posto a tavola e Ghizzardi no, ricordo ancora che se ne stava in piedi in un angolo con la paura di disturbare, sdentato, il paletò abbottonato male”. Ma è chiaro che l’Emilia di oggi non è più quella dei pittori di allora. venuta l’industria, la modernizzazione, il consumo. Dire come diceva Francesco Guccini ”fra la via Emilia e il West” sembra ormai un calco anacronistico. C’è piuttosto l’Emilia ”parabolica” dell’ex Cccp Massimo Zamboni, l’antico complice punk di Giovanni Lindo Ferretti, il ”reduce” tornato alla fede e al passato. L’Emilia stralunata e notturna di scrittori come Daniele Benati e Ermanno Cavazzoni. Una scheggia di continente in cui Ligabue si aggira come un pesce nell’acqua, anche se qui i pesci sono solo d’acqua dolce. Consapevole comunque che c’è un po’ di verità nell’immagine tutta emiliana della cucina grassa e del lambrusco frizzante, ma che la realtà del ”borgo” è data anche, se non soprattutto, dalle fabbriche che sono sorte dappertutto, dai trattori, dalle trebbiatrici, dalle macchine per la raccolta della frutta che hanno industrializzato l’agricoltura. D’altronde, anche lui, il Liga, è un uomo dalla vita almeno doppia. Facilità di rapporti nelle vie di Correggio, dove tutti lo conoscono e nessuno lo importuna. E nello stesso tempo una proiezione vistosa nei circuiti industriali e commerciali dello show contemporaneo, dove tutto è tecnologico e mediatico, in un concentrato impressionante di ultramodernità. Forse il segreto di questa Emilia, il luogo fisico e mentale in cui sono cresciuti anche Zucchero Fornaciari e Pierangelo Bertoli, è proprio nella capacità di stare bene con le proprie radici, nella materialità conosciuta, nella propria terra, ma di abituarsi immediatamente ai processi e ai luoghi della realtà postmateriale. Cittadini del mondo, si diceva una volta: ma forse, per Ligabue, si può dire che è il tipico abitante di un paese-mondo» (Edmondo Berselli, ”la Repubblica” 4/3/2007) • «Milioni di dischi venduti. Due film da regista, un romanzo, una raccolta di racconti. Ligabue è un forzato della creatività. Condannato al successo. Perché? Cosa rappresenta? C’è una spiegazione logica a questa sua trasversale divinizzazione? Torna alla mente il vecchio episodio di Marcel Mauss. Dopo una lezione l’antropologo fu interrogato da uno studente, che gli chiese: ”Maestro, come si può distinguere un fenomeno mitico-magico da un altro che non sia mitico-magico?”. Mauss rifletté qualche istante e poi sussurrò: ”Mah, nella mia esperienza credo di avere incontrato soltanto fenomeni mitico-magici”. Forse anche Ligabue può essere spiegato come fenomeno mitico-magico. O forse no. Se rapportato alla maggioranza dei suoi colleghi, Ligabue è senza dubbio un portatore sano del ”meno peggio”, un artista onesto che non ha mai preteso di cambiare il mondo. Meglio lui di altri. Eppure c’è di più. Chiunque lo conosca, anche solo superficialmente, non può che parlare bene di Ligabue. Umile, educato, simpatico. Per sbertucciarlo, gli si può al massimo cucire addosso una massima dello scrittore austriaco Karl Kraus: ”Gli artisti hanno il diritto di essere modesti e il dovere di essere vanitos”. Questo ne fa un ottimo compagno di cene, ma non lo rende automaticamente un artista da idolatrare. I detrattori, e qualcuno ce n’è, ricordano che da Buon compleanno Elvis, il disco ipervenduto del 95, Ligabue ripete se stesso. Anche Nome e cognome, chitarra basso e batteria, è la solita alternanza di rock tirati e ballate morbide. Come sempre le seconde funzionano meglio delle prime. Forse la vena creativa è prosciugata, il bestiario esaurito. però possibile che questa ripetitività, riscontrabile in molti cantanti over 40, sia percepita dal suo pubblico come fedeltà a se stesso, a un suono e un modo di essere. A chi gli dà del cantautore, Ligabue risponde di ambire, casomai, al’etichetta di ”nuovo Battisti”, obiettivo raggiunto per quella generazione che oggi ha 30-35 anni e che a scuola dovette scegliere tra lui e Marco Masini (sì, erano tempi così). Se proprio deve fare il nome di un cantautore, cita l’amico Francesco Guccini, come lui emiliano. Quell’Emilia che è terra dai confini indefiniti, il Sud del Nord e il Nord del Sud. E Guccini, che pure scrive testi più ”alti”, è un altro che ha fatto dell’immobilismo una bandiera. I topoi di Ligabue sono gli stessi, da sempre. Il sesso che ”ha odore”, la donna che è ”femmina”. L’artista che non è importante, perché il privato è sacro e ”non dovete badare al cantante”. Un talento innato per i ritratti bozzestici di provincia (Bar Mario, Walter il Mago, il monologo di Freccia che credeva ”nelle rovesciate di Boninba”). Un tentativo di frequentazione laica e diretta con Dio (Hai un momento Dio?, Chissà se in cielo passano gli Who). L’autobiografismo scopertissimo (’Non ho il pudore delle emozioni, non mi interessa apparire cool”). L’identificazione con chi suda e si sbatte. La convinzione che la canzonetta non debba farsi ”tante pippe”, dice lui - e, con toni diversi, diceva François Truffaut. Il feticcio della memoria, la canzone come tributo (Per il giorno di dolore che uno ha, la nuova Lettera a G). L’Emilia di ”certe notti tra cosce e zanzare”, il senso virile e affettuoso dell’amicizia. L’amore che brucia, l’amore che muore. Il culto per il rock che ha il coraggio di invecchiare. E un cantato alla Springsteen, col rinculo e le vocali finali strascicate mezzora, tentativo maldestro di trasformare Correggio, la sua Macondo, nel New Jersey. Se esiste un motivo capace di spiegare il successo di Ligabue, risiede in uno strano magma di doti indubbie e limiti tramutati in qualità. La critica si diverte a metterlo in competizione con Vasco, ma il successo di Vasco era chiaro (oggi un po’ meno). I ”vaschisti” vedevano in lui il cantore dello sballo a prescindere, del ribellismo negazionista, del rifiuto tout court della società benpensante, a cui opporre ”la Coca che ti fa digerire” e una vita spericolata come SteveMcQueen (o, più vaschianamente, ”come stizza il qui”). Per Ligabue è diverso. Anche lui identifica un ”noi”, ma lo slittamento è evidente: da Siamo solo noi a Non è tempo per noi. Quello del Liga è un pessimismo generazionale ma sopportabile. Una sofferenza popolare, non ”filosofica”. Comprensibile. Ligabue non vive su un piedistallo, soffre e lotta (e a volte perde) con noi. ”uno di noi”. Il suo esercito non insegue immolazioni. una milizia educata, un’avanguardia di musicofili sinceri e boy-scout ulivisti che crede negli effetti taumaturgici del ”menopeggio”. E se il ”ligabuismo” altro non è se non la derivazione buonista del ”vaschismo”, Ligabue è un felice e consapevole mediano politically correct, che urla contro il cielo per rivelare che ”il purgatorio è il nostro perlomeno”. Un Romano Prodi del rock. Un cantante sinceramente retorico, impigliato nei giovanilismi, fiero di parlare come mangia (e mangia abbastanza bene), che sperava davvero che il concerto al Campovolo ”fosse emozione al cubo e così è stato”. Un rocker post-cool, che insegue non la dannazione ma la vecchiaia» (Andrea Scanzi, ”La Stampa” 16/9/2005) • «Sono stato a lungo cattocomunista e sinceramente cosa sono adesso non lo so. Credevo in certi valori ma con il tempo ho maturato altre certezze. Il tramite tra me e Dio è una persona importante che mi permette, a volte, di dialogare con chi c’è lassù […] Ancor oggi c’è chi non capisce perché vivo a Correggio. La risposta è che qui esistono dei campi dove nelle notti d’estate puoi fermarti a guardare le lucciole. L’atmosfera è clamorosa, impagabile» (Luca Dondoni, ”La Stampa” 24/4/2002) • «Le canzoni hanno un potere grosso. Anche quando sono leggere o sembrano un po’ stupidine, in realtà finiscono per incrociarsi con un momento preciso della nostra vita. Una frase assume così un significato particolare e ci induce a una riflessione più profonda di quanto riescano a fare un film o un libro. Continuo ad essere affascinato da questo potere. Tante volte fischiettiamo melodie che non ci piacciono, ma non riusciamo a liberarci di quell’ossessione. Ci perseguita per tutta la giornata. E non sappiamo nemmeno se l’abbiamo sentita o ci è rimasta infilata lì qualche mese prima. […] Sono anche vigliacche le canzoni, perché ti prendono alle spalle e non fanno distinzioni di cultura o ceto sociale. Un esempio: gli intellettuali che dicono di ascoltare classica, jazz, o Ivano Fossati, nella realtà, quando fanno la doccia, cantano Sanremo, come fa chi intellettuale non è. […] Io, prima di salire su un palco, sono stato metalmeccanico, ragioniere, bracciante agricolo, commerciante, consigliere comunale, promoter, dj. Mestieri che sono durati mesi, mai anni. Quello attuale dura, forse grazie all’esperienza accumulata con gli altri. Giustamente i saggi del mio paese, Correggio, non lo considerano un mestiere. Dicono ”quello canta invece di lavorare”. Le fasi emozionanti sono due: potersi esprimere e vedere e aver di fronte a sé qualcuno che ti dice ”ricevuto”. Il tuo mestiere è comunicare. Io sono molto spaventato dallo snobismo, dalle patenti di qualità rilasciate dalle élite dotate di speciali strumenti culturali. Io credo nel rock come espressione popolare, senza velleità di essere arte in senso assoluto. Il giudice è la gente che dice: ”Questo ha senso, quest’altro no”» (Mario Luzzato Fegiz, ”Corriere della Sera” 5/7/2002) • «Se faccio rock è perché credo fermamente al senso originale del rock’n’roll, che in gergo nero voleva dire ”trombare”, nel senso della celebrazione della vita, tant’è che all’inizio non c’erano neanche le parole, era erotico, selvaggio, vitale. Poi nel tempo è uscita fuori la figura della rockstar lontana dal genere umano, con una forte pulsione autodistruttiva, che è il contrario netto dei motivi per cui è nato il rock’n’roll. Io ho la condanna di essere stato cattolico e comunista, per cui ho un’elaborazione di sensi di colpa da record, per cui la predisposizione al bravo ragazzo ce l’hai, volente o nolente. Ma penso anche che non esistano diavoli e santi al cento per cento. [...] Mi fa piacere essere difficilmente catalogabile. Si fa fatica a chiamarmi rocker perché non vivo la vita che ci aspetterebbe da uno che fa rock, e per lo stesso motivo si fa fatica a chiamarmi cantautore. Faccio una musica energica che voglio definire rock, e mi scrivo le canzoni, ma sono contento di questo, mi piace l’idea che facciano fatica a darmi un’etichetta. La gente non riesce a chiamarmi regista, ma di fatto ho realizzato due film. [...] Di precoce non ho proprio nulla. Ma il fatto è che a vent’anni sono partito militare, e quando sono tornato, vivevo ancora con i miei, mio padre era disoccupato, mia madre casalinga, e allora ho fatto l’operaio, il contadino, poi il ragioniere. Insomma ci ho messo del tempo. [...] Da sempre ero un appassionato di canzoni, tutt’ora sono un fan di Lucio Battisti. A dodici anni ho capito che c’era qualcuno che poteva fare le canzoni in modo diverso, erano i cantautori. In particolare Theorius campus, di Venditti e De Gregori, ha cambiato la mia percezione. Tre anni dopo, mio padre, che gestiva una balera coi gruppi di liscio, e per tutta la vita mi aveva detto: I musizéssta i én tótt murt ed fãm, i musicisti sono tutti morti di fame, contravvenne alle sue convinzioni e mi regalò una chitarra. Poi la nascita delle radio libere, la consapevolezza che uno poteva far sentire la sua voce. [...] Ogni volta che divago in altri campi torno più volentieri alla canzone, che deve essere popolare e comunicativa, semplice, anche se non banale, e poi la lingua italiana in musica ha i suoi limiti. Certe cose ti viene naturale raccontarle utilizzando altri linguaggi. [...] Io rischio di essere testardo e ostinato, tratto la canzone con grande rispetto e credo che debba essere un mezzo di comunicazione popolare. Sono contento di sentir dire che le mie canzoni sono facilmente riconoscibili. Sono canzoni che non stanno cambiando la musica, sono semplicemente la voce di uno che vuole dire delle cose» (Gino Castaldo, ”La Repubblica” 20/11/2003).